Manaus, Teatro Amazonas, esterno, notte.

Il grande, pomposo teatro è illuminato a festa, una teoria di aristocratiche carrozze occupa la rampa di accesso, rivestita da un bel disegno di pietre pavimentali chiare e scure; dai raggi delle ruote spruzzati di fango e dove talvolta sono attorcigliate grandi foglie della foresta vergine, e dagli zoccoli dei cavalli capiamo subito che l’edificio è sorto nel nulla di un insediamento in piena foresta giunto a un’improvvisa ricchezza.

Davanti al gigantesco portale sono di guardia due soldati indios, nelle uniformi risalenti alla guerra di liberazione. Nei loro sguardi estraniati c’è ancora l’incanto della foresta. Vicino alle carrozze attendono servitori neri in livrea e guanti bianchi. Un distinto signore in cilindro e mantello nero, visibilmente in ritardo, si affretta verso il portale. Champagne per i cavalli!, grida rapido al suo servo. Questi appende un secchio alle stanghe ed effettivamente lo riempie con varie bottiglie del più raffinato champagne francese. I cavalli bevono.

Dalla foresta, che non può essere lontana, le cicale gridano il loro monotono canto notturno, dal foyer dell’Opera giunge all’esterno quella tipica mescolanza di mormorio festoso e di orchestra che accorda gli strumenti. All’infuori di ciò, sentiamo soltanto lo scalpiccìo e il masticare dei cavalli; quello che sta bevendo champagne spicca come elemento di disturbo, infatti, mentre lappa, si esibisce in una paziente, lunghissima scorreggia; per il resto, tutto tace. La faccia del cavallo è impenetrabile. Dentro, con un colpo di timpani, inizia l’ouverture del Ballo in maschera di Verdi.

Più vicino all’ingresso. Alcuni curiosi – meticci scalzi, seringueiros anch’essi senza scarpe e coi pantaloni sbrindellati, un paio di mulatti dei quartieri più poveri — hanno formato timorosamente due ali attraverso le quali ormai non passa più nessuno. Con gli occhi fissi sull’edificio, ascoltano la musica che nel frattempo, aumentata di volume, arriva attutita all’esterno. Solo i servi in livrea vicino ai cavalli hanno una maggior considerazione di sé e si stravaccano sui sedili delle carrozze. Vicino al muro umano scorgiamo un grande manifesto in una bacheca di vetro, sul quale sta scritto a grandi lettere: ENRICO CARUSO e SARAH BERNHARDT insieme in un gala sensazionale al Teatro Amazonas, Manaus; e sotto, stampato in caratteri assai più piccoli: Un ballo in maschera di Giuseppe Verdi.

Manaus, porto, notte.

La luce della luna si rispecchia in un lago, tanto largo che non possiamo stabilire dove si trovi la riva opposta, ed è un lago che si muove, è l’immensa superficie del medio corso del Rio delle Amazzoni. A riva sono ormeggiate decine di imbarcazioni grosse e piccole, quasi tutte con tettucci di lamiera ondulata o di foglie di palma intrecciate, e poi canoe e zattere da trasporto in balsa. Un tronco d’albero arriva fluttuando, e subito dietro spunta un peke-peke, uno di quei tipici battellini amazzonici che esistevano già all’inizio del secolo, con un semplice motore a benzina, il tutto ricoperto da un tetto di palme.

Il motore non funziona e noi riconosciamo Fitzcarraldo che a fatica manovra con una pagaia per portare il battello fuori dalla corrente, e infine attracca. Al timone c’è Wilbur. Ambedue portano abiti di lino chiari, madidi di sudore, quello di Fitzcarraldo mostra, ben visibili, macchie di grasso. Le sue mani sono avvolte da bende sporche, zuppe di sangue e d’olio. In testa, sebbene il sole sia tramontato da un pezzo, porta un logoro cappello di paglia. Wilbur tenta faticosamente di scaricare una gigantesca sedia da barbiere, come se ne potevano inventare a fine secolo solo nei paesi latini. Ma Fitzcarraldo lo spinge subito avanti, Mio Dio, esclama, siamo arrivati troppo tardi.

Teatro Amazonas, interno, scena.

L’opera è arrivata a uno dei suoi punti culminanti. La scenografia, vista dalla platea, è smodatamente ridondante e ampollosa. Il fine secolo celebra se stesso.

È la scena cupa, notturna, in cui Amelia tremante si avvicina all’ «orrido campo» per cercare l’erba magica sotto i patiboli. Lampi teatrali guizzano attraverso il terribile paesaggio. Sarah Bernhardt nel ruolo di Amelia zoppica visibilmente, l’ampio costume non riesce a nascondere che ha una gamba di legno. E poi non canta, muove soltanto le labbra, mentre giù nella fossa dell’orchestra una vera cantante esegue al suo posto l’aria «Ma dall’arido stelo divulsa». Enrico Caruso, che fa Riccardo, l’ha seguita e la costringe a confessargli il suo amore. I sentimenti si infiammano nel duetto «Non sai tu che se l’anima mia», mentre, all’insaputa dei due, i congiurati attendono appostati nell’ombra. Ed ecco appare Renato, il marito di Amelia, per mettere in guardia il conte Riccardo dai congiurati. Amelia riesce a coprirsi precipitosamente il viso col velo. I due uomini si scambiano i mantelli, il conte si allontana dietro preghiera di Renato, ma gli fa giurare di accompagnare la donna velata fino alle porte della città senza rivolgerle la parola. All’improvviso i congiurati, emersi dall’ombra, sbarrano la strada e vogliono vedere in viso la donna…

Manaus, molo del porto, notte.

Fitzcarraldo e Wilbur si precipitano lungo il molo, dove, tra il fango e lo sporco, si trovano un paio di bettole miserabili, messe su con quattro assi, che vendono la peggior acquavite; ubriachi abbrutiti giocano a carte e girano prostitute di infima categoria. Una di queste si fa incontro a Fitzcarraldo. Hola gringo, dice. Ma lui la schiva, continua a correre, nella fretta si è portato dietro la pagaia.

Teatro Amazonas, esterno, notte.

Come prima, le figure scalze e stracciate sono ancora lì a far ala e a tendere l’orecchio verso l’interno. L’opera sembra avvicinarsi lentamente alla fine, si prepara un apice drammatico di accecamento, morte e riconoscimento tardivo. I visi si voltano quando Fitzcarraldo e Wilbur arrivano di corsa, trafelati. Fitzcarraldo si arresta un attimo quando vede che tutti sembrano fissare la sua pagaia; ha un momento di imbarazzo, tanto la situazione è assurda. Poi si riscuote, fa una faccia di circostanza e attraverso due ali di occhi che lo fissano si precipita nel foyer trascinandosi dietro Wilbur.

Teatro Amazonas, foyer, notte.

Il grande foyer abbellito da colonne è sfarzosamente illuminato. Il pavimento di marmo riflette le luci dei lampadari di cristallo. Attorno, alle pareti, quadri sovraccarichi con scene di foresta, il giaguaro in agguato e altri motivi amazzonici. Subito un negro piuttosto anziano, dalla livrea particolarmente sontuosa, sbarra la strada ai due intrusi. Signori, dice in tono educato, Loro non possono entrare, questa è una serata di gala. Con sguardo inequivocabile squadra i vestiti e la pagaia degli sconosciuti. Il Barbiere di Siviglia?, chiede Wilbur, Figaro? Fitzcarraldo si riscuote, getterà tutto sul piatto della bilancia. Siamo in viaggio da dieci giorni, abbiamo disceso il fiume per 1500 chilometri, da Iquitos, due giorni fa il motore si è rotto. Guardi qui le nostre mani, abbiamo remato per due giorni e due notti solo per vedere un’unica volta nella vita Caruso, lui in persona, il più grande, l’unico!

Mi scusino, dice il negro in tono già più amichevole, Loro non hanno biglietto e questa serata è esaurita da sei mesi. Per favore, lo implora Fitzcarraldo, noi dobbiamo entrare. Io stesso un tempo ho diretto un teatro, IO DEVO ENTRARE, perché voglio costruire un teatro d’opera a Iquitos, e Caruso lo inaugurerà. I progetti sono già tutti pronti, sarà il più grande teatro che la foresta vergine abbia mai visto, se adesso mi fa entrare La nominerò direttore amministrativo. Incalza con sempre maggior insistenza, perché da dentro già si annuncia il dolore del gran finale. Anch’io entrerei così volentieri, dice il negro, e Fitzcarraldo capisce che il ghiaccio è rotto. Ma facciano piano, dice il negro, si mettano lungo la parete, vicino all’ingresso. Figaro!, dice Wilbur, il Barbiere di Siviglia! Una gioia, come solo i deboli di mente la possono provare, lo illumina da dentro con un raggio.

Teatro Amazonas, platea.

Velluto rosso e lampadari dorati. Tre ordini di palchi torreggianti. Questo teatro è figlio della voluttà. Non si sente volare una mosca. Sulla scena, in primo piano, giace Caruso, quasi irriconoscibile perché a terra morente, e su di lui si è gettata, in tutta la sua esaltazione, la Bernhardt. Anche da una certa distanza rispetto al palcoscenico si nota la sua gamba di legno, che un vestito fluttuante non riesce davvero a nascondere.

E ci si accorge anche che non canta affatto, non è proprio capace di cantare, è stata ingaggiata solo per la fama del suo nome. Vediamo il direttore, un italiano imperioso con lo sguardo da condottiero, che sotto di sé, nella fossa dell’orchestra, dirige una cantante che esegue la parte della Bernhardt, mentre questa fa soltanto i movimenti, senza neanche aprire la bocca per fingere di cantare. Caruso si solleva un’ultima volta, appoggiandosi a un gomito, e con la destra accenna a una lontananza immaginaria, là dove c’è l’orizzonte, verso l’altra sponda del fiume.

Fitzcarraldo è in fondo, schiacciato contro la parete insieme a Wilbur, tiene stretta la sua pagaia nella mano dolente. Si è tolto il cappello. Eccolo là, l’uomo, il TESTIMONE DEL SUBLIME. Il grande gesto che arriva dalla scena colpisce anche lui, come un colpo di lancia. Ha indicato te, gli sussurra Wilbur.

Poi cala l’enorme sipario con la colossale allegoria della nascita del Rio delle Amazzoni. Solo il fine secolo e la fervida fantasia della foresta vergine potevano partorire qualcosa di altrettanto mostruoso. Si leva un applauso possente come un’ondata. Luci, sfolgorii, grida d’evviva, inchini, sipari. Solo Fitzcarraldo è lì immobile come una statua di sale.

Poi finalmente gli applausi si smorzano e i primi spettatori cominciano a sfollare. Lunghi abiti da sera, gioielli, uomini in frac e sparato, tutti si accalcano verso l’uscita; Fitzcarraldo è lì in piedi che piange, nel suo vestito di lino stropicciato, le mani insanguinate e la pagaia stretta in pugno. Sguardi impietosi, ci si sente spiacevolmente turbati dall’emozione di Fitzcarraldo. Wilbur non sa bene che fare, osserva Fitzcarraldo; anche lui, contagiato dalla sua commozione, comincia a piangere. L’unicità di ciò che hanno passato li unisce, consolida la loro alleanza, il cui mistero noi possiamo soltanto presagire.

