Walden Pond, Massachusetts, Stati Uniti Gli oceani
Íss er árbörkr | |
ok unnar þak | |
ok feigra manna fár. | |
Il ghiaccio avvolge i fiumi | |
e ripara le onde | |
e condanna i vivi a morte. | |
Antico poema runico islandese.1 |
“Certo che ’sto pianeta lo stiamo mandando proprio a puttane,” dice Abigail Rorer, al volante del suo SUV, mentre attraversiamo il frondoso New England, dirette verso Concord. Di tanto in tanto ad Abigail piace parlare come se fosse originaria del Selvaggio West, e non della forbita Philadelphia. Ho saputo che qualche generazione fa la sua famiglia vantava tra i propri ranghi una cantante d’opera. Eppure, se questa artista ha ereditato il testimone di qualcuno, è quello dei Fratelli Dalziel. Oltre a trascorrere ore su ore ogni giorno nel suo studio a realizzare xilografie china su una lente d’ingrandimento, è anche un’instancabile osservatrice del mondo naturale. Anni fa Abigail s’innamorò delle descrizioni che Thoreau fece dell’ambiente circostante, dei laghetti e dei ristagni idrici del suo paese adottivo, il Massachusetts, e anche lei, ottanta chilometri più a ovest e centocinquant’anni dopo, ha deciso di descrivere la fauna e la flora locale – non a parole, però, bensì per immagini.
È da un paio di settimane che lavoro insieme ad Abigail nel suo studio. Sta incidendo la xilografia di una volpe per illustrare il resoconto che Thoreau fa di una passeggiata invernale. Il mio compito consiste nello scegliere i caratteri mobili per le parole dell’autore, e poi stampare il tutto con un torchio manuale. Mentre sistemo le minuscole lettere di piombo nel compositoio, assicurandomi che siano abbastanza vicine tra loro, in modo che restino allineate quando i rulli inchiostratori passeranno sopra le loro facce, penso al percorso compiuto dalle parole per arrivare fino a questo punto. La nostra pubblicazione sarà anche stampata con la stessa tecnologia usata ai tempi di Thoreau, ma il testo lo abbiamo tratto da un’edizione online della sua opera.
Come ricompensa per le mie fatiche, Abigail mi sta portando a Walden Pond, per farmi vedere dove visse e scrisse Thoreau. Oggi l’unica traccia della capanna è una circonferenza di pietre tra gli alberi – la sua abitazione avrà avuto quasi le stesse dimensioni della mia cabina in Svizzera, ma senz’altro era molto meno attrezzata.
Questa località idilliaca, oggi protetta, un tempo era sfruttata. Mentre camminiamo lungo la riva, Abigail mi racconta che dalla finestra della sua capanna Thoreau non vedeva solo e soltanto natura selvaggia. Nell’inverno del 1846-47 osservò con stupore sul lago “cento uomini intenti al lavoro come agricoltori affaccendati, con tiri e cavalli e apparentemente tutti gli attrezzi agricoli”.2 Stavano coltivando ghiaccio. Al volgere del XIX secolo, l’imprenditore Frederic Tudor si era accorto che i laghi nei dintorni di Boston si congelavano rapidamente nel clima frizzante dell’autunno e col freddo dell’inverno, e decise di “coltivare” il ghiaccio mentre i veri agricoltori riposavano davanti al focolare. Creò un’impresa basata sulla scarsità e la desiderabilità del ghiaccio in un’epoca anteriore alla refrigerazione artificiale; Thoreau si ritrovò a vivere nel bel mezzo di una fabbrica di ghiaccio.
Di Walden, Thoreau scrisse: “È l’occhio della terra; a guardare nel quale l’osservatore misura la profondità della propria natura.” Tudor vedeva solo la lente traslucida che copriva quell’occhio, il ghiaccio – “cristallo artico”, secondo la sua definizione – noto per la sua purezza. Thoreau ne osservò i colori:
il ghiaccio di Walden, visto da vicino, ha una tinta verde, ma da lontano è di un blu meraviglioso e lo si distingue facilmente dal ghiaccio bianco del fiume, o dal ghiaccio puramente verdastro di alcuni laghi, lontani un quarto di miglio. Qualche volta uno di questi grossi blocchi scivola dalla slitta degli uomini del ghiaccio nella strada del villaggio, e resta lì per una settimana, come un grande smeraldo, oggetto d’interesse per tutti i passanti.
Come Thoreau, anche Tudor teneva un diario. Ogni giorno controllava la temperatura e il comportamento del ghiaccio, registrando i dati nel suo “diario glaciale”. Quando i clienti dubitavano del fatto che i laghi potessero fornirne una scorta affidabile, li rassicurava col seguente proverbio: “In cielo l’inverno non marcisce mai”.3 Nell’inverno del 1827-28 scrisse gioiosamente: “La brina copre le finestre, le ruote cigolano, i fanciulli corrono, l’inverno la fa da padrone, e l’equivalente di cinquantamila dollari in ghiaccio scorre per me a Fresh Pond.” Ma l’inverno non “la fece da padrone” a lungo, e Tudor faticò a soddisfare le richieste. Non poteva sapere che la Piccola era glaciale si stava avviando verso la fine. Entro la metà del secolo sarebbero arrivati gli inverni miti, durante i quali i laghi smisero di congelarsi.
Il ghiaccio doveva essere abbastanza resistente da sostenere sia gli uomini che ci lavoravano sopra sia gli attrezzi dell’industria. Il socio di Tudor, Nathaniel Wyeth, aveva progettato un aratro per il ghiaccio. I cavalli, muniti di zoccoli chiodati come quelli usati per le strade invernali, trascinavano un punteruolo sulla superficie ghiacciata; un’estremità del punteruolo tagliava una sezione mentre l’altra tracciava una tacca di riferimento per il blocco successivo. I rettangoli regolari di ghiaccio potevano poi essere sollevati uno a uno e portati a riva spostandoli lungo i canali. Erano necessari strumenti speciali per separare e manovrare le lastre ghiacciate. A volte le mani erano impacciate per via del freddo. Le seghe da ghiaccio e i rampini, le pialle da neve, gli aratri manuali e i ganci da ghiaccio, pale e rastrelli vengono ancora oggi recuperati dai letti dei laghi.
