Museo di Upernavik, Groenlandia
E se il sole non avesse cancellato le tracce sul ghiaccio, esse ci parlerebbero di orsi polari e dell’uomo che aveva la fortuna di catturare gli orsi. | |
Necrologio di Simon Simonsen di Upernavik, soprannominato “Simon il cacciatore di orsi”, 19241 |
Dalla baia di Baffin l’unica cosa che si riesce a vedere dell’isola è il museo costruito sul promontorio, la cui struttura lignea è verniciata di rosso sangue. Si dice che sia il museo più a nord del mondo. Certi giorni l’edificio è quasi completamente sepolto sotto la neve o nascosto dalla nebbia. In inverno l’intera isola è circondata da un fossato di ghiaccio.
In queste condizioni navigare diventa impossibile, per cui il mio primo avvistamento di Upernavik avviene dall’alto. L’aereo a elica si ferma spesso a fare rifornimento sorvolando la costa occidentale della Groenlandia. All’aeroporto di Uummannaq scendo dalla scaletta per sgranchirmi le gambe. Il pilota ha parcheggiato in mezzo alla pista e io vago fino al terminal per comprare delle mentine. Il cielo è di un indaco denso, interrotto solo dalle stelle. Nel corso del viaggio il tempo peggiora. Quando raggiungiamo i 72 gradi nord e iniziamo la nostra discesa in direzione di Upernavik, la tempesta si è intensificata e il velivolo fatica a posarsi sulla corta pista d’atterraggio. Ma non possiamo tornare indietro, né avanzare verso un approdo più sicuro.
Nell’infuriare della tormenta riesco appena a scorgere l’insegna dell’aeroporto illuminata dai faretti – in lettere maiuscole incise nel legno e pitturate di rosa. Upernavik significa “posto primaverile”. L’isola fu così battezzata da un popolo nomade che tanto tempo fa arrivò qui in barca, con lo scioglimento dei ghiacci invernali, per commerciare e pescare. In seguito gli abitanti hanno imparato ad adattarsi, a vivere qui tutto l’anno e a sfruttare il ghiaccio.
È da tre giorni che viaggio per raggiungere quest’isola – gli orari e a volte i giorni dei voli sono stati incerti, e mi sono sentita inerme come un balocco nella stanza di un bambino che ha lasciato i giochi per andare a fare merenda. La parte finale del viaggio richiede solo pochi minuti. Man mano che il taxi fa lo slalom dall’aeroporto alla mia nuova casa vicino al porto, passo davanti alle finestre illuminate delle case sparse lungo il pendio. Una leggenda artica2 narra che, quando ancora il sole non era nato, il ghiaccio aveva la capacità di bruciare. La gente si serviva del ghiaccio per accendere le lampade, perché nessuno poteva cacciare col buio. Stasera il ghiaccio marino è luminescente, e oggetti misteriosi luccicano al crepuscolo sul litorale, le forme distorte e nascoste sotto la neve. Passeranno settimane prima che il disgelo primaverile, e i raggi solari, svelino di cosa si tratti.
Quando ho ricevuto l’e-mail in cui mi si invitava a lavorare presso il “rifugio” degli artisti del museo, mi è stata offerta una scelta: estate o inverno. “A differenza della stagione estiva,” scrisse il direttore del museo, “l’inverno, per via dell’oscurità, a molti abituati a vivere più a sud sembra un periodo orribile e sgradevole che incombe minaccioso. Ma non appena ci si abitua al buio, si rivela essere una parentesi serena che lascia il tempo per pensare, che di solito manca.”
A me il tempo per pensare mancava senz’altro. Di giorno lavoravo per un commerciante londinese di libri e manoscritti, e di sera coltivavo i miei progetti. Mi piaceva il mio lavoro. Gli scrittori portavano le bozze delle loro poesie e dei loro testi teatrali nel negozio a Seven Dials e io sistemavo le carte in disordine, togliendo le graffette e i fermagli arrugginiti e stilando indici. Dopo mesi di delicate trattative, le carte venivano vendute, indirizzate su un black cab alla volta della British Library, a dieci minuti di distanza, o spedite oltreoceano verso altre auguste istituzioni. Le bozze valevano più delle copie pulite, perché mostravano i lavorii della mente. A posteriori, le parole depennate da uno scrittore diventavano più preziose dei suoi versi migliori. Capii il vero valore dell’incertezza.