Teatro Amazonas, ufficio del sovrintendente, giorno.

Il sontuoso ufficio del sovrintendente, un grassone dall’intelligenza pronta e con tendenza al sentimentalismo. È seduto dietro una scrivania di mogano sulla quale si trova uno dei primissimi telefoni. Alle pareti, foto incorniciate di cantanti con dedica, una palma da appartamento, orchidee in un vaso ornatissimo. Fitzcarraldo e Wilbur siedono di fronte a lui, gli sono state offerte minuscole tazze di caffè nero.

Fitzcarraldo? chiede il sovrintendente fingendo meraviglia. Ora Le spiego, dice Fitzcarraldo. Mio padre era irlandese, il mio vero nome è Fitzgerald. Brian Sweeney Fitzgerald. Ma in Perù nessuno riusciva a pronunciarlo, e quindi l’ho un po’ modificato. Fitzgerald? Iquitos? dice il sovrintendente. Lei non sarà per caso quello della ferrovia? Sì, confessa Fitzcarraldo con un certo imbarazzo, la Trans-Andean-Railway, dall’Amazzonia attraverso le Ande fino alla costa del Pacifico. Ma come Lei certamente saprà, l’impresa si è impantanata. Attualmente cerco di far soldi con un brevetto per fabbricare il ghiaccio. Lo faccio solo per il mio unico sogno, l’Opera: LA GRANDE OPERA NELLA FORESTA VERGINE. Io la costruirò e Caruso la inaugurerà! Sì, Caruso, fa eco Wilbur devotamente.

Teatro Amazonas, dietro il palcoscenico.

Il sovrintendente guida i suoi due visitatori attraverso la scena tra le quinte che si stanno smontando. Questo edificio, dice, sarà forse troppo piccolo già tra qualche anno. Da cinque anni siamo la città più ricca del mondo. E Iquitos, dice Fitzcarraldo, verrà subito dopo. Attualmente, per quanto riguarda il caucciù, abbiamo quasi raggiunto gli stessi livelli di produzione. Qui c’è stato un po’ di vento di follia, dice il sovrintendente, i prezzi sono già quattro volte più alti che a New York, si costruiscono palazzi con pavimenti in piastrelle di Delft e in marmi di Firenze, oggi disponiamo già di una rete telefonica con trecento collegamenti, il che è più di quanto non abbia Parigi. E la gente un po’ più benestante, se così mi è permesso di esprimermi, manda a lavare la biancheria a Lisbona. Il nostro governatore Ribeiro, che purtroppo è morto… Come? dice Fitzcarraldo, ma se non aveva che trent’anni appena! Sa, dice il sovrintendente con aria misteriosa, detto fra noi, i giornali hanno riferito la cosa un po’ diversamente, ma si è strangolato da solo in un accesso di furia erotica. Il nostro governatore Ribeiro, dunque, continua il sovrintendente in tono un po’ più formale, ebbe a dire all’inaugurazione del nostro teatro: se la crescita di questa città dovesse richiederlo, demoliremo l’Opera e ne costruiremo una più grande. Questa qui, infatti, era stata piazzata proprio in mezzo alla giungla, e adesso, come Lei può vedere, la città le è cresciuta nel frattempo tutta attorno.

Teatro Amazonas, sul palcoscenico.

Fitzcarraldo, Wilbur, il sovrintendente, ai quali si è aggiunto il negro in livrea della sera prima, attraversano la platea, che ora, vuota, sembra molto più vasta ma meno solenne e fastosa. Tuttavia questo teatro, nel suo genere, è unico al mondo. Wilbur palpa i rivestimenti in velluto delle poltrone, esaminandone alcuni metodicamente, uno dopo l’altro. Fitzcarraldo, che si rivolge al negro chiamandolo «signor direttore amministrativo», prova dal palcoscenico l’acustica della sala, grida oh! e ah!, batte le mani e tende l’orecchio alle vibrazioni sonore.

Teatro Amazonas, guardaroba.

Nel guardaroba, dove aleggia ancora la presenza di Caruso, Fitzcarraldo è stranamente silenzioso, turbato. Sa quanto ha ricevuto Caruso per questa unica serata? chiede il sovrintendente. Duecentomila scudi d’oro, si risponde da solo, e altrettanti Sarah Bernhardt, che tra l’altro non sa nemmeno cantare, ma il pubblico li voleva tutt’e due insieme. Dov’è rimasto mio nipote, chiede Fitzcarraldo, Lei ha visto Wilbur?

Teatro Amazonas, palcoscenico.

Fitzcarraldo e il negro trovano Wilbur su una sedia al centro della scena, rannicchiato su se stesso e spaventato, come un animale notturno che d’improvviso venga abbagliato da un riflettore. Fitzcarraldo cerca di vedere quello che vede Wilbur. Ma è soltanto la grande platea deserta con file e file di poltrone vuote, che fissano la scena rigide, immobili, in attesa, come non avessero bisogno di gente che le riempia, e poi i grandi ventilatori, con le lunghissime pale di legno che girano e vibrano. Quest’uomo, dice Fitzcarraldo, sa che cos’è un palcoscenico.

Rio delle Amazzoni, verso sera.

Possente, quasi immobile, l’immenso fiume riposa in se stesso. Con andatura tranquilla e regolare, la barca di Fitzcarraldo segue la sua rotta. A ovest, dove si sta dirigendo contro corrente, il cielo risplende nel rosso luminoso della sera infuocata. Vapori si abbassano sulla foresta. Schiere di striduli pappagalli passano sopra la barca nel loro caratteristico volo irrequieto. Wilbur e Fitzcarraldo siedono tranquilli e assorti, pilotando la barca incontro alla notte. Per remare, Wilbur si è comodamente sdraiato nella sua poltrona da barbiere, coi piedi ben puntati sul graticcio.

Tres Cruces, alba.

Come in un vecchio dipinto, Fitzcarraldo e Wilbur siedono voltandoci le spalle e osservano un paesaggio irreale, immerso nella mitica nebbia del primo mattino. Si trovano sulle ultime altitudini delle Ande, da dove la foresta vergine scende ripida espandendosi nell’immensità del bacino amazzonico. La foresta si increspa fino a profondità inimmaginabili, fino là dove lo sguardo si perde e dove hanno inizio le visioni. La vista è incredibile, in tutto il Sudamerica non esiste un posto paragonabile a questo. Immensa come un mare che si estenda sino ai confini del cosmo, la foresta si allarga, fumigante, come nel mattino della creazione, ancora indeterminata, piena di suoni animali. Si leva una musica grandiosa, da mozzare il respiro, lenta, e contemporaneamente là in basso, ai nostri piedi, si risvegliano milioni di uccelli. La terra giace tranquilla e paziente, ma il cielo comincia a vibrare, qualcosa che si potrebbe definire un doloroso cielomoto, come uno sventolìo del cielo.

Piano, quasi balbettando, Fitzcarraldo comincia a parlare, sembra che stia cercando una misura per l’incommensurabile. Da qui, dice, ci sono quattromila chilometri fino all’Atlantico. Sai come gli indios chiamano la foresta vergine? La chiamano il PAESE SOGNANTE, e qui, dove ci sono le rapide, IL PAESE CHE DIO CREÒ NELLA COLLERA. Porteremo qui la Grande Opera, questo è il posto dove deve essere collocata. Come faremo, chiede Wilbur, come? Non lo so ancora, dice Fitzcarraldo, adesso mettiti in ascolto, trattieni il fiato e non muoverti.

L’orizzonte entra in convulsioni e, immerso in fiamme vibranti, partorisce un sole, una gigantesca sfera guizzante di fuoco rosso, che respira, così enorme come non l’abbiamo mai visto prima.

Iquitos, riva e strade della città.

Già la prima occhiata alla città ci fa capire subito che tra il sogno di Fitzcarraldo e la sua realizzazione si spalanca un abisso enorme. La barca ha attraccato in uno spaventoso groviglio di altre imbarcazioni, ci sono anche zattere cariche di bovini destinati al mattatoio, oppure di frutta. Una mucca si è liberata dalla corda e nuota ora verso il largo, seguita da un uomo con una liana per fune. La salita che porta alla città è costellata di rifiuti in fermentazione, nei quali rovistano avvoltoi, maiali e bambini nudi. Gli avvoltoi, a centinaia, sono neri, lenti e orribili: aspettano le interiora e i rifiuti fumanti che arrivano dal mattatoio, dove ogni giorno lo sterminio sembra ricominciare di nuovo. Più in alto iniziano le baracche di legno sgangherate, coperte di lamiera ondulata, dove bar miserabili vendono acquavite di infima qualità a uomini già sbronzi di primo mattino che giacciono nella loro urina. Dappertutto, sulle navi e nelle strade, si cuoce riso e si tostano yucca e banane su focolari improvvisati, tronchi di dimensioni paurose vengono trascinati a terra, donne lavano la biancheria accosciate in acqua, coi vestiti addosso, la sporcizia forma dei gorghi davanti alle prue delle navi, alcuni ragazzi tormentano un cane rognoso vicino a una porta. I peke-peke passano su e giù per il fiume, gli indios coi frontali portano, barcollando, carichi troppo pesanti, c’è un andirivieni continuo, donne indiane allattano figli, uomini dormono su tavolacci malsicuri. È un posto dove il caos è destinato a riportare sempre la vittoria sull’ordine. Vediamo Fitzcarraldo e Wilbur che arrancano verso la città in mezzo al fango scivoloso del pendio che si sgretola sempre più. Un portatore indio si è caricato sulle spalle la sedia da barbiere di Wilbur, assicurandola col frontale.

Un paio di strade, attraverso le quali accompagnamo Fitzcarraldo. Vediamo chiaramente che Iquitos è stata strappata alla foresta da non più di qualche anno. Case basse con tetti di lamiera, mendicanti oziosi, seringueiros oziosi, cani oziosi, i cani sono veramente lo spettacolo più desolante che si possa trovare su questa terra. Dappertutto indizi di caucciù, l’oro che qui ha reso tutto possibile. Ammucchiato in grandi balle ai lati delle strade, pronto per il trasporto, sorvegliato da indios quindicenni armati di carabina, bambini che non capiscono nulla, che sanno soltanto di dover aprire immediatamente il fuoco su tutto ciò che si avvicini alla merce senza autorizzazione. Avvoltoi sono appollaiati sui tetti, sazi di afa e di carogne. Sulle strade regna un movimento vivace, ma su tutto aleggiano stanchezza, febbre, disillusione, miseria. Sullo sfondo, là dove tutte le strade confluiscono verso il Rio delle Amazzoni, sorgono i palazzi dei ricchi, sfarzosi, rivestiti all’esterno di piastrelle variopinte.

Quartiere di Belen, mattina.

Fitzcarraldo si sveglia nella sua amaca, socchiude un po’ gli occhi ma non li apre, fingendo di continuare a dormire. Sa che il suo pubblico è già lì, in paziente attesa da lungo tempo. Bambini indios, a rispettosa distanza, formano un muro compatto e silenzioso. In mezzo a loro si è fatto strada un maiale lanoso dalle zampe insolitamente lunghe, un animale da corsa, ansante e curioso. Fitzcarraldo, ancora ubriaco di sonno, dirige a tastoni la mano, che sembra muoversi come in sogno, indipendentemente da lui, verso un tavolino su cui si trova uno dei primi fonografi. È uno di quei modelli Edison a cilindro con puntina e cornetto. L’apparecchio si mette in moto e inizia il concerto del mattino: sono le primissime incisioni di Caruso, piene di raschi ma di una inaudita, pacata bellezza, melanconiche, forti e commoventi.