Dopo che Tudor ebbe dimostrato quanto fosse lucroso il ghiaccio, dovette sbaragliare la concorrenza. Nel 1841, al culmine dei traffici commerciali, un agrimensore di Boston fu incaricato di realizzare una mappa di Fresh Pond per illustrare “le linee divisorie delle proprietà estendentisi fino al lago e definenti il diritto alle medesime”.4 Era diventato di fondamentale importanza fissare su carta i confini delle aree dei vari possessori. Il sistema era semplice: tutti coloro che avevano diritto alla proprietà lungo la riva ottenevano una certa percentuale di ghiaccio. “Fred. Tudor” occupava l’intero lato meridionale del lago, accanto al quale correva la Concord Turnpike; la sua porzione era stimata in quasi venti ettari. La maggior parte della restante superficie del lago era stata assegnata alla famiglia Wyeth, e lotti più modesti ai coltivatori Reed, Coolidge, Bright e Bird. La mappa, suddivisa in sezioni dalle linee di proprietà, assomiglia alle moderne mappe dell’Antartide, in cui le rivendicazioni territoriali si dipartono a raggiera dal Polo Sud.
L’elaborato rituale della raccolta del ghiaccio rappresentava solo l’inizio del suo viaggio. I blocchi tagliati dal punteruolo potevano essere stoccati uno di fianco all’altro lasciando solo una minima superficie esposta all’aria. Malgrado ciò, i ferrovieri della nuova linea secondaria per Boston si lamentavano dell’insolita merce che dovevano caricare:
Le sue esigenze sono imperiose, e se non si obbedisce all’istante inizia subito a scongelarsi [...] È umido e pesante, aguzzo e tagliente, e senza quantità sufficienti di sabbione o di granaglie per tenerlo a bada diventa scomodissimo, sbatte contro la vettura e perde il suo rivestimento [...] se oggi siamo oberati di lavoro, domani e posdomani rischiamo di rimanere senza niente da fare.5
Le ferrovie trasportavano il ghiaccio in molte città. Un Baedeker dell’epoca per i viaggiatori diretti negli Stati Uniti sottolinea come il “tintinnio musicale” dell’acqua ghiacciata fosse un sottofondo sonoro caratteristico degli alberghi americani. Da sempre, però, Tudor aveva concepito un commercio del ghiaccio su scala internazionale. Sapeva che i mercati migliori sarebbero stati nei “climi tropicali”. L’idea di spedire il ghiaccio oltreoceano venne considerata da molti come una burla: i mercanti si rifiutarono di noleggiare una nave per la prima impresa di Tudor, quella in Martinica del 1806, e non ci fu verso di ottenere l’assicurazione. Ci volle tutta la sua tenacia per trovare un bastimento su cui imbarcare il primo carico. Durante il viaggio si sciolsero diverse tonnellate di ghiaccio, ma ne giunse a destinazione quanto bastava perché valesse la pena ritentare l’esperienza. Il ghiaccio ricavato dai laghi del Massachusetts era destinato ad attraversare l’oceano Atlantico e ad approdare in India.
Al Concord Museum Abigail e io contempliamo una confezione di dodici matite, realizzate dalla ditta J. Thoreau & Co. L’etichetta, orlata dal tradizionale bordo floreale, recita: “Raffinate matite di grafite – dure, medie e morbide – dotate delle varie qualità richieste nelle belle arti”. Si dice che Thoreau migliorò il design delle matite nel breve periodo in cui lavorò nell’azienda familiare, ma a giudicare dai diari in esposizione preferiva scrivere con una penna d’oca. È nella scrittura a inchiostro che la sua grafia urgente, obliqua, scorre tra le pagine dentro le copertine marmorizzate dei suoi taccuini.
Abigail si ferma in banca, e il cassiere le regala alcuni lecca-lecca al gusto di root beer. Li succhiamo fino al sottilissimo bastoncino durante il viaggio di ritorno in macchina, e intanto parliamo del futuro. Abigail ha in progetto di vendere i libri che stiamo stampando a una fiera che si terrà a Oxford tra qualche mese. “Devi prendere casa da qualche parte, così posso stare da te quando vengo a trovarti,” mi dice. “Non posso permettermeli, gli alberghi inglesi.”
Lo dice per scherzo, ma l’idea di vivere in un posto in pianta stabile mi attrae. Quello che inizialmente era un impulso al risparmio si è tramutato in un’abituale irrequietezza. Alla fine persino Thoreau lasciò le foreste; il suo desiderio di “vivere lentamente” fu mitigato dal senso di obbligo nei confronti degli amici.
Benché non fosse un patito dei viaggi all’estero, preferendo esaminare l’ambiente attorno a casa sua, Thoreau beneficiò dello scambio di idee a livello internazionale. Louis Agassiz6 passò da Boston per un tour di conferenze lo stesso inverno in cui Thoreau assistette alla raccolta del ghiaccio a Walden Pond, e l’assistente del glaciologo, James Cabot, portò una copia della Bhagavadgītā a Concord. Thoreau si eccitava al pensiero che la “stupenda” filosofia che stava leggendo provenisse dalla sponda opposta degli oceani, come sarebbe successo al ghiaccio di Walden, creando un’intima connessione con persone lontanissime: “le nostre secchie, per così dire, si urtano l’una contro l’altra nello stesso pozzo”. Le sagge parole del testo antico sembravano un’equa contropartita in cambio del ghiaccio:
Così sembra che gli assetati abitanti di Charleston e New Orleans, di Madras, Bombay e Calcutta bevano al mio pozzo. [...] Poso il libro, e vado alla mia fonte per trarne acqua, e, oh! incontro il servo del bramino [...] La pura acqua di Walden è mescolata alla sacra acqua del Gange. Con venti favorevoli, essa viene trasportata al luogo delle favolose isole dell’Atlantide e delle Esperidi [...] e, ondeggiando presso Ternate e Tidore e l’imboccatura del Golfo Persico, si scioglie ai venti tropicali dei mari indiani ed è fatta sbarcare in porti di cui Alessandro conobbe solo i nomi.