Ogni tanto, seduta in mezzo a risme di carta e blocchi di fogli pieni di scarabocchi, i moduli continui perforati e punzonati che dalla mia scrivania spiovevano sul pavimento, avevo l’impressione che mi passassero tra le mani intere foreste di alberi. Mi chiedevo per quale motivo, in un mondo che sembrava ormai prossimo alla rovina, trascorressi le giornate a conservare tutta quella carta anziché le specie in via di estinzione. Più archivi catalogavo, più aumentava la mia preoccupazione per i loro futuri lettori. Gli esseri umani avevano biblioteche per preservare i fragili documenti, eppure i deprimenti titoli dei giornali mettevano in dubbio la nostra sopravvivenza come specie – e quella del mondo intero. Quanto a ciò che scrivevo, avevo appena iniziato a pensare a cosa volessi dire.
Un giorno una fotografa mi portò una scatola di diapositive raffiguranti vetri di finestre coperti di ragnatele, specchi crepati e angoli immersi nell’ombra. Mentre le guardavo una a una in controluce per vedere l’immagine in miniatura, Claire mi raccontò di aver scattato le fotografie in una proprietà in rovina nella campagna irlandese. La sua proprietà di famiglia, che i genitori avevano abbandonato dopo che il fratello era rimasto ucciso in un incidente motociclistico. “Potresti scriverci su qualcosa?” mi aveva chiesto.
Come si scrive su un lutto del genere? Ho scandagliato la scienza che sovrintende alla cattura dell’immagine su pellicola: albori dell’ottica, esperimenti in camera oscura, funzionamento della macchina fotografica. Ho riflettuto sul potere di una fotografia di evocare qualcosa che non esiste più e studiato le leggi sottese alle forze invisibili che tanta influenza esercitano sulle nostre vite. Ho letto di Einstein, il quale credeva che le formule fossero in attesa di manifestarsi alla persona giusta, come una scritta fatta con le dita sullo specchio compare nel momento in cui il vapore colpisce la superficie.
La data della consegna per la mostra di Claire era vicinissima. Lavorai fino a notte fonda per una settimana. “Tranquilla, avrai tutto il tempo per dormire dopo morta,” mi disse.
Feci la rassicurante scoperta che la luce era un fenomeno prevedibile: viaggiava in linea retta, a volte per milioni di chilometri, e con precisione infallibile arrivava sul nostro pianeta perfino quando le stelle che l’avevano originata si erano già spente. Le vite che illuminava, per contro, erano fin troppo brevi. Il ghiaccio sarebbe stato una metafora migliore per la condizione umana – parte di un ciclo infinito di cambiamenti.
“Sembri esausta,” disse Claire quando ci incontrammo per discutere passo per passo ciò che avevo scritto.
“Uh-huh.” Quella settimana il negozio aveva anche preso in consegna i diari che uno storico di Holland Park aveva scritto in oltre sessant’anni.
“Perché non te la squagli? Con una borsa di ricerca avresti il tempo per concentrarti sul tuo lavoro, anziché doverti sempre occupare di quello degli altri.”
Claire aveva ragione. Me ne sarei andata il più lontano possibile da questa costosa città con il suo ciclo di prestiti bancari e di vendite di libri e brevi sprazzi di tempo libero. Avrei scoperto in che modo gli altri artisti stessero documentando questo mondo temporale, e mi sarei immersa in archivi concepiti dalla natura stessa.
Spostai la mia attenzione dall’ottica al ghiaccio. Dalla luce all’oscurità. Quando ricevetti l’offerta da Upernavik, l’idea dell’orribile e sgradevole notte polare in cui fa buio ventiquattro ore su ventiquattro e del freddo del pieno inverno mi parve allettante. Al museo risposi via e-mail: Verrò in gennaio.