Ora Fitzcarraldo spalanca gli occhi. Quando ci sarà il mio teatro avrai un palco e una poltrona rivestita di velluto, dice al maiale, che, come inchiodato al suolo, ascolta immobile.

Ora vediamo più da vicino la capanna di Fitzcarraldo. È costruita su alte palafitte, come molte altre case all’intorno. Attraverso le fessure del pavimento vediamo le persone che si muovono di sotto. La capanna è di estrema semplicità, essenzialmente una piattaforma quasi priva di pareti con sopra un tetto intrecciato. Da essa possiamo vedere decine di abitazioni simili, c’è una partecipazione continua alla vita dei vicini. Alcune di queste case poggiano su grossi tronchi di balsa marci, in modo da poter galleggiare quando l’acqua sale. Vicino scorre uno stretto braccio del Rio delle Amazzoni, continuamente solcato da imbarcazioni.

Belen, la terrazza di Fitzcarraldo, tarda mattinata.

Fitzcarraldo ha radunato i suoi fedeli e sta trangugiando con loro caffè nero. Anzitutto bisogna menzionare i suoi due cani, Gringo e Verdi, infimi rappresentanti della desolazione, ma che lui tratta come aristocratici levrieri e ai quali di tanto in tanto si rivolge in una lingua particolare, inventata da lui. Poi il suo superbo accompagnatore, Bald Eagle, un pappagallo piuttosto piccolo che doveva essere verde, ma a cui sono rimaste attaccate ben poche penne; la nuca e il culo, soprattutto, sono completamente pelati. Sono due le frasi che Fitzcarraldo tenta da tempo, con scarso successo, di far imparare all’animale: IO SONO UN’AQUILA e GLI UCCELLI SONO FURBI MA NON SANNO PARLARE.

È arrivato Stan, un giovane, simpatico giocoliere, magro e barbuto, dall’aria sempre un po’ imbarazzata. Il suo accento è tipicamente newyorchese. Wilbur ha appoggiato il caffè sul pavimento ed è impegnato a dar da mangiare al suo serpente, che tiene in una gabbia di vetro. Il serpente è uno di quei rari esemplari venuti alla luce con due teste. Le due teste stanno contendendosi il cibo.

Se riuscissimo a vendere l’uso del brevetto, medita Fitzcarraldo, ma pensate alle possibilità che offre! Ghiaccio! Ghiaccio su ogni nave, in ogni deposito, per rinfrescare i materassi di notte. Ma, ribatte Stan, perché nessuno lo prende sul serio? Anche la patata, dice Fitzcarraldo, nessuno l’ha presa sul serio per duecento anni. Mi sembra di impazzire, dobbiamo dimostrare che la gente ha bisogno del ghiaccio e allora troveremo anche noi un finanziatore. Provate a immaginare, potremmo rifornire la Colombia, l’Ecuador. In America, dice Stan, hanno già fatto un volo di cinquanta miglia con un apparecchio a motore, e il ghiaccio non lo vogliono.

Belen, la fabbrica di ghiaccio di Fitzcarraldo.

Alla periferia di Belen, là dove si inerpicano i gradini che portano alla città di Iquitos e dove comincia il brulicante mercato indio, ci sono case di assi un po’ più solide, coi tetti di lamiera ondulata, che tuttavia non riescono a nascondere il loro carattere amazzonico, trasandato e provvisorio. La parte della fabbrica che dà sul mercato è semiaperta e fuori la vita incalza senza sosta. Uomini e bambini che portano carichi, bancarelle col tetto di olona o di lamiera, pesci che vengono spruzzati perché si mantengano freschi, carne su cui svolazzano fitte schiere di mosche, frutta, montagne di sporcizia, fracasso, musica, bancarelle con cibi fumanti e gente col cibo fumante su piatti di latta, merci avvolte in grandi foglie fresche: tutto ciò è all’esterno, scorre via rumorosamente. Sguardi curiosi di passanti si soffermano su ciò che avviene dentro, i bambini si accalcano alla porta. Sono sempre presenti dove compare Fitzcarraldo.

Dentro, la «fabbrica del ghiaccio» lavora secondo un principio applicato per lungo tempo anche nel nostro secolo, e cioè per sottrazione di calore all’acqua di un recipiente mediante la reazione reciproca di sali diversi. Due lavoranti indios, usando una pertica di metallo, rimestano in continuazione, con ampi movimenti rotanti, in una tinozza che, all’esterno, si è appannata e da cui, per il freddo, si leva un leggero vapore. Su un graticcio di legno sono depositate alcune lunghe stecche di ghiaccio pronto. Fitzcarraldo se ne fa segare una in quattro cubi e li carica su un carrello che trasporta la sua macchina per i gelati. Gringo e Verdi, i suoi due bastardi, lo hanno seguito e si mettono ad annusare in tutti gli angoli; Fitzcarraldo ha per loro un paio di parole affettuose e i cani scodinzolano.

Belen.

Fitzcarraldo, Wilbur e Stan gironzolano per Belen, fermandosi qua e là per vendere ghiaccio. Li circondano schiere di bambini, senza la cui presenza non ci sarebbe nulla di vivace quaggiù a Belen. Qui la vita è amazzonica, e va trascinandosi sonnacchiosa, quasi in coma. Donne stanno sedute nelle loro catapecchie su palafitte, aperte, spulciando i loro bambini per ore e ore, avulse da ogni concezione temporale. Avvoltoi sonnecchiano pigramente. Alcuni sono appollaiati sulle palafitte che servono a trattenere le case galleggianti in caso di inondazione, e tengono aperte entrambe le ali come animali araldici. E se ne stanno così, senza fare alcun movimento, ore su ore. Appoggiate alle verande, delle donne guardano verso il fiume che fuori scorre pigramente. Solo il fiume è sempre in movimento. L’atmosfera è afosa e sa di tanfo, e gli uomini si muovono appena. Su delle piccole graticole a carbone di legna friggono radici di yucca, banane verdi, piccoli delfini che, scuoiati, sembrano dei ratti nudi, pesci; e sopra un fuoco sta arrostendo mezzo caimano. Ciò richiama l’attenzione di Fitzcarraldo. Coccodrilli non ne ho mai assaggiati, dice, e per una moneta se ne fa dare un pezzo servito sopra una foglia di palma fresca. La carne è di un bianco quasi latteo, ha un po’ sapore di palude, dice Fitzcarraldo. Tutt’attorno giacciono intere montagne di corazze di testuggine vuote. Nel terreno paludoso ci sono dei punti dove si sprofonda e dove si deve procedere in equilibrio sopra tronchi di balsa. Si vedono delle piccole cabine di corteccia e di rami intrecciati appoggiate su un paio di travi, sono i gabinetti che quando c’è acqua alta si mettono a galleggiare. Il brulicare di bambini è tale, da poter ben dire che essi formano i due terzi della popolazione locale. Ragazze di quindici anni portano spesso il loro secondo nato nella sciarpa ad armacollo, bambini nudi diguazzano assieme ai maiali nel pantano putrido, bambini giocano con delle palline, bambini trasportano carichi troppo pesanti per loro. Perciò si fermano, ansimano e barcollano.

Fitzcarraldo! gridano i bambini, e Fitzcarraldo vende gelato, lo dà per pochi soldi. Ha infilato nel suo aggeggio un pezzo di ghiaccio, lo fa ruotare con una manovella e lo fa passare sotto una specie di grattugia. Da questa il ghiaccio, simile a neve biancastra e soffice, cade in un bicchiere, e Fitzcarraldo ci versa sopra uno sciroppo denso e dolce, di un arancione violento e di un ancor più violento verde, che subito colora tutta la soffice massa. Mentre Fitzcarraldo ha il suo bel da fare per soddisfare le pressanti richieste, il giocoliere si esibisce, e Wilbur balla davanti ai bambini; con strani movimenti, quasi stregoneschi, illustra ciò che il giocoliere sta facendo.

Stan ha un’affascinante capacità di intendersi coi bambini. Riesce a mimare storie complete con tre o quattro palline che diventano ora tristi, ora allegre, ora screanzate, ora litigiose. È un vero maestro nella sua specialità, uno street-performer nato, che accontenta subito ogni desiderio dei suoi piccoli spettatori, coinvolgendoli nelle sue storie. Sebbene lui parli inglese, e i bambini uno spagnolo amazzonico, si capiscono benissimo. Egli racconta loro la storia truculenta dei bambini che saltano e fanno il bagno nel fiume (e le sue palle saltano e si bagnano), del bambino che è annegato e che è stato attirato dai bufeos bianchi, i delfini d’acqua dolce, sul fondo del fiume perché diventi uno di loro. E di come i delfini cantino e danzino giù sul fondo e talvolta, nelle notti di plenilunio, salgano a danzare sulla superficie dell’acqua.

Di’: IO SONO UN’AQUILA, MA DAVVERO, dice Fitzcarraldo al suo piccolo amico Bald Eagle, appollaiato sulla grattugia del ghiaccio, ma quello si strappa una delle ultime penne, e non dice proprio niente. Gli affari vanno bene, come si vede.

Iquitos, bordello, notte.

In uno degli edifici più vasti e vistosi della città, a cui manca però la raffinatezza dei veri palazzi, e che sa molto di gesso e di colore mediocre, risiede Molly col suo giro di cameriere indie. La casa tuttavia, grazie ad alcune palme disposte in modo elegante, a piante di orchidee e a luci nascoste, possiede tutti i requisiti per stimolare fervide fantasie. Non si può definirla un bordello vero e proprio, ma piuttosto un centro dove Molly insegna a giovani e graziose ragazze indie, spesso catturate con la forza nella foresta, a diventare cameriere in case signorili, il che non significa altro se non procurare delle amanti ai ricchi della città, cosa che d’altronde Molly ritiene migliore del lasciarle andare in malora sulla strada. Molly è una persona posata, conserva ancora il fascino di gran dama dei tempi quando era cantante, ma con gli anni è diventata più materna. È, alle volte, severa con le sue ragazze, ma anche in queste occasioni non perde mai un certo tono affettuoso. Tratta Fitzcarraldo come un ragazzone che va sorvegliato, va consolato al momento giusto, ma al quale bisogna anche concedere la sua libertà.

Molly ama Fitzcarraldo e Fitzcarraldo ama Molly, ma tutt’e due ne hanno ormai passate tante, che non spendono molte parole sull’argomento. Molly e Fitzcarraldo sono seduti assieme al tavolo apparecchiato per una cena elegante, Fitz nel suo vestito migliore, i capelli tenuti in ordine da un po’ di brillantina. Al servizio sono addette alcune delle più belle ragazze di Molly.