Il ghiaccio di Walden arrivava sì a Madras, Bombay e Calcutta, ma a goderne erano le élite governative della Compagnia britannica delle Indie Orientali, non i bramini. Frederic Tudor aveva notato che le navi dirette da Boston ai porti dell’India passando per l’oceano Atlantico erano piene di zavorra, che avrebbe potuto essere comodamente (e a bassi costi) sostituita con dei carichi di ghiaccio. Per pagare i suoi creditori dopo una catastrofica speculazione in caffè, decise di correre un altro rischio. Il Tuscany salpò il 12 maggio 1833 con parecchie tonnellate di ghiaccio a bordo. Al comandante, Tudor scrisse: “Non appena arriverete a dodici gradi di latitudine nord, avrete trasportato il ghiaccio nel punto più a sud mai raggiunto, e la vostra nave diventerà una nave da ricerca.” Contrariamente ai comandanti che pilotarono le loro navi in cerca del Passaggio a Nord-Ovest, quello del Tuscany tutto voleva tranne che il ghiaccio si sciogliesse.
Quattro mesi dopo, quando il Tuscany raggiunse la costa dell’India, l’Ufficio delle dogane, del sale e dell’oppio autorizzò lo sbarco del carico senza dazi per velocizzare l’ingresso della merce di lusso affinché non si squagliasse. Un simile atto di rinuncia non aveva precedenti. Inoltre, come riferì l’India Gazette, l’Ufficio ordinò che “venisse fornito ogni impianto in dotazione al Dipartimento delle dogane ai fini del trasporto [del ghiaccio], senza ritardi o impedimenti, dalla nave al deposito o altro luogo di stoccaggio”. All’equipaggio fu addirittura concesso di scaricare la merce in nottata per evitare di esporlo al calore del sole. L’indomani mattina il ghiaccio era già pronto per l’uso. Il giornalista Joachim Stocqueler, che fu uno dei primi a imbarcarsi sul Tuscany, scrisse:
Quante tavole di Calcutta brillarono di blocchi di ghiaccio quella mattina! Le burriere ne erano ricolme; i bicchieri d’acqua si trasformarono in mari artici in miniatura con iceberg flottanti in superficie. Ogni attività fu sospesa fino a mezzogiorno, dimodoché le persone potessero correre a prestarsi una visita di congratulazioni l’uno con l’altro e a escogitare un metodo per perpetuare le scorte di ghiaccio. Tutti invitarono questo e quello a pranzo ad assaggiare un po’ di chiaretto e di birra rinfrescati con l’articolo importato.7
I giornali dispensarono consigli sui mezzi migliori per accumulare e trasportare il ghiaccio, e al tempo stesso per conservarlo il più possibile al fresco (“un involucro di lana o pula di riso”), mettendo in guardia da quelle sostanze, come il salnitro o il sale, che avrebbero potuto guastarne l’integrità. Mantenere intatte il più a lungo possibile le scorte di ghiaccio era una questione di interesse pubblico. Oltre che per raffreddare il chiaretto e la birra, e per conservare gli alimenti deperibili, il ghiaccio veniva usato per lenire le fronti febbricitanti dei malati. Si arrivò così a sostenere che il ghiaccio garantiva l’esistenza degli organismi, oltre che di un certo stile di vita coloniale. Nel giro di due anni a Calcutta fu costruita una ghiacciaia.
Eppure non mancarono le reazioni scettiche. Il ghiaccio è la nemesi di uno sciocco marabù (un uccello saprofago) che ne inghiotte in maniera inconsapevole un pezzo nel racconto di Rudyard Kipling I becchini:
Sentii immediatamente [dice la gru] un terribile freddo, che partendomi dal gozzo mi arrivava fino alla punta dei piedi e mi tolse perfino la voce, intanto che i barcaioli si burlavano di me. Non ho mai sofferto un freddo simile. Mi misi a sgambettare per il dolore e per lo stupore, finché riuscii a riprender fiato, e allora ballai e strepitai contro la falsità del mondo, e i barcaioli risero tanto da rotolarsi per terra. Ma la cosa più stupefacente, a parte il freddo straordinario, fu che io non avevo più niente nel gozzo quand’ebbi finito di lamentarmi!8
Attraverso l’indiscriminato ingozzarsi del marabù, Kipling vuole esporre una morale sulle conseguenze dell’avidità. Tudor, invece, non aveva motivo di lamentarsi: la pionieristica spedizione del ghiaccio a Calcutta fruttò a lui e ai suoi soci tremilatrecento dollari a testa, e il commercio con l’India lo avrebbe salvato dalla rovina. Alcuni cronisti giunsero persino a paragonare il ghiaccio di Boston all’oro della California. Tudor iniziò a esportare il ghiaccio in Europa, Cina e Australia, e prima di morire nel 1864 fece in tempo a diventare il primo milionario americano del periodo post rivoluzionario.