Durante il mio ultimo giorno di lavoro, Bernard suonò il campanello e gli aprii dal citofono dell’ufficio di sopra. Era il mio preferito dei tanti scrittori che bazzicavano il negozio, sempre per vendere, mai per comprare. Ero lieta di avere la possibilità di salutarlo. Arrancò su per le scale con una sacca di plastica a quadri stracolma di lettere, ricette mediche e copioni, e sprofondò in una sedia. Aveva il corpo rovinato da anni di scrittura e anfetamine. Gli altri scrittori erano soliti depositare i loro manoscritti e filare via, Bernard invece si fermava sempre a chiedermi come stessi – anche solo per darsi il tempo di riprendere fiato.
“Bene,” dissi, quando me lo domandò. “Sto per partire.”
“Ottimo!” disse allegro. “Dove vai?”
“Vado nell’Artide,” dissi, cercando di non sembrare troppo soddisfatta di me stessa.
“Ma che meraviglia. Complimenti. Hai bisogno di allontanarti da tutto questo,” – agitò una mano verso le edizioni di poesia rilegate in pergamena, le costole dorate dei classici – “per trovare la tua voce. Potrei riavere indietro la mia borsa, per cortesia?”
Nel fine settimana impacchettai le mie tazze e i miei candelieri. Inscatolai qualche libro, diedi via il resto. Restituii la chiave del mio monolocale di Highbury al proprietario. Provai a lasciare un recapito alle poste: Museo di Upernavik, Casella 93, 3962 Groenlandia. Ma “Groenlandia” non figurava nel menu a tendina delle nazioni all’ufficio postale. Cominciai a chiedermi se il luogo in cui stavo per andare esistesse realmente, o se non fosse invece un parto della mia immaginazione.
Il mattino dopo il mio arrivo, percorro le fredde sale museali, scrutando nelle bacheche le scarne testimonianze lasciate dai precedenti visitatori. Contemplo ammirata le elaborate iscrizioni cesellate su un barometro e le annotazioni del diario di bordo di una delle baleniere che razziavano queste coste nel XVIII secolo. I primi esploratori europei chiamarono Upernavik l’“isola delle donne”. Nessuno sa con certezza perché, ma si ipotizza che quando i grossi velieri degli esploratori superarono l’isola, gli uomini fossero via, impegnati in una lunga battuta di caccia. Il folklore narra di donne in situazioni simili, lasciate sole negli insediamenti, ma in questi racconti le barche che compaiono all’orizzonte non sono quelle dei balenieri. Si credeva che quando gli uomini partivano per andare a caccia, gli spiriti delle foche che avevano ucciso tornassero a riva su imbarcazioni di ghiaccio per vendicarsi sulle loro mogli.
Di queste barche di ghiaccio nel museo non c’è traccia, ma in un’altra sala trovo le testimonianze dell’attività dei cacciatori. La lama arrugginita di un arpione. Uno specchio assicurato all’estremità di un palo per osservare i movimenti delle creature marine sotto il ghiaccio. Un paio di occhiali da neve: nient’altro che un fanone per coprire gli occhi, con una sottile incisione attraverso cui vedere. I cacciatori li indossavano durante i lunghi viaggi nella speranza che fossero sufficienti per impedire al riverbero di danneggiare la retina, causando cecità. Rimango a fissarli, e intanto mi chiedo cosa si provi a osservare, da quella stretta fessura, un orizzonte bianco in cerca di prede – e di predatori.
Molte delle teche sono vuote. Passandoci davanti, quasi non mi accorgo dell’oggetto più piccolo del museo, il vanto della sua collezione. È una copia della pietra runica di Kingittorsuaq, una lastra di ardesia morbida in cui circa ottocento anni fa venne intagliato un breve testo da tre antichi scandinavi, che poi la lasciarono in un cairn su un’isola limitrofa. Sopravvivono solo i nomi degli uomini: Erlingur figlio di Sigvað, e i figli di Baarne Þorðar ed Enriði Ás; la seconda metà del loro messaggio, scritta in caratteri enigmatici, risulta indecifrabile, persino per gli esperti di rune. Mi chiedo che opinione si fossero fatti dell’arcipelago questi viaggiatori vichinghi. Cosa avevano sperato di trovare qui, molto più a nord dei fiordi di cui i loro conterranei reclamavano il possesso? Sono mai riusciti a tornare a casa? La loro storia monca è emblematica della storia dei coloni norreni insediatisi in Groenlandia, nessuno dei quali sarebbe vissuto oltre il XV secolo, anche a causa dell’irrigidimento del clima. Durante la piccola era glaciale questa terra verde fu colpita dal ghiaccio, e le rotte marittime commerciali verso la Scandinavia e l’Europa continentale diventarono impraticabili.