Tu sei in buone relazioni con alcuni ricconi di qui, dice Fitzcarraldo. Con tutti, lo corregge Molly. Dovresti vedere come i bambini si strappano di mano il gelato, dice Fitzcarraldo, se ne dovrebbe parlare in giro. Poterlo fare in grande stile… Ma, dice Molly, i baroni qui devono prima volere qualcosa per conto loro, poi finanziano, e sono pronti a pagare qualsiasi prezzo, qualsiasi. Zulma, ad esempio, è qui da me da appena tre mesi, e don Araujo le ha già messo gli occhi addosso, e anche don Alfredo Borja. È uno dei fratelli Borja? domanda Fitzcarraldo. No, il padre, il vecchio, risponde Molly. E adesso fanno a gara nel prezzo, non puoi fartene nemmeno un’idea. Per tanti soldi mi farei costruire, per ogni rappresentazione, un teatro d’opera in blocchi di ghiaccio, e per ogni notte un immenso, gelido palazzo di ghiaccio, solo per una sera, poi si scioglierebbe, dice Fitzcarraldo. Fitz, dice Molly, ecco che sogni di nuovo.

Club, tardo pomeriggio.

Il club di Iquitos si trova al primo piano di un elegante edificio in Plaza de Armas. Le sale sono disposte in modo da aprirsi e prolungarsi tutte in un’unica grandiosa veranda. Grandi ventilatori tagliano il fumo dei sigari, comode poltrone di vimini, un pianoforte su una pedana, c’è un notevole andirivieni. È una vera e propria associazione per soli uomini, qui s’incontrano per giocare d’azzardo quelli che il boom del caucciù ha arricchito da un giorno all’altro. Ogni cosa è ostentata, si mostra apertamente ciò che si possiede e in meno di un’ora interi patrimoni cambiano di mano. Da uno dei tavoli si alzano grida di giubilo, perché uno dei baroni del caucciù, che evidentemente ha vinto, decapita un’intera cassa di bottiglie di champagne con un paio di colpi di machete.

Fitzcarraldo siede, mezzo spinto indietro, a un tavolo dove sei giocatori, testardamente ubriachi e testardamente silenziosi, giocano a poker. Il tavolo è ricoperto di velluto verde e nel bordo di mogano lucido sono inseriti piccoli incavi a forma di coppa, troppo piccoli tuttavia per accogliere i robusti mazzi di banconote che girano per il tavolo. Uno dei giocatori, don Araujo, fa cenno a un cameriere e ordina un altro bicchiere di «piscio di cavallo»; il cameriere, un indio puro, che evidentemente conosce male lo spagnolo, dice sì señor, piscio di cavallo. Per gli altri del tavolo questo sembra essere ormai uno degli scherzi classici, si scambiano occhiate complici. Come si conta, domanda don Araujo, quando gli viene portata la birra; one, two, three, dice il cameriere. E questa, come si chiama? Horsepiscio, dice quello. Bene, giusto, applaudono tutti. Incoraggiato da questa interruzione, Fitzcarraldo prende la parola rivolgendosi a don Araujo. Allora, cosa ne pensa? chiede. Voglio dirLe una cosa, il tono di don Araujo è abbastanza freddo, anzitutto Lei non può avere proprio nessun brevetto, perché quello che vuol fare lo si legge da cent’anni anche nei libri di scuola… Sì, dice Fitzcarraldo quasi timidamente, ma io l’ho sperimentato, e l’esperienza è tutto… In secondo luogo, continua don Araujo, cosa vuol farsene qui del ghiaccio? raffreddare il caucciù? piazzare un ghiacciaio nella foresta? mettere la Trans-Andean-Railway sui pattini, come una slitta, poi mollare i freni e giù a valle? La battuta ha fatto centro. Gli altri giocatori assumono un’aria maliziosa cercando di soffocare le risa. Fitzcarraldo fa per alzarsi di scatto. Ma no, resti ancora, don Araujo lo tira per la manica, prenda questa, e gli allunga una banconota estraendola da un pacco grosso come un mattone, faccia un giro con noi. Ah, che splendida sensazione perdere denaro! Una sensazione divina!

Campanile, Plaza de Armas, tramonto.

In un angolo della Plaza de Armas sorge la chiesa più importante della città, tirata su malamente con cemento di cattiva qualità in uno stile indefinibile che ha qualcosa di gotico. In mezzo alla piazza c’è una fontana, ormai secca da sempre, e intorno panchine, aiuole d’erba e alberi dai rami spelacchiati, praticamente senza ormai più una foglia. Una gran folla è raccolta davanti alla chiesa, con gli occhi fissi al campanile. Riconosciamo Fitzcarraldo e Wilbur, che si sono trincerati lassù e suonano a stormo. La campana manda però un suono fievole e malato, non annuncia né fuoco né guerra né tempesta, il suono è piuttosto quello di una padella stonata.

Fitzcarraldo agita forsennatamente il batacchio e Wilbur danza come un derviscio. La gente guarda in su. Sotto, quattro poliziotti al comando di un tenente stanno cercando di forzare il portale della chiesa, che sembra però essere stato ben sprangato dall’interno.

E poi succede qualcosa che ci mozza il respiro. Il cielo, nel momento in cui il sole sparisce dietro i tetti e viene inghiottito dalla foresta, si oscura. Da ogni parte, il chiarore che ancora rimane viene coperto da nuvole nere impazzite, e adesso comprendiamo anche che cosa siano: immensi stormi di uccelli neri, simili a rondini, che turbinano intrecciandosi in vortici rapidissimi e sempre più compatti, qualcosa di inimmaginabile, come stormi di cavallette bibliche. Se uno li fissa, viene preso dalle vertigini. Ruotano a strati, uno sull’altro, uno dentro l’altro, seicentomila uccelli, tutti sopra la Plaza de Armas. La gente cerca rifugio nei portoni, nei bar aperti. Ed ecco, di colpo, si forma uno stormo di testa che, descrivendo una gran curva, si abbatte come una bufera sulla piazza. Nello stesso momento, il cielo impazzito si trasforma in uno schieramento vorticoso, simile alla coda sferzante di una belva, che si abbassa come una frusta sulla piazza. Seicentomila uccelli, in un unico, sovrumano frullìo, atterrano su due alberi della piazza. Nello spazio di un secondo, gli alberi si trasformano in nere masse informi, non si vede più un ramo, nulla, solo nembi di uccelli che sbatacchiano le ali. Anche ai bordi della piazza, migliaia di uccelli si posano sui cornicioni e sulle sottili decorazioni di stucco, prima appena visibili, segnando di linee nere le facciate delle case.

Sul campanile, Wilbur è in preda all’estasi, danza e combatte con un esercito di seicentomila nemici, che impazzano attorno alla sua testa, a portata di mano. Wilbur è in mezzo a una nuvola di uccelli svolazzanti, fa ruotare le braccia come pale da mulino e grida, Vogliamo l’opera. Fitzcarraldo continua a suonare a stormo.

Prigione, cortile interno.

Il cortile della prigione è un triste quadrilatero, in parte coperto da un tetto di lamiera. Avvoltoi assonnati vi stanno appollaiati sull’orlo. Tutto intorno ci sono le porte delle celle, con le sbarre che arrivano fino a terra. Da una delle celle, che ha la porta aperta, esce un canto sgangherato di voci maschili. Riconosciamo anche la voce di Fitzcarraldo. Wilbur esce dalla cella incespicando, dietro di lui il capitano di polizia e Fitzcarraldo, barcollanti, che si tengono abbracciati per le spalle. Fitzcarraldo agita una bottiglia di whisky nella destra. Compadre, grida, bevi! Che razza di scampanata è stata quella! Bevi! Al tuo teatro! sbraita il capitano. Chi costruisce un teatro dev’essere a piede libero. E tu, compadre, vieni qui, sul mio petto, ma dove s’è ficcato? Wilbur però se l’è già svignata.

Belen, casa di Fitzcarraldo.

Fitzcarraldo, completamente prostrato dalla sbornia, è sdraiato nella sua amaca, ancora vestito, con gli stivali indosso. Si rende conto che uno sguardo lo sta fissando. Con la mano, come al solito, brancola verso il fonografo. Ma non riesce a raggiungerlo, un’altra mano afferra la sua mentre la sta agitando. Fitzcarraldo spalanca gli occhi.

Non ci sono bambini, non c’è nessun muro di corpi in attesa e non c’è nemmeno il maiale, il fan, il corridore dalle lunghe zampe. Davanti a lui c’è Bronski, ed è già tardo pomeriggio. Come, cosa? dice Fitzcarraldo. Io sono il Suo uomo, dice Bronski. Ah sì? dice Fitzcarraldo, con la testa che gli rintrona, non è ancora del tutto presente. Piacere!

C’ero ieri, dice Bronski, quando Lei ha letto il Suo proclama per il teatro dell’opera dal campanile, mi è piaciuto come ha suonato a stormo. Sono un attore, permette che mi presenti? Bronski. Ah sì, dice Fitzcarraldo, tornando lentamente in sé. Ma che ore sono? Oh, la mia testa!

Sono arrivato a Iquitos da poco, dice Bronski. I palcoscenici del mondo mi sembrano solo stupidaggini. Quello che adesso ci resta è la foresta vergine. Lei deve scusare il mio accento, non sono ancora riuscito a scuotermi completamente di dosso la Germania. E improvvisamente, senza un preavviso, comincia a recitare un monologo di Shakespeare, ma con una tale audacia, con una tale intensità, che già alle prime battute a uno si blocca il respiro. Bronski ha una specie di accesso, un attacco di pazzia, la gente si raccoglie sotto la capanna. Di colpo, a metà di una battuta, Bronski s’interrompe. Se questo non è l’uomo giusto, dice Fitzcarraldo, che io non mi chiami più Fitzcarraldo.

Bordello di Molly, verso sera.

Molly e Fitzcarraldo si sono consultati a lungo e sono pienamente d’accordo. Ci penso io, dice Molly, ho le mie aderenze, fidati. Porto con me le ragazze, e vedrai che verranno tutti. Riusciremo a mettere insieme tutti i baroni del caucciù, e ci penso io a farli sentire a loro agio. E tu porti Bronski e il tuo fonografo… Ma hai un aspetto da far paura, tu non esci da casa mia in queste condizioni!

Ad un cenno, quattro belle ragazze indie afferrano Fitzcarraldo e lo trascinano, incuranti delle sue energiche, un po’ troppo energiche proteste, in una stanza ai piani superiori. Un bagno turco, grida dietro Molly, un bel bagno turco per il signor Fitzcarraldo! Aiuto, grida Fitzcarraldo a Molly, mentre sparisce dietro la porta.

Festa in giardino, notte.

Una festa all’aperto con tutto quanto vi è di ricco e d’importante. Signori in frac e signore in lunghi abiti da sera. Si può notare che il comportamento di molti degli uomini presenti è maldestro, è chiaro che fino a pochi anni fa non erano nessuno, che i loro modi sono soltanto una sottile patina esterna che nasconde al fondo una banda di imbroglioni e di criminali. I lampioni illuminano un rigoglioso giardino tropicale, sentieri di sabbia, erba rasata, fuochi su cui arrostiscono montoni, camerieri che presentano agli ospiti grandi pesci su vassoi d’argento, prima di tagliarli, champagne a fiumi. Molly è lì con le sue ragazze, che portano grembiuli e crestine ricamati uguali per tutte, e servono vassoi con bevande. Fitzcarraldo è insieme a Bronski, ambedue indossano i loro vestiti migliori e sono tirati a lucido. Passeggiano per il giardino con un gruppo di miliardari, i fratelli Borja e don Araujo. Tutti ci chiedono soldi, si lamenta Alfredo Borja, l’ospedale, i pompieri, e Lei ci è sempre alle calcagna con il suo teatro. Dove andremo a finire? Non possiamo fare tutto noi. Si deterge la pelle olivastra del viso e il grasso collo con un fazzoletto di seta.