La guerra d’indipendenza era terminata il 3 settembre 1783, e George Washington rassegnò le dimissioni come comandante in capo dell’esercito continentale qualche giorno prima di Natale. Avendo tempo libero a propria disposizione, provvide ad ampliare la sua tenuta di Mount Vernon. Consultò, riguardo alla costruzione di una ghiacciaia, il compatriota Robert Morris, che gli rispose il 15 giugno 1784 con un’apposita descrizione:
La porta per accedere alla ghiacciaia guarda a nord, in mezzo al pavimento si ricava una botola attraverso cui far entrare e uscire il ghiaccio. Mi sa che la soluzione migliore sia, appena si è inserito il ghiaccio, romperlo in piccoli pezzi e colpirlo con pesanti clave o bastoni come quelli usati dai lastricatori. Se lo si batte ben bene, dopo un po’ si compatterà in un’unica massa solida, e per tagliarlo occorrerà usare uno scalpello o un’ascia. Un anno ho provato con la neve e mi si è sciolta in giugno. Il ghiaccio si mantiene fino a ottobre o novembre e credo che se il buco fosse più largo, in modo da permettere una capienza maggiore, si manterrebbe fino a Natale.9
“P.S.” aggiunge. “Il tetto di paglia è la miglior copertura per una ghiacciaia.” Il diario di Washington nel gennaio del 1785 menziona la preparazione di due pozzi per “l’introduzione del ghiaccio”, uno al chiuso e un altro nella sua tenuta. Entro la fine del mese entrambi i pozzi erano stati riempiti di ghiaccio. In giugno Washington lamenta: “Aperto il pozzo in cantina dove avevo depositato una riserva di ghiaccio ma non ne è rimasta nemmeno la più piccola particella”.10 Il pozzo esterno aveva un serbatoio più grande, e fu proprio questa ghiacciaia che Washington si industriò a perfezionare il seguente autunno. Negli anni successivi, il suo diario registra la raccolta del ghiaccio nel mese di gennaio. Il ghiaccio veniva preso dal Potomac congelato, ad appena un’ora di distanza di pagaia verso valle partendo dalle distese fangose dove sarebbe stato costruito l’aeroporto che un tempo portava il suo nome. Il fiume che oggi guida i piloti aeronautici in passato rinfrescava le bevande presidenziali.
Fisso la mappa sullo schermo nello schienale davanti a me. Guardare il minuscolo velivolo bianco – lo stesso che mi contiene – rollare pixel dopo pixel mi fa l’effetto di un’esperienza extracorporea. La traiettoria aerea descrive un arco verso la punta della Groenlandia costeggiando l’Atlantico, anziché attraversare direttamente l’oceano in direzione di Heathrow. Alla faccia della trasvolata transatlantica. Lo so che in questo modo la rotta verso l’Inghilterra è più breve, ma l’impressione che trasmette è che il pilota sia nervoso quanto me di sorvolare le acque. Prima che il sole svanisca, sono rassicurata dalla visione dei picchi innevati che hanno segnato l’inizio delle mie ricerche sul freddo, qualche migliaio di metri più in basso.
Un libro pubblicato ad Amsterdam nel 1665 – Mundus Subterraneus – contiene una mappa raffigurante un’inaspettata isola nel bel mezzo dell’oceano Atlantico.11 (A un certo punto dell’esistenza del volume, l’olio dell’inchiostro da stampa cominciò a filtrare attraverso la carta, lasciando trasparire il testo stampato sul verso della mappa, come una specie di tenue marezzatura composta da parole speculari.) I grandi marinai olandesi non si sarebbero mai sognati di fare vela verso Atlantide, nonostante fosse segnata su questa e altre mappe, perché la sua prima menzione nei documenti arrivati a noi (a opera di Platone attorno al 360 a.C.) ne dettaglia solo il momento della scomparsa:
Ma nel tempo successivo, accaduti grandi terremoti e inondazioni, nello spazio di un giorno e di una notte tremenda, tutti i vostri guerrieri sprofondarono insieme dentro terra, e similmente scomparve l’isola Atlantide assorbita dal mare [...].12
Malgrado la sua scomparsa, i riferimenti ad Atlantide perdurarono nei secoli, in un fil rouge che si dipana da scrittori classici come Platone per arrivare, attraverso l’accenno alla “favolosa isola” del Walden, ai romanzi e ai film contemporanei. Come per la leggendaria Thule, sono state formulate molte teorie sulla sua origine, la sua posizione e le cause per cui sprofondò sotto le onde. Alcuni scrittori suggeriscono persino che Atlantide e Thule fossero lo stesso luogo.
Una delle più recenti incarnazioni di Atlantide si deve all’artista americano Robert Smithson. Nel 1969, trecento anni dopo il Mundus Subterraneus, Smithson creò un modello in scala dell’isola sommersa assemblando frammenti di vetro in un sito nel New Jersey, dopodiché – come era sua abitudine – eseguì degli schizzi per l’installazione, schemi per mostrare ai curatori delle gallerie in che modo ricreare in loco l’opera. Avevo da poco visto, durante uno dei miei viaggi, Map of Broken Glass (Atlantis)13, e, incuriosita dal metodo di lavoro di Smithson, andai a controllare online gli schizzi per l’installazione. Sono disegni grezzi e immediati, uno dei quali consiste in una prospettiva a volo d’uccello del vetro frastagliato, simile a quella delle montagne ghiacciate sotto di me. “PROCURARSI TONNELLATE DI VETRO TRASPARENTE,” recitano le istruzioni di Smithson scribacchiate in maiuscolo. “TRACCIARE LEGGERMENTE (E IN MODO APPROSSIMATIVO) LA SAGOMA SUL PAVIMENTO, POI RIEMPIRLA.” C’è anche una veduta laterale, dove specifica l’altezza desiderata. “BILANCIARE I PEZZI GRANDI UNO CONTRO L’ALTRO, PER SORREGGERLI USARE QUELLI PIÙ PICCOLI.” I pezzi più grandi vengono sorretti da quelli più piccoli: Smithson sapeva come ci si costruisce una reputazione artistica. Consapevole del fatto che col tempo le sue opere si sarebbero deteriorate, girò dei filmati e scattò delle fotografie aeree per documentarle. Comunque sia, ho la sensazione che gli schizzi per l’installazione fossero un ripensamento – le opere più note di Smithson non si trovano nei musei. Spiral Jetty (Molo a spirale), un ampio earthwork formato da rocce basaltiche, cristalli di sale e fango, si protende dentro il Great Salt Lake, nello Utah. I lavori di costruzione iniziarono nell’aprile del 1970, lo stesso anno in cui fu inaugurata la Giornata della Terra. Era la prima opera per la quale Smithson dovette acquistare una proprietà fondiaria, e incontrò non poche difficoltà a trovare degli appaltatori disposti a imbarcarsi in un progetto così audace. All’epoca in cui fu realizzato, lo Spiral Jetty era sommerso nel lago. In anni recenti la siccità ha portato l’acqua a recedere dalla riva, e l’opera è visibile per lunghi periodi. Dove un tempo i suoi contorni erano lambiti dall’acqua lacustre, ricca di minerali, oggi una pallida sabbia viene spinta dal vento.