Per gran parte dell’anno c’è ancora ghiaccio qui, malgrado la sua estensione stia cambiando. Il ghiaccio marino attorno a Upernavik la taglia fuori dai traffici, ma forma un ponte con la rete delle altre isole che la ricollega all’entroterra. (Questo l’ho imparato consultando attentamente le mappe: perfino dal cimitero, il punto più elevato che riesco a raggiungere a piedi, le montagne che si stagliano al di là di Upernavik a me appaiono come un’unica massa solida, una barriera di basalto. Proprio non riesco a immaginarmeli, i corsi d’acqua che si snodano tra esse, o le montagne ancora più grandi che nascondono, e la calotta a est.) Mi chiedo che cosa provassero i primi nomadi quando, lasciando con le loro barche in pelle stracariche gli insediamenti invernali situati nei recessi più interni del sistema dei fiordi, si avventuravano fino alle estreme propaggini dell’arcipelago all’arrivo della primavera. Avranno abbandonato in fretta e furia gli igloo non appena il tempo era favorevole, portando con sé il pentolone ma lasciando indietro un guazzabuglio di ossa e detriti, e forse qualche attrezzo – o magari un calzare, un giocattolo, dimenticati nell’impellenza di radunare figli e cani. Gli anni passavano, e intanto i pungenti venti polari soffiavano terra e neve sopra il cumulo. Gli archeologi oggi descrivono l’intera regione come “un museo a cielo aperto”. In parole povere, si sospetta che dovunque sotto il ghiaccio si celino reperti interessanti ancora da scoprire. Poco importa che siano invisibili. Esistono, e le bacheche vuote del museo attendono pazienti il loro arrivo.
Sento l’odore del caffè che cola attraverso il filtro. Salgo su per le strette scale in legno e raggiungo l’ufficio dove Grethe, l’assistente del museo e l’unica rappresentante del personale sull’isola, sta parlando con Peter, un cacciatore, passato di qui per discutere delle condizioni meteorologiche. Sul davanzale una radio ricetrasmittente balbetta notizie del padre e dei fratelli di Grethe, che sono lontano tra i ghiacci. Queste mattine, mi rendo conto, sarà difficile lavorare al museo – distratta come sono da una lunga tornata di kaffe e chiacchiere. O chiacchierare fa parte del mio lavoro? Niente è certo. Sono arrivata piena di domande. Da quanto tempo esiste il museo? Che fine aveva fatto il direttore che mi aveva incoraggiata a venire in inverno? Quando avremmo iniziato il laboratorio per i bambini? In risposta a ogni domanda le persone mi sorridevano con benevolenza, poi cambiavano argomento. Col passare delle settimane imparai a smettere di fare domande.
Ogni pomeriggio, Grethe chiude il museo e io incespico nei pochi metri in declivio che mi separano dal mio alloggio. Quando l’edificio era adibito a forno dell’isola, saranno state tante le persone che usavano questo sentiero. Oggi, a parte me, non viene nessuno qui. Se non è nevicato di fresco, posso piantare i miei stivali nelle impronte profonde che ho lasciato al mattino. Gli altri giorni, invece, per raggiungere la porta devo trascinarmi tra cumuli di neve leggera alti fino alla cintola. Nella camera esterna spazzolo via la neve dai miei impermeabili, apro la cerniera del gilet in piuma d’oca e mi tolgo gli stivali umidi.
Non sono la prima straniera a vivere qua. Il museo istituisce di continuo programmi per ospitare scrittori e artisti. Alcuni dei miei predecessori hanno lasciato qualche traccia della loro permanenza, come il regista tedesco che era qui lo scorso anno: il giorno del mio arrivo, aprendo il frigo, ho trovato un vasetto (quasi pieno) di marmellata di mele, e nella credenza in cucina c’è una confezione di tè alle erbe. Ci sono anche dei libri, scritti in varie lingue. Qualcuno ha lasciato una raccolta delle fiabe di Hans Christian Andersen. Mi chiedo se sia stato uno scrittore ad averle portate prima di me, allo stesso modo in cui io avevo portato L’isola del tesoro, sapendo che forse avrei voluto qualcosa di confortante, che mi ricordasse l’infanzia. Altri oggetti presenti nella casa sono di chiara provenienza locale. Sopra la tivù c’è un teschio oblungo, così grande che non riesco ad associare a nessun animale a me noto. Mi chiedo se non abbia qualche relazione con la pelle di orso polare stesa sopra le assi del pavimento di legno.