Adesso venga un po’ qui a vedere. Tira fuori di tasca un mazzo di banconote che peserà mezzo chilo. Venga qui e osservi bene. Si fermano davanti a un laghetto artificiale dalle sponde imbiancate a calce; la superficie dell’acqua è tranquilla, di un bruno sporco. Borja getta il denaro nel laghetto, a circa un metro di distanza, e subito l’acqua si trasforma in un’unica furibonda battaglia, come se mostri marini stessero lottando fra loro. Un gigantesco paiche, una specie di enorme luccio dell’Amazzonia, lungo quasi tre metri, afferra con la bocca il fascio di banconote e lo trangugia con un orrendo rumore. Altri pesci lottano con frenetica avidità per afferrare una parte di ciò che credono sia cibo. Fitzcarraldo è rimasto immobile, spaventato, e Alfredo Borja assume un’aria pensosa. Ecco come sparisce il nostro denaro, osserva con tono di sufficienza. Anche Lei del resto ha già fatto questa esperienza, una ferrovia del genere deve certo inghiottire un sacco di soldi. Ci dev’essere qualcosa di eccitante nel far bancarotta.

Fitzcarraldo riesce a mantenersi calmo con grande fatica. Vediamo bene come gli riesca difficile frenare l’impulso di scaraventare Borja nel lago, dietro i suoi soldi. Ho portato il mio fonografo, con le prime incisioni esistenti di Caruso, quelle di Milano, e poi alcune fatte più tardi, a New York. Bisogna che Lei le senta almeno una volta. E guardi qui quest’uomo, Bronski. Ah, dice don Araujo, il signore che dovrebbe farci sentire qualche cosa di Shakespeare. Possiamo cominciare subito, sa, un’occasione del genere, trovare riuniti tutti gli amici e anche i concorrenti, non capita spesso. Prego, cominci pure e cerchi di essere breve. Signore e signori! Un momento di attenzione, per favore!

Gli ospiti della serata si raccolgono un po’ titubanti, con i bicchieri in mano, ancora immersi nelle loro chiacchiere. Bronski attacca con un monologo dal Riccardo III, e già dopo le prime tre frasi arriva ad un tale parossismo isterico, che il parlottìo cessa di colpo. Si diffonde il terrore. Zoppicando, Bronski si lancia verso un gruppo di signore, che si disperdono inorridite. Bronski gira vorticosamente, un uomo dietro di lui smette di masticare il suo sigaro. Ormai in preda alla follia, Bronski, con lo sguardo estatico, si butta addosso a una ragazza, che scappa via subito. Non sono passati due minuti, che don Araujo, evidentemente il padrone di casa, si vede costretto a porre termine allo spettacolo. Ad un suo cenno, tre servitori negri afferrano Bronski e lo trascinano via. Lo prendono con i loro guanti bianchi come se fosse un lebbroso, un puzzone, un cagnaccio rognoso. Un altro servitore prende Fitzcarraldo per un braccio e vuol portarlo via. Scoppia uno scandalo quando Bronski, con uno strattone incredibilmente folle, si libera e si mette a urlare il Riccardo III sulla faccia dei Borja.

Niente paura, signore e signori, questi signori sono innocui, hanno solo avuto delle esperienze traumatiche. Signore, e don Araujo fa un perfetto inchino a Fitzcarraldo, i miei servitori La condurranno in cucina. Il cuoco dei miei cani preparerà Loro un pranzo. Grazie, signori, siete stati eccezionali. Bronski è ammutolito, è ancora la personificazione dell’IRA, sprizzante, lampeggiante e assassina; anche adesso che tace è sempre nella sua parte. Fitzcarraldo, con improvvisa freddezza, tira verso di sé una delle ragazze che porta un vassoio con bicchieri colmi di champagne. Ne afferra uno e lo leva in alto: A Shakespeare, dice, e lo vuota d’un colpo. Poi subito un altro. Al cuoco dei Suoi cani! Poi un altro ancora: a Verdi! E poi ancora uno, e ancora, ancora. A Rossini! A Caruso! Con una decisione improvvisa, don Araujo afferra l’ultimo bicchiere, lo leva, rivolgendosi alla piccola folla ammutolita: a Fitzcarraldo, all’EROE DELL’INUTILE! Prosit! Fitzcarraldo, con gelida calma, si avvicina fino a pochi centimetri dal viso di don Araujo, che lo attende a piè fermo. Parla con voce sommessa, tremante per lo sforzo di controllarsi: come è vero che sono qui, un giorno porterò la Grande Opera a Iquitos. Io sono l’Eccesso e il Soprannumero. Io sono l’Ultima Battaglia. Io sono i Miliardi. Io sono lo Spettacolo nella foresta vergine. Io sono l’Inventore del caucciù. Solo attraverso me il caucciù diventa Verbo.

Porci, porci schifosi, troie, urla Bronski con un tono di voce che non ha più nulla di umano. In un baleno scoppia una rissa con i servitori. Molly, sconvolta dal modo in cui sono stati trattati i suoi amici, abbandona ostentatamente il campo con tutte le ragazze. Tutto finisce in un tumulto selvaggio, in una zuffa violenta.

Belen, riva del Rio delle Amazzoni, giorno.

Il maggior fiume della terra scorre possente e tranquillo. Piove a rovesci tranquilli, tutto è acqua. Tranquille passano le navi, e nuvole temporalesche opprimono il cielo. Fitzcarraldo è seduto in una bettola protetta da un tetto di palme insieme a Wilbur e Stan. Li vediamo di spalle che osservano la pioggia. Vicino a loro, sdraiato a terra, c’è un seringueiro ubriaco che russa. Stan, elegiaco e con aria assente, gioca con alcune palle. La pioggia gocciola dal tetto formando uno spesso sipario. Lungo silenzio. Potrei uccidermi, in queste occasioni le idee migliori mi vengono sempre dopo. Avrei voluto dire: caro signore, Lei è completamente morto, Lei non vive già più. E lui avrebbe detto: credo che Lei si sbagli, sono qui piantato sulle gambe più saldo di Lei, e io avrei detto: quando si spara a un elefante, anche quello resta in piedi ancora dieci giorni prima di crollare. E vorrei tanto aver detto: caro signore, la realtà del Suo mondo è solo una brutta caricatura delle Grandi Opere.

Dobbiamo arricchirci da noi, col caucciù, dice Stan. Come hanno fatto questi tipi, anche loro non avevano nulla. Anzitutto, dice Fitzcarraldo, devi avere della terra. Che qui non costa quasi niente, ma tutte le zone dove si può ricavare qualcosa dagli alberi sono già occupate. E poi devi avere un grosso vapore per poter fare i trasporti su e giù per il fiume e approvvigionare un gran numero di lavoratori. E noi non abbiamo né l’uno né l’altro. Ma, dice Stan, sull’Ucayali c’è pure un territorio con milioni di alberi del caucciù, grande quasi quanto il Belgio. Già, dice Fitzcarraldo, ma lì non ci arrivi, è lungo il corso superiore e sotto c’è il Pongo das Mortes, quello non lo superi di certo. Altrimenti ci avrebbero già pensato gli altri.

E il Pongo das Mortes? domanda Wilbur nel silenzio che segue.

Pongo das Mortes, mattino presto.

Foresta vergine, ripide montagne, nebbia vaporante. Grida di pappagalli, l’acqua romba e mugge come un toro selvaggio. Al di sotto della stretta del Pongo, il fiume diventa subito largo circa mezzo chilometro, ma possiamo vedere chiaramente le pareti di roccia che si stagliano verticalmente fino al centro del Pongo. In alto sono coperte da vegetazione fittissima. Il fiume è in piena, la corrente giallo-brunastra scivola rapida in avanti. Fitzcarraldo si trova con don Aquilino, un barone del caucciù di corporatura esile, che sembra un aristocratico spagnolo, sulla riva del fiume, nella fitta foresta. Un po’ più arretrati rispetto a loro ci sono alcuni indios sbrindellati, armati di machete, che fissano l’acqua. E il Suo possedimento? domanda Fitzcarraldo. Finisce proprio qui al Pongo. Poi prosegue a valle per quasi trenta chilometri. E a monte? domanda Fitzcarraldo. Già, a monte, sospira don Aquilino, mi piacerebbe esserci. Se ha buone gambe e Le piace arrampicare, beh, buon divertimento. Avevamo già pensato di costruire una strada per arrivare lassù, ma è un’impresa folle, e poi ci manca sempre qualcosa. Una nave, pensa Fitzcarraldo, terminando il pensiero ad alta voce. E attraverso il Pongo, nessuno ci ha ancora pensato? Venga Lei stesso, dice don Aquilino, deve proprio vedere con i Suoi occhi, lo so bene che altrimenti non mi crede.

Nel Pongo das Mortes, in barca.

Ci troviamo con Fitzcarraldo e don Aquilino su di una potente barca a motore, governata da un indio. Tutt’e tre indossano dei salvagente. A sinistra e a destra le pareti di roccia filano via nella nebbia. La corrente è rapidissima e forma gorghi giganteschi che spesso, simili a cicloni con un occhio profondo al centro, la risalgono in semicerchi. Che cos’è? chiede Fitzcarraldo spaventato. Psst, piano, non parlare, dice il barcaiolo in spagnolo. Cosa dice? chiede Fitzcarraldo. Deve star zitto, dice don Aquilino, chi parla o fa rumore viene inghiottito dai vortici. È una credenza degli indios locali. La corrente si fa talmente forte e le onde davanti si alzano così minacciose, che la barca è costretta a ormeggiarsi ai grossi scogli della riva. Qui, scaraventati dalla corrente, ci sono dei pezzi di tronchi d’albero, completamente triturati, levigatissimi, dalle forme più strane. In caso di gran piena, l’acqua sale in questo punto di oltre trenta piedi sul livello attuale, dice don Aquilino. Guardi i segni. In effetti, quanto vediamo non ci fa presagire nulla di buono circa le forze che qui si scatenano. Possiamo proseguire per un tratto a piedi.

Riva sul Pongo das Mortes.

Fitzcarraldo e don Aquilino si sono spinti a piedi fino al punto in cui non si può più procedere, perché la roccia precipita verticale nell’acqua schiumeggiante. Ci troviamo in mezzo alle rapide più terribili di tutto il Sudamerica, è UN VERO INFERNO. Vediamo come don Aquilino avvicini a sé la testa di Fitzcarraldo per farsi sentire in quel frastuono. Gli indios chiamano le rapide «chirimuya», gli «spiriti irati», grida, chi cade qui dentro è spacciato. «L’acqua non ha capelli», dicono gli indios, grida ancora, e ride.

Vediamo come i due, sempre con i salvagente addosso, cercano di afferrarsi alle rocce scivolose. Molto in alto sopra di loro il cielo è velato di nebbia, le rocce ci si perdono dentro. Colibrì spuntano dalla nebbia ondeggiante sfrecciando verso il basso. Liane penzolano dal nulla fin giù, dove l’inferno ribolle. Di qui non si potrà passare mai.

Foresta vergine, sentiero.