Smithson credeva nell’entropia, il naturale movimento di tutte le cose dall’ordine al disordine. Se oggi fosse vivo – morì nel 1973 in uno schianto aereo in seguito a una virata troppo brusca mentre stava perlustrando un sito per realizzare una nuova opera in Texas – si stupirebbe di quant’è già cambiato lo Spiral Jetty? Le schegge di vetro della Map di Smithson mi ricordano i frammenti di ghiaccio con cui Kay cerca di comporre la parola “eternità” nel castello della regina delle nevi, ma anziché stenderli sul pavimento per formare delle lettere, l’artista americano li impila come un tesoro nel forziere.
Un’isola sorretta dalla sua stessa riva silicea; montagne che devono lottare per non cadere. Solo quando vedo gli schizzi di Smithson riesco ad apprezzare appieno l’intima tensione del materiale nella galleria, in bilico tra stasi e crollo. L’evocazione trasparente di un’isola che non è più visibile. Strano davvero che debbano essere un lago ristretto dalla siccità e una pila disordinata di macerie esposti in un’ex fabbrica di biscotti, anziché le calotte glaciali vere e proprie, a farmi capire il rapporto che lega i due argomenti che mi hanno ossessionato, i libri e il ghiaccio. Le opere di Smithson svelano il fascino dei magazzini culturali e le loro limitazioni. Spiral Jetty è più eloquente, nel suo mutare sotto l’azione delle forze naturali, rispetto a Map. Questa stupenda, turbolenta catasta di vetro – traccia di qualcosa che già non esiste più e potenzialmente riproducibile in un numero infinito di spazi – mi fa pensare agli allunaggi, evento recente quando l’opera fu realizzata, e al sogno dell’umanità di fondare colonie su altri pianeti. Per quanto le nostre vite siano transitorie, ci troviamo sospesi tra due stati: tra il ghiaccio solido e l’acqua liquida, tra le storie passate e le case future che ancora stiamo cercando.
Le isole potranno anche sprofondare, e i mari ricoprirle d’acqua, ma possono pur sempre fornire il terreno su cui ancorare nuove isole. Il valore medio dell’innalzamento del livello dei mari è stato stimato dalla NASA in tre e quarantuno millimetri annui, fenomeno dovuto all’aumento delle temperature e al conseguente scioglimento delle calotte polari.14 Se questa tendenza rimarrà invariata, New York, Miami, Washington e altre città costiere degli Stati Uniti sono condannate a subire la perdita di edifici iconici. Paesi come l’Olanda, il Bangladesh e le Filippine perderanno notevoli superfici di terra. Le popolazioni di qualche nazione insulare sono già rifugiati climatici. In anni recenti, gli abitanti delle Isole Marshall (uno stato insulare situato nel Pacifico comprendente l’atollo di Bikini), dopo che le loro case sono diventate inabitabili, hanno iniziato a migrare in Arkansas. Nel 2015, in un discorso tenuto alle Nazioni Unite, Gaston Browne, il primo ministro dello stato caraibico di Antigua e Barbuda, ha puntato il dito contro “gli eccessi dei paesi più grandi e più ricchi, che non recederanno dal loro abuso dell’atmosfera terrestre, anche a rischio di eliminare altre e più antiche società”.15
Per prevenire la realtà tragica e irreversibile di un simile sradicamento, alcuni paesi stanno adottando nuove tecnologie e prefigurando l’ipotesi di edificare futuribili città galleggianti. La questione non è più come prevenire le inondazioni marine, ma come garantire la vita sull’acqua – inizialmente come un’estensione del territorio esistente, ma in ultima istanza come soluzione alternativa. Gli olandesi stanno usando le loro competenze marittime per elaborare delle strategie di intervento nel momento in cui i sistemi di difesa dalle acque che proteggono i Paesi Bassi diventeranno obsoleti. Gli ingegneri del Maritime Research Institute Netherlands guidati da Olaf Waals hanno progettato dei pannelli a incastro su cui si potrebbero erigere nuove città. Questi triangoli galleggianti di differenti dimensioni resistono alle tempeste; possono essere ancorati ai fondali marini o ormeggiati a riva. Oggi come oggi, di pannelli simili ne esistono pochi – bastano appena a formare una piattaforma di prova dell’Istituto. Un giorno questo concetto troverà applicazione per realizzare enormi isole flessibili in grado di sorreggere insediamenti urbani con tanto di case, parchi e biblioteche.