Sapevo che si sarebbe potuto trattare di un lavoro insolito. Quello che più mi rende perplessa è una clausola contenuta nel contratto: se sei un artista, sei tenuto a lasciare qui l’opera che realizzi. Se sei uno scrittore, vieni dissuaso dal farlo. Il museo dà molta più importanza alle immagini che alle parole. Potrei dipingere il ghiaccio marino, o filmare l’aurora, e queste opere verrebbero conservate nelle collezioni del museo; se scrivo qualcosa, nessuno vuole leggerlo. Dovrebbe sollevarmi o offendermi il fatto che sono obbligata a portare via con me qualsiasi parola io scriva su Upernavik?
La clausola mi offre la rara opportunità di rilassarmi – potrei sbrigare il poco lavoro che mi viene richiesto, rintanarmi in questa graziosa casetta e cenare coi vicini. Ma il problema m’intriga. È così diverso dal potere simbolico che i libri hanno nella mia cultura. Devono esserci per forza delle parole che posso scrivere per gli abitanti dell’isola.
Penso a tutto ciò che mi lascio alle spalle, ogni giorno. La scia di carbonio in tutti i voli fatti per arrivare qua, tanto per cominciare. I pacchetti vuoti di biscottini di marzapane comprati nel negozio, e le bottiglie di birra che si stanno ammonticchiando in cucina. Quel che è peggio, in quest’isola rocciosa mancano le condutture fognarie, per cui ogni due o tre giorni devo estrarre il robusto sacco di plastica dal secchio per i bisogni, chiuderlo con cura, portarlo sciaguattando fuori nella neve, in attesa che arrivi l’addetto allo smaltimento dei rifiuti. È impossibile vivere senza lasciarsi nulla alle spalle, e la mia opera dovrebbe riflettere questo dilemma.
L’unica cosa che voglio lasciarmi alle spalle come traccia del mio incarico – le parole – è bandita. Prima di poter contestare una regola simile, tuttavia, dovrò scrivere qualcosa. Appallottolo il foglio di carta su cui ho scarabocchiato degli iceberg e ne inizio uno nuovo.
A Upernavik nessuna porta ha la serratura. Su una piccola isola sarebbe piuttosto inopportuno insinuare che il proprio vicino sia un ladro. E siccome nessuno vuole essere accusato di tramare ai danni di Tizio e Caio, la gente è libera di entrare e uscire dalle case altrui in qualsiasi momento. Io però no, avverte Grethe. “Devi aspettare di essere invitata una prima volta, solo a quel punto hai via libera.” Dopo una pausa aggiunge: “Perché non vieni a cena da noi stasera? Abbiamo della carne di foca.”
Seduta alla scrivania prospiciente il porto, con a fianco una tazza di caffè nero, all’imbrunire osservo le luci sobbalzanti di torce elettriche che si allontanano dall’isola sul banco di ghiaccio costiero. Figure indistinte camminano con prudenza, fermandosi spesso. Eppure avanzano a ritmo costante; ogni volta che alzo gli occhi, le torce sono sempre più lontane. Quella sera, a cena, chiedo al marito di Grethe cosa stessero facendo quegli uomini. Mi spiega che erano andati a trivellare il ghiaccio per la pesca degli halibut, sondando la superficie con i loro scalpelli prima di appoggiarci sopra qualsiasi peso. Devono essere esperti capaci di interpretare i segni e i suoni veicolati nel ghiaccio, da cui capiscono dove posare i piedi per non cadere nell’acqua gelida. L’esame del ghiaccio di ogni uomo è essenziale ai fini della sua sopravvivenza. Grethe lo interrompe. “Mio cugino è affogato lo scorso mese,” dice in tono neutrale. “È scomparso sotto i ghiacci.” Adesso capisco perché tende l’orecchio alla radio.