La foresta imbrunisce e marcisce su se stessa, dal terreno salgono vapori putrescenti di dissoluzione organica. La pioggia cade incessante a rovesci, incessanti urlano le scimmie i loro suoni lamentosi tra le immense chiome degli alberi. Gli uccelli stridono nel groviglio delle liane, un’orchestra possente e misteriosa, che arriva fino ai confini del mondo.

Un sentiero, appena visibile ad occhio nudo, si snoda attraverso il verde groviglio gocciolante. Lo distinguiamo solo quando ci passa davanti, quasi di corsa, una strana processione guidata da un indio seminudo. L’indio porta, fissato ad un nastro frontale, qualcosa che assomiglia a una lampada da minatore, e tiene nella destra un affilatissimo machete, che manovra con movimenti incredibilmente sciolti e ondeggianti, per tagliare fogliame e liane cresciute nel frattempo. Dietro di lui corre don Aquilino, con un cappello grottesco dal quale pende una zanzariera fissata al collo, che lo fa assomigliare a un apicoltore, e dietro ancora arranca Fitzcarraldo, inciampando, scivolando e agitando le mani per difendersi dalle zanzare. Dietro di lui arrivano ancora alcuni indios dai capelli cortissimi, scalzi e seminudi. Scivolano attraverso la foresta con fare timido e in silenzio. Glielo avevo ben detto, fa don Aquilino rivolgendosi a Fitzcarraldo, che non è un divertimento. Fitzcarraldo cade sul terreno marcio, fangoso e zuppo di pioggia, si rimette però subito in piedi e riprende coraggiosamente la marcia. La foresta li inghiotte.

Foresta vergine, albero del caucciù.

Gli uomini di prima si sono fermati presso un albero di caucciù. Questa è dunque la pianta del caucciù? domanda Fitzcarraldo, e sembra essere un po’ deluso da quell’albero poco appariscente, piuttosto piccolo, dalla corteccia verde. Sì, l’havea brasiliensis, dice don Aquilino. L’indio con la lampada sulla testa incide nella corteccia, con rapidi tagli esperti, una specie di spina di pesce, vi infila un pezzetto di legno acuminato in modo che sporga inclinato verso terra, e subito un succo biancastro e denso comincia ad uscire dai tagli, a raccogliersi e a confluire. Il succo lattiginoso viene incanalato sull’ago di legno e di qui stilla in un recipiente di latta che uno degli indios ha velocemente fissato al tronco mediante un fil di ferro. L’indio parla aguaruna e don Aquilino traduce. Il termine per la gomma viene dalla loro lingua, la chiamano cautchou, «l’albero che piange». Questi culi nudi amano le espressioni fiorite, chiamano l’oro «sudore del sole» e le api «padri del miele». Si fa una bella fatica a mantenere la disciplina tra questi culi nudi. A ognuno viene affidato il suo singolo appezzamento, e dato che le piante sono parecchio distanti tra loro, è proprio un bel correre. Ma è l’unico metodo per impedire a questi qui di fare delle stupidaggini.

Foresta, campo dei raccoglitori di caucciù.

In mezzo alla foresta grondante si trova una piccola radura, dove sono fermi alcuni malinconici polli, gocciolanti di pioggia. Stanno lì apatici, assolutamente immobili e non pensano a niente, con intensità. I pappagalli schiamazzano tra le cime degli alberi, la pioggia fruscia, molto lontano romba un tuono possente. Tra i tronchi fuma l’umidità. Qua e là ci sono alcune capanne molto primitive. Al centro dello spiazzo ci sono due tettoie di rami di palma intrecciati, di altezza diversa, inclinate quasi verticalmente. Sul terreno tra i versanti dei due tetti brilla un fuoco, sopra il quale gira, sostenuta da due forcelle, una stanga di legno su cui si è già raccolta una grossa massa di caucciù brunastro. Un indio fa girare la stanga e un altro ci versa sopra con attenzione il succo lattiginoso del caucciù, che subito, per effetto del fuoco fumoso, si rapprende formando una pelle sottile, e che va ad ingrossare la balla. Un fumo bianco e acre si leva verso la pioggia, stagna sulla radura e tra gli alberi e non vuole disperdersi. Fitzcarraldo è accoccolato con don Aquilino ai piedi della ripida parete protettiva e tenta, tenendo bassa la testa, di evitare il fumo. Tra le dita tiene una sigaretta gonfia per l’umidità, e arrotolandola tra l’indice e il medio si avvicina alla fiamma per asciugarla. Ma lì fa troppo caldo, e la sigaretta continua ad essere bagnata. Gli indios lavorano in silenzio. Lei è un tipo strano, dice don Aquilino, ma mi è simpatico. Voglio dirLe una cosa, fa Fitzcarraldo. C’è stato un altro tipo strano, un francese, al tempo in cui il Nordamerica era quasi ancora inesplorato, uno dei primissimi corridori campestri. Si spinse da Montreal verso ovest e fu il primo bianco a mettere gli occhi sulle cascate del Niagara. Quando tornò indietro raccontò delle cascate, che erano così grandi e imponenti, una cosa che superava tutte le misure di grandezza fino allora conosciute. Non fu creduto, si pensò che fosse un bugiardo o un pazzo. Ma era un visionario. Gli fu chiesto: «E qual è la Sua prova?», e lui rispose: «La mia prova è che io ho visto le cascate». Fitzcarraldo tenta di accendere la sigaretta con un ramoscello arroventato, ma quella non vuol prendere fuoco. Mi scusi se Le ho raccontato adesso questa storia, dice Fitzcarraldo tossendo, non so nemmeno io cosa abbia a che fare con me in questo momento.

Il campo è avvolto da un vapore mitico, la pioggia preme sulla triste foresta con tutta la colossale pesantezza di un continente intero. Attacca una musica possente. Respiriamo a fondo.

Casa di don Aquilino, notte.

Un’ampia veranda costruita su palafitte, come del resto tutta la signorile residenza di don Aquilino; e illuminata da lampade a petrolio. Da una delle stanze, che ha la porta aperta, un fascio di luce si proietta verso l’esterno. Un uomo attraversa il cono luminoso e la sua ombra scivola sul pavimento della veranda. Solo ora ci accorgiamo che alcune donne e ragazze indie sono accoccolate nell’oscurità tra le poltrone di vimini della veranda. La pioggia canta monotona sul tetto di lamiera ondulata della casa.

Nel soggiorno, visto dalla porta della veranda. Mobilio semplice, l’abitazione di un pioniere, soltanto da un’ampia scrivania di mogano s’intuisce che don Aquilino è uno dei grandi ricchi del paese. Una giovane india scivola dentro portando due bicchieri di denso succo di papaia. Fitzcarraldo ne afferra distrattamente uno. Non presta troppa attenzione a don Aquilino che gli sta parlando. Donne, sta dicendo, è l’unico lato piacevole di questo mestiere, ce ne sono sempre in abbondanza. Ma i primi due o tre anni bisogna cavarsela da soli, altrimenti va tutto a catafascio. Ma Fitzcarraldo ha occhi solo per una carta geografica appesa alla parete, che lo attira magicamente. Don Aquilino gli si accosta. Questo, dal Pongo fino allo sbocco nel Rio delle Amazzoni, è il mio territorio. E qui sono i possedimenti di Araujo, grandi come la Svizzera. Qui quelli di Alejandro Borja, qui quelli di Gustavo Borja, e qui quelli di Clodomiro Borja. E a nord di questi c’è Hardenburg, come Lei sa, l’unico prussiano. Più a est può vedere la Peruvian Amazon Company, è una società per azioni. Don Aquilino indica tutti i territori sulla carta con ampi gesti fuggevoli adeguati a un latifondista del suo calibro, resta solo un grande vuoto sull’Ucayali, a monte del Pongo.

La carta, più da vicino. Vediamo una fetta del territorio amazzonico con molti fiumi assai ramificati che nelle Ande peruviane piegano tutti verso sud in vallate montane parallele, e altrettanto fanno nelle Ande ecuadoriane e colombiane, solo che qui piegano tutti verso nord. Il Pongo das Mortes si trova alle ultime propaggini delle Ande peruviane. Parallelo all’Ucayali, il fiume più vicino è il Pachitea, che talvolta ne scorre lontano almeno cento chilometri, ma in alcuni punti gli si avvicina abbastanza; nel complesso se ne ricava l’impressione che ambedue i rami sorgentiferi scorrano parallelamente l’uno rispetto all’altro. Il Pachitea sfocia nel Rio delle Amazzoni a monte di Iquitos, l’Ucayali un po’ a valle. Lungo tutti gli altri rami sorgentiferi vi sono superfici tratteggiate di grande estensione, certo le zone del caucciù. Lungo il corso superiore dell’Ucayali, a monte del Pongo, è segnato un rettangolo non tratteggiato, lungo il Pachitea assolutamente niente.

Fitzcarraldo vuol sapere cosa significa quel rettangolo. Ebbene, dice don Aquilino, è la zona del caucciù dell’Ucayali, con circa 14 milioni di piante e, vede, è l’unica che non abbia trovato un proprietario. Bisognerebbe poter volare. Volare si può già da un pezzo, dice Fitzcarraldo. E perché lì sul Pachitea non è segnato niente? Non ci sono piante di caucciù, cioè qualcuna se ne trova, ma non vale la pena, dice don Aquilino. L’unica cosa che si trova lì sono indios selvaggi. La civilizzazione dei bianchi si è fermata davanti alla loro porta, perché avanzare non sarebbe stato redditizio per noi.

Fitzcarraldo da vicino. Un’idea, che non si discosta molto dalla pazzia, l’ha improvvisamente afferrato. Fissa il corso del Pachitea, poi quello dell’Ucayali, un lampo represso gli attraversa il cervello. Fitzcarraldo vorrebbe far finta di nulla, ma per una svista afferra il bicchiere di don Aquilino, e lo vuota di colpo, per riuscire a dominare la sua raucedine. È precisa questa carta? ne esistono di più dettagliate? prorompe. Sì, dice don Aquilino, perché? Fitzcarraldo lo fissa con sguardo vitreo. Nel ’96 una squadra di agrimensori con dei soldati è arrivata fino all’alto Pachitea, alcuni di loro sono stati uccisi, e i gesuiti si sono spinti ancora per un tratto su per il fiume. La loro ultima base fissa è Saramiriza, da lì in avanti si trovano solo aguarunas. Quelli veri. Che tagliano e riducono le teste, come gli jivaros. Ne ha mai vista una? Aspetti un momento.

Don Aquilino si assenta brevemente in un locale adiacente e torna con una testa ridotta alle dimensioni di un pugno, di colore nerastro. È la testa di un indio dai lunghi capelli. Le labbra sono cucite insieme con un filo di fibra. Tipico aguaruna, qui della regione, ma è ormai roba di vent’anni fa, dice don Aquilino. Fitzcarraldo non è in grado di prestargli orecchio, una GRANDE IDEA si è impadronita di lui.

Iquitos, bordello di Molly.