Uno dei viaggiatori che Robert Boyle cita nei suoi Esperimenti sul freddo è l’amico John Evelyn. Scrivendo dall’Italia negli anni quaranta del XVII secolo, Evelyn raccontò a Boyle di aver visto “fosse di neve [...] scavate nei luoghi più freddi e solitari”, spesso all’ombra di alberi o montagne. Per preservare la neve che portavano giù dalle vette a dorso di asino, i contadini “la compattano dandole la consistenza di una focaccia di ghiaccio, spessa circa trenta centimetri, sulla quale adagiano uno strato di paglia, e su questo uno di neve, compattata come prima, e continuano così, con un letto di paglia e un letto di neve finché la fossa non è piena fino all’orlo”.16 Questo bagaglio di conoscenze, Evelyn lo portò con sé in Inghilterra, e la moda delle “conserve di neve” ben presto si diffuse, tanto che in quel di Greenwich, sul fianco di Castle Hill, fu costruita una ghiacciaia apposta per il re. Sarà anche sembrata una nuova moda all’aristocrazia che la adottò, ma la ghiacciaia era un’invenzione antichissima: la prima di cui si abbia notizia fu costruita in Mesopotamia oltre quattromila anni fa. Un testo cuneiforme della città di Mari, sulle rive dell’Eufrate, parla di una ghiacciaia, lunga quattro e profonda due canne, contornata da frasche di tamerice.
Successivamente all’epoca di Boyle, un triumvirato di ghiacciaie venne costruito nella tenuta del castello di Lismore, nel Waterford, dove lo scienziato era nato nel 1627. Edmund Foley, il fondatore della Blackwater Fishery, fece scavare due profonde fosse accanto alla strada che conduce al fiume Blackwater. La terza ghiacciaia è situata sul crinale della collina nell’attuale Millennium Park di Lismore. Ero ospite di una scrittrice di viaggi che era a casa per un breve periodo, e mentre stavo portando i suoi cani a fare una passeggiata ho scoperto le ghiacciaie. Le strutture erano in fase di restauro, grazie agli sforzi del Lismore Tidy Towns Committee. Quando tornai coi cani al focolare, fradicia e sporca di fango, Dervla mi spiegò che le fosse erano servite come luogo di stoccaggio per i pesci catturati nel fiume tra Youghal e Cappoquin. Alcuni inverni il Blackwater straripava e si congelava sopra gli Inches, le pianure antistanti il castello. La distesa veniva usata dai bambini come pista di pattinaggio, finché non arrivavano i pescatori a rompere il ghiaccio, frantumavano le lastre irte di fili d’erba e le trascinavano per un chilometro e mezzo sulla rupe fino alle fosse. Con mia sorpresa, trovai una fonte di acqua sacra, St Carthage’s Well, che zampillava dalla roccia di fianco alle ghiacciaie. Se il ghiaccio del fiume veniva trasportato verso l’alto, l’acqua benedetta scorreva a valle.
Un tempo molto diffuse vicino ai fiumi, presso i porti principali e le tenute di campagna in tutta Europa e in America, le ghiacciaie, lentamente caddero in disuso. Il riscaldamento del clima di fine Ottocento diminuì la loro efficienza, senza contare che la refrigerazione elettrica era alle porte. Negli anni trenta del Novecento molte persone ormai ignoravano che le ghiacciaie fossero mai esistite, e tutte le ghiacciaie erano vuote – o quantomeno non contenevano ghiaccio.
Una delle prime cose che faccio quando torno a Oxford è rinnovare la mia tessera della Biblioteca bodleiana. All’angolo di Broad Street, negli anni che ho trascorso in viaggio, è spuntata una nuova biblioteca. Dietro la facciata di vetro, il piano terra offre ai visitatori uno spazio espositivo per ammirare i pezzi più significativi della collezione. Anche gli scaffali al piano superiore sono circondati da vetrate, per cui gli utenti sulla balconata possono essere osservati da chi beve il caffè nell’atrio al piano di sotto. The Ice-houses of Britain (Le ghiacciaie della Gran Bretagna) è il genere di libro che difficilmente passa inosservato: un tomone di cinquecento e passa pagine frutto di anni e anni di ricerca. La rilegatura è in tela verde scuro, il colore della mia vecchia uniforme scolastica. Ciò che invece sfugge a un osservatore casuale è che questo volume è stato compilato con un tale entusiasmo che mi sembra di essere in compagnia della Banda dei cinque.
Tutte le iniziative miranti a preservare le ghiacciaie (come quella di Lismore) si fondano su studi come questo. Nel 1980 Sylvia Beamon e Susan Roaf iniziarono a stilare un censimento di tutte le ghiacciaie presenti sul suolo britannico. Fu un’impresa titanica. Spedirono centinaia di lettere e rilevamenti topografici ad autorità locali, gruppi di archeologi e storici, biblioteche, musei e singoli proprietari. La caccia fu uno sforzo di gruppo. Gli autori avvertirono i loro corrispondenti che “spesso non si prova alcun piacere a cercare ghiacciaie in posti fuorimano, incuneandosi tra ortiche e rovi e fitti arbusti per raggiungere edifici fatiscenti”.17 La ricerca di una ghiacciaia può essere vanificata da un sopravvenuto cambiamento dei confini della contea; dalla difficoltà ad accedere in terreni privati; e addirittura dalla circostanza che i pipistrelli svernino tra le loro rovine, ed è contro la legge disturbarli.
Sarà capitato che le due esploratrici perdessero ogni speranza di trovare anche solo una ghiacciaia intatta. Il magazzino di Perry a Bristol, dove venivano stoccate tonnellate di ghiaccio per rifornire pescherie, ristoranti e alberghi, fu ridotto in cenere da un incendio nel maggio del 1895. (Sembrerà paradossale, ma si trattava di un problema diffuso, in quanto le ghiacciaie nella maggior parte dei casi erano foderate di paglia.) Il tesoriere della Clarendon School nel Bedfordshire scrisse loro per informarle che la ghiacciaia era stata “fatta saltare in aria da un contadino del posto nel 1973”; a Brockenhurst nell’Hampshire “[l]a ghiacciaia fu riempita negli anni settanta, e a quell’epoca non c’era un tetto”; la ghiacciaia di Park Hospital a Moggerhanger fu “sprangata nei primi anni settanta per impedire atti di vandalismo”; e persino al Waddesdon Manor “non si è potuto ispezionare la ghiacciaia per via delle sue condizioni pericolanti. L’ingresso è sigillato [...]” Le risposte più comuni erano altrettanto scoraggianti: “Non è dato sapere se la ghiacciaia esiste ancora” o “Nessuna informazione disponibile”.