Il ghiaccio, sempre mutevole, oggi è diventato pericolosamente imprevedibile. Durante una delle sue numerose visite al museo, Peter mi racconta che negli ultimi inverni non c’è mai stato ghiaccio sufficiente da consentirgli di partire dall’isola in slitta. Altre volte c’è troppa neve: e allora deve portarsi una vanga in modo da aprirsi un varco per raggiungere le sue reti da pesca. Non sorprende che abbia così tanto tempo per bere caffè! Guarda al futuro con pessimismo. I suoi adorati cani sono irrequieti. Senza i loro abituali viaggi in slitta sul ghiaccio marino non hanno possibilità di fare moto. I cacciatori non possono permettersi di nutrire degli animali inoperosi, e conosce degli uomini che sono stati costretti a sparare ai loro cani.
Nel tentativo di comprendere il mutato stile di vita e la presenza della morte a Upernavik, mi rivolgo agli scaffali dei libri del museo. Non sono granché forniti. Si tratta per la maggior parte di volumi illustrati o di uso pratico: album fotografici e manuali su come si costruisce un kayak o si intaglia una pagaia. Scorro un dizionario groenlandese-inglese degli anni venti, senza cercare nessuna parola in particolare ma lasciando che qualche definizione a caso attiri il mio sguardo. Scopro che ilissivik significa “scaffale per libri”, mentre ilisissuppaa significa soltanto “scaffale, armadio”. Una sottile differenza. Sono chiaramente imparentate col verbo, elencato più sotto, illisivit (“metterlo via”). E per tutti coloro che hanno troppi scaffali e librerie, il dizionario mi informa che il verbo ilisiveeruppaa designa l’“aver messo in un luogo sicuro qualcosa che non si riesce più a trovare”. Inizio a capire il perché dell’ambivalenza di questa cultura nei confronti della parola stampata.
Su un vecchio giornale m’imbatto nel necrologio di Simon Simonsen, un famoso cacciatore di Upernavik la cui professione è stata ereditata dai figli. Un tributo alle sue abilità termina così: “E se il sole non avesse cancellato le tracce sul ghiaccio, esse ci parlerebbero di orsi polari e dell’uomo che aveva la fortuna di catturare gli orsi.” Intuisco che le tracce sul ghiaccio vengono considerate un modo per raccontare le storie di caccia più efficace di qualsiasi parola. La loro stessa scomparsa è parte integrante della storia – un indizio del tempo che passa, mentre cacciatore e cacciato continuano a muoversi. Quando tutto il ghiaccio si sarà sciolto, penso, le testimonianze del passato saranno l’ultima delle nostre preoccupazioni.
Quando gennaio cede il passo a febbraio, i cieli iniziano ad alleggerirsi. Dietro le alte montagne ritorna il sole. Qualche chilometro più a nord, montagne di ghiaccio ribollono incuneandosi tra le scogliere di basalto e tuonano nel fiordo ghiacciato. Ogni nuovo giorno gli iceberg fluttuano un po’ di più verso sud e si sbriciolano un altro po’ nell’acqua. Questi cambiamenti a stento percepibili bastano a suggerire l’idea, inquietante, che gli iceberg siano organismi viventi dotati di volontà propria. Di profilo, le varie forme – cupole e pinnacoli, e qualche grande iceberg tabulare – ricordano una riga di scrittura. Sento che potrei capire che cosa dice, se guardassi abbastanza a lungo.
Grethe è contenta che io mi stia interessando all’ambiente al di fuori del museo. È ciò che sperava in segreto, lo so. La mia ossessione per gli oggetti, i libri, la dattilografia, lei la trova bizzarra e un tantino malsana. Tutti i giorni cammino fino alla costa e registro un breve video dallo stesso punto. Trattengo il respiro mentre filmo il ghiaccio, cercando di tenere ferma la telecamera il più a lungo possibile nei miei goffi guanti. Il ghiaccio qui è sconcertante, essendo stato frantumato da maree e tempeste per poi risolidificarsi per effetto del freddo, come porcellana giapponese riparata con suture di lacca e argento da un maestro kintsugi. Il panorama visto attraverso l’obiettivo è sempre diverso. A volte l’acqua stilla dai canali nel ghiaccio che si scioglie, che delicatamente si solleva e si abbassa con la marea montante. Altri giorni una spessa scorza di ghiaccio ricopre il mare, oppure una bufera di neve oscura tutto. Il banco del ghiaccio costiero avanza strisciando lungo l’insenatura, allargando il litorale di un chilometro e anche più, solo per svanire nelle notti tempestose. Girare il film è un modo per stimolarmi all’osservazione ravvicinata – ma è difficile vedere i confini di un oggetto quando non si hanno parole per ciò che si sta guardando. Dov’è che finisce una formazione di ghiaccio e ne inizia un’altra?