Da questo momento in avanti gli avvenimenti incalzano, assumono un andamento rapido e convulso. Molly sta cedendo una delle sue ragazze a un ricco, grassissimo cliente. La scelta si è ridotta a quattro giovani indie, le altre stanno uscendo dalla stanza. Dunque, adesso Lei deve scegliere tra queste quattro, dice Molly con un tono da transazione commerciale. Già, sospira l’uomo, ora diventa difficile. Fitzcarraldo entra di corsa, afferra Molly e la prende in disparte; lei è sconcertata, da un pezzo non lo vede in quello stato. Credo che le prenderò tutt’e quattro, dice l’uomo, mezzo con aria di scusa e mezzo con aria di complicità. Molly, ansima Fitzcarraldo, non lo crederai – abbassa la voce, con fare deciso di minaccia – NON LO CREDERAI, ma ho bisogno dei tuoi soldi. Mio Dio, no, ecco che ci risiamo, dice Molly. Ho un’IDEA, dice Fitzcarraldo, spiegando sul tavolo più vicino carte geografiche che riproducono in dettaglio i settori dei corsi superiori di alcuni fiumi del bacino amazzonico.

Camera da letto di Molly, notte.

La stanza di Molly è dominata da un vasto letto francese in ottone, di ottima fattura, quanto al resto colpiscono solo alcune piante ornamentali e un comodino con preziosi profumi in boccette di cristallo molato. Molly e Fitzcarraldo sono a letto, piacevolmente stanchi e un po’ scarruffati, ma Fitzcarraldo è di ottimo umore, Molly è fiacca e tenera. Per prima cosa devo andare dal notaio, poi bisogna far arrivare la nave, si chiamerà Molly, poi… Ma, obietta Molly, per una nave come si deve i miei soldi non bastano certo. Fitzcarraldo sul momento non riesce a trovare una risposta, ma è felice di essere riuscito ancora una volta a convincere Molly. Allunga una mano sotto il lenzuolo che li ricopre entrambi, e si gratta un ginocchio. Molly resta un momento stupita, e poi Fitzcarraldo tira fuori di colpo uno scarafaggio, un esemplare superbo, più grosso di quanto normalmente siamo abituati a vederne. Fitzcarraldo lascia libero il mostro zampettante, che subito si mette a correre a velocità pazzesca sul lenzuolo, scomparendo sul pavimento. Riusciamo anche ad avere figli, dice Fitzcarraldo, trovandosi spiritoso.

Studio del notaio.

Lo studio del notaio ha tutto ciò che sullo scorcio del secolo ha reso sgradevoli gli uffici peruviani. Pavimenti in legno strofinati, sconfortanti, scaffali con pratiche tra le quali non si trova mai ciò che si cerca, una brutta fotografia del presidente in carica, una bandiera polverosa in un sostegno e una scrivania che dovrebbe far colpo, ma che invece riesce antipatica. In un angolo, attendono a delle pratiche qualsiasi un paio di giovani di studio, riconoscibili già a distanza come degli incompetenti. Il notaio è un signore anziano, magro, molto alto, che siede leggermente incurvato dietro la scrivania, come se non dovesse sporgere troppo al di sopra di essa. Tiene aperta davanti a sé una carta topografica con delle annotazioni di un geometra, un contratto completo in ogni sua parte, diversi moduli ancora da firmare. Fitzcarraldo ha l’aria di uno sicuro di sé, e Wilbur, che vuole imitarlo calcando i toni, ha l’espressione della sicurezza personificata. Fitzcarraldo ha davanti a sé, sul piano della scrivania, un rotolo di banconote sul quale tiene ancora la mano. Il notaio si raddrizza un po’ sulla sedia. Lei deve firmare col Suo nome originale completo, qui gli pseudonimi che usa Lei non sono purtroppo ammessi. Veniamo alla procedura: l’atto di compravendita va seguito punto per punto, Lei e il Suo socio prima firmano e poi consegnano il denaro, e io perfeziono il documento con la mia firma. Ma prima che ciò avvenga, devo richiamare la Sua attenzione sulla clausola di opzione. Lo stato peruviano esige obbligatoriamente tramite i propri organi legislativi che di un territorio di tale superficie venga effettivamente e comprovatamente preso possesso entro nove mesi, e che vengano intraprese e comprovate le prime operazioni per lo sfruttamento del territorio stesso, altrimenti i Suoi diritti di sfruttamento decadranno senza possibilità di risarcimento. Lo stato ha interesse a che i territori suddetti siano effettivamente sfruttati, in modo competente e continuato, perché non rimangano improduttivi. Dia pur qui, dice Fitzcarraldo, lo sappiamo da un pezzo, gli fa eco Wilbur. Mi permetta una domanda, dice il notaio, Lei è proprio sicuro di sapere ciò che vuol fare? Ci facciamo i miliardi, ribatte Fitzcarraldo. Il notaio passa lentamente lo sguardo da uno all’altro. È evidente che non ha a che fare solo con un deficiente mentale, ma con un deficiente e un pazzo. Beh? dice Wilbur. E: Proceda pure, dice Fitzcarraldo.

Rio Itaya.

Una pioggia sottile, uggiosa avvolge fiume e foresta vergine. L’Itaya, di colore giallo-bruno, scorre lentamente. Se ne diparte un braccio laterale con rive grigio-nere, fangose, e con altrettanto fangosi banchi di sabbia. In mezzo al pantano giace semidistrutto e completamente arrugginito lo scafo di una nave, senza più sovrastrutture né macchina, il battello non vale più nemmeno come rottame. Con l’aiuto di Wilbur, Fitzcarraldo spinge sull’acqua bassa il suo peke-peke fin quasi a toccare il relitto. Ma sa già, e lo vediamo dai suoi movimenti, che ciò non ha alcun senso. No, dice Fitzcarraldo. Tutto qui.

Foresta vergine presso Puerto Maldonado.

Piove a dirotto, sulla foresta vergine si scatena un temporale e l’acqua scroscia sordamente e ritmicamente tra i giganti silenziosi della foresta. Fitzcarraldo e Wilbur sono sprofondati nel pantano fino alle caviglie e si riparano con grandi foglie di banano tenendole sopra il capo. Guardano fisso davanti a sé da sotto il tettuccio grondante.

Vediamo ciò che essi vedono. Lì, in mezzo alla foresta, campeggia un piroscafo a ruote di enormi proporzioni, sicuramente depositatovi più di un decennio fa da qualche violenta alluvione, e lì rimasto piantato, lontano dal corso del Madre de Dios. Le liane lo hanno completamente avvolto, e i giganti della foresta gli sono cresciuti tutt’attorno e dentro. Dallo scafo aperto emerge una pianta di almeno dieci metri di altezza. Sui ponti e dalla cabina del capitano trabocca una vegetazione fresca e lussureggiante. Spettacolo assurdo ed enigmatico, come emerso dai sogni crepuscolari della giungla stessa. Fitzcarraldo, in piedi, fissa l’apparizione. No, dice voltandosi. Si allontana con passo pesante sguazzando nel pantano.

Rio Nanay.

Fitzcarraldo e Wilbur sono in piedi, lo sguardo fisso in avanti. Dietro di loro volteggiano cumuli di nuvole bianche come bioccoli di ovatta. Splende il sole. Fitzcarraldo assume un’espressione beota e Wilbur sorride come sorridono i chierichetti alla messa, un sorriso di estasi religiosa. Fitzcarraldo si toglie il cappello, tenendoselo sul petto. Wilbur, dice in tono solenne, eccola qui.

Vediamo quello che vedono loro. Eccola lì, LA NAVE, la Nariño, il gioiello, sia pure tirata a terra senza riguardi, coperta totalmente di ruggine, con qualche falla sotto la linea di galleggiamento, malinconica, bella e SEDUCENTE. La Nariño misura circa quaranta metri di lunghezza, ha due piani di sovrastrutture, e sopra il secondo ponte ancora il ponte di comando, parecchie scialuppe di salvataggio e un fumaiolo inclinato, inoltre un albero a poppa e uno a prua. Non è un piroscafo a ruote, che comunque difficilmente si incontrerebbe in queste acque, ma in origine aveva un’elica, che ora manca, e di cui scorgiamo ora il mozzo che penetra verso l’interno. Il timone è spezzato, le cabine di coperta recano ancora qualche pallida traccia di vernice bianca, e in qualche punto cresce l’erba. Ma la nave emana un fascino tutto particolare, in una parola, è proprio quella.

Assieme a Fitzacarraldo e a Wilbur andiamo a esplorare la nave e a rovistare nelle cabine e nella sala macchine. Nei pressi, quasi attorno alla prua della nave, sorgono su palafitte alcune catapecchie di legno dalle cui finestre bambini e donne indios guardano trasognati, con apatica indifferenza. La vecchia e grande macchina a vapore è ancora lì, ma chiaramente fuori uso da molti anni, in coperta ci sono delle deliziose decorazioni e guarnizioni di ottone, e le intelaiature superiori delle cabine sono ornate di bei listelli di legno, dai quali si stacca sfogliandosi il colore. In ciascuna delle cabine, piuttosto strette, ci sono due letti sovrapposti, dei quali rimangono soltanto le intelaiature metalliche dagli ornamenti bizzarri, la cucina è attrezzata quasi al completo, ci sono perfino ancora pentole e posate. Fitzcarraldo è pieno d’entusiasmo, e Wilbur, correndo sempre più in fretta su e giù per i ponti, sparisce in una cabina per poi schizzare fuori da qualche altra parte. Si lascia andare a delle mosse che assomigliano ad uno strano passo di danza. Nella timoniera è appollaiato un pollo tutto spelacchiato, che abbandona starnazzando il suo posto.

Ufficio della Ditta Fratelli Borja.

I tre fratelli Borja, che nei loro eleganti abiti tropicali hanno l’aspetto di boss mafiosi, offrono un sigaro a Fitzcarraldo. I quattro uomini si accendono grossi sigari scuri, brasiliani, visto che l’affare è concluso, le carte firmate, il denaro versato. I tre fratelli fingono curiosità. C’è una cosa, dice Clodomiro Borja avvolgendosi in una spessa nube di fumo e ponendo la domanda con una lentezza assaporata, che naturalmente ci interessa. Non è che Lei abbia pensato per caso ad una rete di collegamento con la Sua linea ferroviaria? Cioè, aggiunge Gustavo Borja intenzionalmente, una combinazione di trasporti per nave risalendo dall’Atlantico il Rio delle Amazzoni, e di là proseguendo con la ferrovia oltre le Ande, sino alla costa del Pacifico. Ci corregga, se sbagliamo. Fitzcarraldo si avvolge di fumo e di silenzio. Ardito! Magnifico! Sa, noi tre abbiamo fatto una scommessa su quanto tempo Le ci vorrà per fare di nuovo bancarotta. Non lo prenda come qualcosa di personale, tra sportivi c’intendiamo. Sposterò una montagna, dice Fitzcarraldo, buon giorno.

Rio Nanay, posto di ormeggio della Nariño.