Per via della loro varietà di struttura, può essere difficile riconoscere una ghiacciaia. Le fosse potevano avere una forma a cupola o globulare, e le camere potevano essere circolari, rettangolari o a galleria, secondo il sistema classificatorio Niven Robertson del 1953. In luoghi lussuosi potevano essere camuffate come tempietti greci o romani; nelle periferie erano uno spazio come un altro per immagazzinare cose, e una volta che non si aveva più bisogno del ghiaccio venivano riempite di cianfrusaglie o destinate ad altro uso. Russell’s a Watford, un’ex casa vedovile convertita in ospizio, riferì: “La ghiacciaia, avendo esaurito la sua funzione originaria, è oggi un locale caldaia.” I proprietari della tenuta di Wydcombe, sull’isola di Wight, risposero dicendo di aver trovato una “struttura non identificata”: una fossa di mattoni sagomata a botte profonda centottanta centimetri; “l’opinione generale è che non fosse una ghiacciaia, ma più probabilmente una cloaca o un pozzo nero”. Non sorprende che il sistema Niven Robertson annoveri la categoria “strutture dubbie” – che forse (ma non è possibile confermarlo) in origine ospitavano una ghiacciaia.
Mentre aspetto per consegnare il libro, sento che le due bibliotecarie si stanno lamentando per il freddo. Una è in procinto di iniziare il turno nella portineria della vecchia biblioteca, e l’altra, più anziana, le consiglia di coprirsi bene. “I muratori si erano portati un intero set di abbigliamento da lavoro. Uno dei giacconi era XXL, troppo grande per chiunque, e allora ce l’hanno lasciato. A tutti quelli che l’hanno provato striscia per terra.” dice. “Se vuoi puoi prendertelo.”
“Ma non è giallo fosforescente?” chiede la giovane.
“Be’, sì, ma o il personale sbrilluccica un po’ o ci alzano il riscaldamento. Esiste una temperatura minima per la Salute e Sicurezza sul lavoro! Chi si credono di essere, a tenerci inchiodate a quella sedia per un’intera ora sotto la minima consentita? Nemmeno un soffio di riscaldamento. Te ne stai lì immobile come uno stoccafisso, con le porte che si aprono e si chiudono in continuazione. E poi arrivano i gruppi di turisti e la porta resta costantemente spalancata. E non si tratta mica di pochi decimi di grado, qui siamo sotto di non so quanti gradi. Ovviamente lui ha detto che sembriamo ridicole con quella palandrana. ‘Che problema c’è?’ gli faccio. ‘Non vuoi che gli utenti sappiano che stiamo crepando dal freddo?’”
La conversazione non accenna minimamente a finire, per cui appoggio con delicatezza il volume sulla scrivania accanto a loro e me ne vado. Provo un certo imbarazzo al pensiero che per tutto quel tempo sono stata lì a leggere un libro sul freddo, ma il freddo patito da quelle bibliotecarie non mi ha nemmeno lontanamente sfiorato il cervello.
Susan Roaf, una delle autrici del censimento, dopo essersi dedicata allo studio delle ice-houses, è diventata un’esperta nel campo della progettazione degli edifici a bassa emissione di carbonio. È la responsabile di Oxford Ecohouse, costruita nel 1995 – la prima casa su cui sia mai stato installato un impianto fotovoltaico. Quando concepì l’idea dell’edificio, la Roaf si sentì dire dal governo che il suo progetto non avrebbe funzionato perché in Inghilterra non c’era abbastanza sole. L’Ecohouse ha dimostrato che si sbagliava, assurgendo a modello di edilizia a basso impatto ambientale. La si individua subito dalla strada, con le sue cellule fotovoltaiche disposte in maniera simmetrica sopra le scure tegole, una di fianco all’altra. Il tetto, però, non può rivaleggiare con l’altra perla architettonica suburbana di Oxford, dagli autoctoni soprannominata “la casa dello squalo”: The Shark House.
Sono andata da un agente immobiliare in cerca di un appartamento in affitto, e nella brochure il mio sguardo cade sulla Shark House. Simon mi racconta che il civico 2 di New High Street è sfitto da tempo. Sono tanti i curiosi, dice, ma finora tutte le persone che hanno fatto un sopralluogo nella modesta casetta a schiera vittoriana hanno deciso di non voler convivere con uno squalo. La creatura sembra essere precipitata giù dal cielo, sfondando col muso il tetto e rimanendo incastrata con le pinne pettorali; la coda torreggia sopra i comignoli. La sera in cui Bill Heine comprò questa casa nel 1986, sentì sopra di sé il rombo di un gruppo di aerei da caccia, decollati dalla base militare RAF Upper Heyford e diretti a Tripoli. Non molto dopo commissionò all’artista John Buckley la scultura in vetroresina, lunga sette metri, che installò il 9 agosto, l’anniversario del bombardamento di Nagasaki, come monito ai passanti che gli imprevisti, anche quelli in grado di cambiare il mondo, possono verificarsi in qualsiasi momento. L’idea che uno squalo oceanico possa finire incastrato dentro una casetta a schiera in uno dei punti più lontani dal mare delle Isole Britanniche sembra, col passare del tempo, sempre meno peregrina. La Roaf, a differenza di Heine, si adopera per scoprire come possiamo prepararci a un futuro incerto adattando le nostre città in modo da far fronte ai mutamenti climatici; il percorso della sua carriera – dallo studio delle ghiacciaie del passato alla creazione delle ecocase per il futuro – riflette il parallelo aggravarsi delle preoccupazioni ambientali.