Con l’affievolirsi della luce diurna rientro in casa. Assaporo i termini che trovo in un dizionario oceanografico3 online: frazil, sottili aghi e lastre di ghiaccio sospesi nell’acqua; nilas, la fine crosta elastica che si flette con le onde e il mare lungo, sviluppandosi a mo’ di dita intrecciate; e il più facile da individuare, le focacce di ghiaccio, quelle forme circolari irregolari coi bordi rialzati in cui ogni “focaccia” cozza contro un’altra.
Dopo aver filmato per un paio di settimane, era giunta l’ora di cambiare visuale. Mi arrischiai a percorrere qualche passo sul banco del ghiaccio costiero, come i pescatori che avevo avvistato. Mi muovevo a passi cauti, fin troppo consapevole dell’oceano pochi centimetri sotto i miei piedi. Speravo che stando sopra il ghiaccio si sarebbe creato un qualche legame tra me e gli isolani. Mentre tornavo indietro in punta di piedi, Grethe mi venne incontro a riva, e mi chiesi se non stesse per rimproverarmi per il mio comportamento azzardato. Ma stava ridendo. Un po’ ferita, le domandai perché.
“Perché hai camminato sul ghiaccio per tutto questo tempo,” disse indicando la neve su cui ci trovavamo, che ero convinta ricoprisse una costa rocciosa.
Non sempre il ghiaccio si manifesta con le apparenze del ghiaccio. Penso al mito originario, ai tempi in cui il ghiaccio poteva bruciare. In quei giorni la gente aveva parole potenti che, se pronunciate, trasportavano chi le diceva – e tutto il focolare domestico – in luoghi dove si sarebbero potuti stabilire e dove avrebbero potuto trovare cibo. Il semplice pronunciare le parole bastava a materializzare un luogo. Mi chiesi: quali parole avrebbero il potere di trasportare le persone in un posto sicuro, oggi?
Grethe mi insegnò a dire “Illilli!” quando le porgevo una tazza di caffè: “Ecco!” Mi disse con orgoglio che ora potevo essere identificata come autoctona di Upernavik: “Se fossi di Ilulissat, diresti illillu.”
Mi lusingava pensare che stavo diventando parte della comunità, ma la mia diversità mi veniva ricordata fin troppo spesso.
“Lavori troppo,” disse un giorno Grethe. “Dovresti stare attenta, o non troverai mai un marito.”
Non era del futuro marito che mi preoccupavo, ma delle mie attuali amicizie. Grethe teneva d’occhio la frequenza con cui collegavo il cavo ethernet al mio laptop. In Groenlandia la connessione è costosa, sporadica e lenta. Custodivo gelosamente le lettere, che mi arrivavano dentro una sacca della posta sul sedile anteriore dell’aereo, e ricevevo persino occasionali pacchetti: la scatola delle spezie che la mia amica Ruth aveva imbustato ed etichettato – curcuma, zenzero, coriandolo – portando profumi di Londra nella mia rudimentale dispensa. Il poster stampato a mano, che Roni, una mia ex collega, aveva spedito da Manhattan, contenente una citazione da A Valentine to Sherwood Anderson di Gertrude Stein: “If they tear a hunter through, if they tear through a hunter, if they tear through a hunt and a hunter...” Scorrevo le dita sull’inconfondibile profondità dei caratteri metallici impressi su carta pregiata.