Eco- è un prefisso così comune che si tende facilmente a dimenticare il significato racchiuso in queste tre lettere. La sua etimologia deriva dal greco οἶκος, “casa” – vocabolo all’origine della parola “economia”: la capacità di gestire con efficacia le proprie risorse.
La ditta di stoccaggio che aveva finanziato il mio primo viaggio in Groenlandia mettendo a disposizione uno spazio gratuito nel proprio magazzino a Tottenham non mi ha spedito una sola fattura nei miei sette anni di peregrinazioni, ma non potevo fare affidamento sulla loro benevolenza (o smemoratezza) in eterno. Un bel giorno, verso la fine dell’anno, dopo aver trovato una sistemazione stabile, ho preso l’autobus 341 per Angel Road. Ho percorso i corridoi pieni di spifferi del magazzino verso la mia unità, con le luci che si spengono automaticamente dietro di me con sconcertante ritardo. Apro il lucchetto. Grazie al cielo non ho smarrito la chiave.
C’è un cumulo di scatoloni accatastati fino alla rete metallica in cima all’unità di stoccaggio, che ha la forma di una cabina telefonica. Facendo leva, tolgo uno scatolone dalla pila, poi un altro, e strappo lo scotch con cui li avevo sigillati in tutta fretta. Non ho più messo gli occhi sui contenuti da quando ho lasciato il monolocale. I sacchetti di plastica si sono disintegrati come foglie d’autunno attorno agli oggetti che contenevano. Cosa me ne facevo di tutte queste candele? La mia teiera azzurra è caduta e si è distrutta nonostante i maglioni in cui l’avevo avvolta. Come blocchi di ghiaccio in una ghiacciaia, i meglio conservati sono i libri.
Tiro fuori il primo strato di scatoloni e li appoggio nel corridoio, dopodiché mi spingo sempre più verso il fondo del comparto. Tra meno di un’ora verrà a recuperarmi un amico con un furgone. Il tempo stringe – dovrò frenare la mia curiosità e aspettare finché gli imballi non saranno a casa.
Il potenziale di tutti gli scatoloni di libri mi si dischiude quando li porto su per le scale. Ho vissuto per così tanto tempo senza questi volumi familiari. Mentre li riporto alla luce, quante sono le storie che avevo dimenticato. Qualche racconto l’avevo confusamente custodito nelle sale della mia memoria. Ora il mio minuscolo appartamento era diventato un palazzo con un’infinità di stanze: documenti di molteplici passati, e sogni di svariati possibili futuri.
Durante i miei viaggi avevo accumulato altri libri. Tra questi, una copia del dizionario groenlandese-inglese, la stessa vecchia edizione che avevo consultato nel Museo di Upernavik.18 Prima di riporlo non ho resistito alla tentazione di riaprirlo un’altra volta, facendo attenzione al dorso rovinato e alla fragile sovracoperta che si è consumata troppo negli ultimi anni. Mi sono tornate in mente le mie conversazioni con Grethe, e ho ripensato con meraviglia alla smania di insegnarmi la sua lingua e alla sua circospezione nel metterlo per iscritto. Mi imbatto nella voce ilisiveeruppaa: “mettere qualcosa in un posto sicuro ma non riuscire a ritrovarlo”. Qualche tempo fa il termine mi sembrò sintetizzare i dubbi che nutrivo riguardo al valore dei patrimoni archivistici, oltre alle riserve espresse dal museo sulla raccolta di opere scritte.
Forse perché stavo sfogliando il dizionario seduta su una comoda poltrona, anziché davanti alla scrivania di un museo polare, qualcosa nel tono della definizione inglese mi sembrava stridere. Sapevo già che il dizionario era inaffidabile: il precedente possessore aveva annotato diverse correzioni sui margini con mano tremante. Però ero affezionata al libro, malgrado o forse proprio per via delle sue possibili inesattezze. Decido di controllare il significato di ilisiveeruppaa su un dizionario online dell’Oqaasileriffik, di recente promosso dal segretariato linguistico della Groenlandia. Capisco così quanto sia pericoloso imparare una lingua da un libro, oltretutto in traduzione e vecchio di quasi un secolo, perché la definizione era diversissima – o per lo meno così mi è parso di primo acchito: “Seppellire dentro una tomba o una bara”.
O l’autore originario aveva commesso un errore, o il significato non era più lo stesso. Oppure erano corrette entrambe le definizioni? Una tomba è un posto sicuro in cui lasciare delle parole? Si può dire di aver perso una cosa, se si trova dentro una bara? E cosa succederebbe se il luogo di sepoltura non fosse una tomba ma una pila ghiacciata di pietre, un cairn, una ghiacciaia – un posto in cui un messaggio potrebbe rimanere sepolto finché non lo trova la persona giusta? Ho pensato agli oggetti sepolti nel ghiaccio attorno a Upernavik, in attesa di essere scoperti con l’innalzamento delle temperature. Non sarebbe passato molto tempo prima che queste storie venissero rivelate. Il ghiaccio sul punto di scomparire era contenuto nella nostra storia, adesso.
Ho messo via il dizionario, riponendolo al sicuro, e sono tornata agli scatoloni. Scatoloni di vestiti, scatoloni di posate. E qui cosa c’era? Risme di carta ricoperte con la mia grafia. Ho riconosciuto dei manoscritti su cui stavo lavorando prima di lasciare Londra. (Di graffette, invece, nemmeno l’ombra; ero stata ben addestrata.) Dopo tutto questo tempo, sembrava che l’avesse fatto un’altra persona, quel lavoro – gli indecifrabili depennamenti, gli anelli di caffè. Ho richiuso in fretta lo scatolone. Me ne sarei occupata in un altro momento.