Una notte, dopo una rapida cena a base di bastoncini di pesce, prendo dallo scaffale il libro di fiabe danesi e mi rannicchio sul divano per rileggere La regina delle nevi.4 Come molte fiabe, racconta una storia inquietante: il protagonista è un bambino rapito, i cui occhi e il cui cuore sono trafitti dalle schegge dello specchio rotto di un troll. M’immedesimo in Kay, imprigionato dalla sua sequestratrice regale in un enorme castello nordico formato da oltre cento sale di neve turbinante, dove sopporta i baci ghiacciati dell’aguzzina e tenta di dare un senso alla situazione componendo nuove parole con i pezzi di ghiaccio taglienti e piatti che lei gli aveva dato per giocare. La regina delle nevi dice a Kay che quando formerà la parola “eternità”, sarà il padrone di se stesso; gli regalerà il mondo intero – e un paio di pattini nuovi. Kay trascina qua e là il ghiaccio, compone molte figure, forma diverse parole, ma per quanto si sforzi non riesce a comporre la parola “eternità”.
Quando anni fa lessi la storia per la prima volta, avrei voluto raggiungere Spitsbergen insieme a Kay nel suo vertiginoso viaggio in slitta, e m’innamorai della capricciosa piccola brigantessa – un personaggio minore, ma non per me. Ora le parole di Andersen hanno un significato diverso. Procedo nella lettura, distendendo le gambe sul tappeto di orso polare. “Ora me ne vado a tutta velocità nei paesi caldi!”, dice la regina delle nevi. “Voglio andare a guardare nelle pentole nere!”, che erano le montagne che sputavano fuoco, l’Etna e il Vesuvio, come vengono chiamate. “Le imbiancherò un po’! Ci vuole; fa bene ai limoni e all’uva!” E vola via, lasciando Kay solo nel castello. Qui la sua amica Gerda lo trova ancora intento a fissare i suoi pezzi di ghiaccio e a rimuginare, così rigido e silenzioso che sembra morto per il freddo. Sono le lacrime di Gerda che liberano gli occhi di Kay dal granello di vetro stregato, sciogliendoli dall’incantesimo.
Il sole comparve per la prima volta il giorno di San Valentino. Una linea dorata squarciò la foschia al di sopra delle cime innevate, rimase lì qualche istante e poi scivolò via. Mi aspettavo che si innalzasse per gradi, di qualche riluttante centimetro ogni giorno, e invece le giornate si allungarono con sconcertante rapidità. A marzo il buio era solo un lontano ricordo, e fui felice della luce solare come prima lo ero stata della neve. Scoprii che potevo uscire di casa senza dover indossare due paia di guanti. Il ghiaccio che circondava Upernavik iniziò a frammentarsi, e nella zona costiera lo stridio della banchisa fu sostituito dal suono più armonioso dell’acqua gocciolante sulle pietre. Ero pronta anch’io a volare verso sud, desiderosa di concedermi di nuovo il lusso di un limone o di un grappolo d’uva.
“Perché non cambi il volo?” chiese Grethe. “Potresti fermarti qua un altro mese e venire con me in motoscafo a vedere gli insediamenti.”
Ero tentata – ma sapevo che se fossi rimasta un’altra settimana non sarei più partita. Inoltre, il libro che iniziava a prendere forma nella mia mente come dono per il museo aveva bisogno di ben altro che del laptop di cui ero provvista. Mi sarebbero serviti un torchio tipografico, dei colori a guazzo, e forse un tipo particolare di “carta-velluto” fabbricata da una cartiera sul fiume Axe nel Somerset. Sapevo dove trovare il torchio e ospitalità mentre mi sarei occupata della composizione dei caratteri. Salii sull’aereo come pianificato, lasciando che Upernavik si godesse la sua primavera. Il caldo era in arrivo, e nell’arcipelago sarebbero giunti archeologi speranzosi di scoprire nuovi oggetti da collocare nel museo mentre io avrei preparato il mio. Il minuscolo aereo accelerò sulla pista per il decollo, e il pilota alzò il muso verso il sole. Man mano che l’aereo virava, l’isola sembrava inclinarsi in lontananza. Esaminai i lastroni della banchisa, disposti a scacchiera sull’oceano come il puzzle di Kay. Non avevo intenzione di compitare eternità. Non mi era rimasto abbastanza tempo per farlo. Il ghiaccio stava iniziando a scomparire – e prima che svanisse volevo imparare le parole che aveva da insegnarmi.