Il posto è come trasformato, intorno alla nave e sui ponti regna una indescrivibile attività. Lungo i fianchi della nave sono disposte delle impalcature. In coperta sono all’opera carpentieri e falegnami, qui si lavora di vernice, là si strappano via le piastrelle metalliche irrimediabilmente corrose dalla ruggine, qui si martella e si fucina, là si grida e si canta, è un piacere stare a guardare. Molti degli operai sono ragazzini, che svolgono mansioni di piccola manovalanza, che verniciano ad olio. Fitzcarraldo è in continuo movimento, corre di qua e di là, impartisce istruzioni, dirige i carpentieri che lavorano di martello e di sega, scende carponi nella sala macchine, dove si stanno smontando pezzo per pezzo la macchina e la caldaia. C’è anche Wilbur che sta spazzando i ponti in preda a esaltazione entusiastica, Stan tiene di buon umore i ragazzini esibendosi in giochi di abilità con delle palle, Bronski si precipita come una furia in mezzo ad un gruppo di uomini che stanno fissando una piastra metallica nel punto evidentemente sbagliato dello scafo. Fa paura a guardarlo. Accanto alla nave è sistemato un piccolo laboratorio di falegnameria a cielo aperto, e accanto ad esso una fucina improvvisata con un boccolare mantenuto incandescente da un grosso mantice manovrato da ragazzini. C’è una cosa affascinante di cui prendiamo nota: a quei tempi non si conosceva ancora la saldatura autogena, tutte le piastre di metallo venivano fissate con dei bulloni. I bulloni vengono arroventati, e una catena di imbullonatori li trasferisce con un ritmo e un’abilità incredibili nei punti richiesti, spesso si tratta di punti irraggiungibili nell’interno dello scafo, nel qual caso l’ultimo imbullonatore, che vi si trova dentro, in posizione rannicchiata, riceve con un guanto di asbesto il bullone rovente e lo sistema nel punto giusto. Ardono dei focherelli sopra i quali le donne arrostiscono pesce e yucca su graticole improvvisate, o stanno cuocendo pentole di minestre di pesce, qualcuna spenna dei polli, e tutt’attorno bambini che razzolano nel fango. Regna un’atmosfera di attività frenetica.

Vediamo Stan che esegue giochi con quattro palle. Attorno a lui, dei ragazzini fanno ginnastica sui tiranti dei ponti, grattano e asportano la ruggine con delle spazzole. Stan parla durante i volteggi delle palle, e una finisce per terra. Ciò che mi sorprende, dice Stan… è che cosa abbia in mente quello lì… maledetta… questa mi è scappata di mano.

Iquitos, fonderia.

Nel terreno argilloso è ricavato un forno fusorio simile alla bocca sfrangiata di un vulcano ferroso, un mantice porta ad incandescenza il fuoco interrato. Più che ad un impianto moderno, la fonderia assomiglia ad una fucina dell’età del bronzo. Il tutto è coperto soltanto da lamiere ondulate sorrette da pali. Nei pressi della fonderia, un operaio sta lavorando ad uno stampo di argilla, vediamo che servirà per una grande elica. Con una spatola, egli apporta le ultime rifiniture dell’incurvatura. Gli stanno attorno altri operai, seminudi, madidi di sudore, con loro è Fitzcarraldo. Sparsi in giro, secchioni di colata muniti di barre metalliche per il trasporto, maiali grugniscono sopra un cumulo di letame fumante, anatre sculettano in mezzo a pezzi di metallo non più rovente, sullo sfondo si sta macellando un maiale, donne stanno allattando i figli, una figura di nana sciancata lavora ad una macchina per cucire. Sopra il caos del cortile sporge il fogliame di un albero di papaia. La lega di bronzo nel frattempo si è fusa ribollendo, operai afferrano un rozzo pentolone da colata contenente metallo fuso che trabocca e frigge, e lo versano nello stampo. Ribollio, fumo acre, sibili rabbiosi, nasce l’elica della nave.

Iquitos, piccolo squero.

A monte del fiume un piccolo squero dalla copertura provvisoria, primitivo e caotico come la fonderia. Nei pressi vengono sollevati dall’acqua e deposti a terra tronchi d’albero paurosamente enormi. Operai li scortecciano mediante giganteschi piedi di porco. Sul fiume un caos di battelli e di uomini, piroscafi lo risalgono e lo discendono, avvoltoi vengono scacciati ma, impigriti dal troppo cibo, tornano a posarsi subito sopra un pezzo di carogna putrefatta. Nel piccolo cantiere, carpentieri indios stanno lavorando a due scialuppe di salvataggio della Nariño, chiglia e coste spiccano nell’aria come scheletri, scivoli di legno, lavori di pialla, bracieri, pece fumante per calafatare. In mezzo a loro, un vecchio meticcio è impegnato nell’intaglio di una figura in grandezza naturale, la polena della Nariño. Si distingue ormai un corpo di fanciulla dai seni nudi e dai tratti indios, attorno al suo corpo si avvinghia un grosso anaconda, che sparisce dietro le spalle e riappare con la lingua guizzante sotto il seno sinistro. Il sesso è nascosto da una piatta tartaruga di fiume che striscia in direzione del ventre. Fitzcarraldo parla con l’intagliatore, che peraltro non interrompe il suo lavoro. Ma quando sarà pronta la signorina? s’informa, lasciando capire che vuole fargli fretta. La señorita, risponde l’intagliatore, mañana! Domani, domani! dice Fitzcarraldo mezzo irato e mezzo rassegnato, sono dieci giorni che dici sempre mañana. Fra quattro giorni c’è il varo, e questi qui mi dicono sempre e soltanto: domani. Roba da mettersi le mani nei capelli!

Iquitos, bar.

Sulla strada, davanti ad una delle squallide mescite di liquori si accalcano due-trecento uomini tutti scalzi, in pantaloni sbrindellati, poveri in canna, disillusi, rovinati dalla vita nella foresta vergine; malattie, alcool e disperazione hanno dato un contributo determinante al loro aspetto. Nei pressi, accatastate direttamente sui bordi della strada, montagne di balle di caucciù pronte per il carico. Si scorge una grossa carretta primitiva, a due ruote, alla quale sono attaccati due zebù, e sulla quale dorme rantolando rumorosamente un ubriaco. Ressa davanti alla porta, gomitate per conquistarsi un posto, tutti vogliono entrare nel bar contemporaneamente.

Bar, interno.

Dietro due tavoli accostati sono seduti Stan, Wilbur, Fitzcarraldo e Bronski, disposti a mo’ di tribunale. Bronski non ce la fa più a star seduto, salta in piedi e va all’attacco della ressa caotica che viene spinta dentro a forza dall’esterno. Si mette a urlare con voce stentorea e riesce effettivamente a spargere tanto timore e terrore intorno a sé, che per un momento viene a crearsi una parvenza di ordine.

Accanto ai tavoli c’è un uomo dall’aria imbarazzata, di alta statura, piuttosto pesante, silenzioso, dagli occhi infossati, Jaime de Aguila. Fitzcarraldo si appoggia con fare soddisfatto allo schienale della sedia, dicendo: l’uomo più importante ce l’avremmo, dunque? Dica un po’, è proprio vero che Lei parla aguaruna? Ho vissuto 14 anni con gli aguarunas, dice laconicamente Jaime, in un tono che non lascia dubbio alcuno. A meno che non La disturbi il fatto che i miei occhi non sono più tanto buoni; ma in compenso non mi lascio ingannare. Come sarebbe a dire, domanda Fitzcarraldo. La foresta vergine è piena di miraggi, di insidie, di sogni, di illusioni; io ho imparato a distinguerli, dice Jaime. Per quanto tempo ha navigato i fiumi che danno origine al Rio delle Amazzoni? domanda Fitzcarraldo. Cinque anni come pilota e otto come capitano, risponde Jaime. E faceva parte della spedizione del Pachitea nel ’96? Sì, dice Jaime, come timoniere, e poi al ritorno come capitano patentato, non c’erano che cinque superstiti. Fitzcarraldo si alza e gli stringe vigorosamente la mano. Jaime de Aguila, dice Fitzcarraldo in tono quasi solenne, da questo momento Lei ha tutti i pieni poteri di capitano. Jaime restituisce la stretta senza proferire una parola, la sua persona emana un senso di grande sicurezza.

Si fa avanti un uomo, un americano piccolo, compassato, capitato qui chissà come; dice che sa recitare poesie e che ci sarà pur bisogno di gente come lui per la Grande Opera. E prima che Fitzcarraldo possa impedirglielo, comincia a recitare penosamente una poesia, incespicando più volte nella dizione. Bronski si fa verde per la stizza. Finalmente Fitzcarraldo interrrompe l’orribile declamazione. Noi abbiamo bisogno di gente per la Nariño! che cosa sapete fare? M’intendo un po’ di macchine, dice l’uomo stupito. Si tenga in contatto con noi, dice Fitzcarraldo bruscamente.

Iquitos, bar, sera.

Davanti al bar non c’è più molta gente, le code si sono diradate, ma regna pur sempre una certa affluenza. Un uomo dal passo leggermente barcollante, scalzo, di media statura, piuttosto panciuto, con indosso solamente un paio di pantaloni di lino e un cappello di paglia, si apre un varco tra la folla con grande naturalezza.

Bar, interno, sera.

La commissione di arruolamento è sempre in seduta, solo che ora al tavolo c’è anche Jaime, il quale chiaramente impartisce già istruzioni, con un’autorevolezza assolutamente naturale. L’uomo dal cappello di paglia si pianta davanti a Fitzcarraldo. Hola, compadre, amigo, dice, io sono Huerequeque. Sono l’uomo che fa per voi. Fitzcarraldo si volge verso Jaime de Aguila, e quello, prima ancora che egli possa porre una domanda, dà ad intendere con un gesto appena accennato: no. Compadre, dice Huerequeque, al quale il gesto non è sfuggito, sono il miglior cuoco dell’Amazzonia, sono stato su tutte le navi e, amigo, dice quasi sussurrando, con due occhi che si fanno sempre più piccoli e più furbi di quanto già non siano, e un’espressione del volto sempre più audace, io so quello che Lei ha in mente di fare. Non sono mica scemo. Huerequeque scola ogni tanto un bicchiere di troppo, ma qua dentro – indica le sue tempie – tutto è elettrico. ELETTRICO! Sono l’uomo più abile col fucile per tutta l’Amazzonia in lungo e in largo. A questa affermazione, Fitzcarraldo drizza gli orecchi, guarda verso Jaime, che volente o nolente deve dare il suo assenso con un cenno. Ho fatto le guerre del Chaco, dice Huerequeque, ero sull’alto Napo, dove i culi nudi davano ancora molto filo da torcere. Amigo, io sono Huerequeque. Fitzcarraldo nota che quell’uomo col pensiero è andato effettivamente più avanti di tutti gli altri, e non vuole che il dialogo prosegua su quel tono. Huerequeque, dice, Lei è il nostro cuoco.

Iquitos, negozio di ferramenta.

Un grande negozio di ferramenta, col caos tipico di tutti i negozi ed aziende di questo posto, tutt’attorno sono sparsi rotoli di filo di ferro, casse di chiodi, attrezzi, grandi cilindri di cavi, travi d’acciaio, lamiera ondulata. Il proprietario del negozio, un ebreo piccolo, calvo, madido di grasso, corre qua e là come una donnola e fa filar via un paio di commessi spedendoli nei recessi del magazzino. Fitzcarraldo e Jaime de Aguila sono nel negozio, hanno consegnato al proprietario una lista di cui stanno controllando la propria copia. Machetes, dice il negoziante. Duecento, dice Fitzcarraldo. Duecentocinquanta, fa Jaime de Aguila. Bene, duecentocinquanta, dice Fitzcarraldo. Cavi di acciaio, da due pollici, da un pollice e mezzo, da un pollice, dice il negoziante. Tutto quello che ha, dice Fitzcarraldo. Tutto? ribatte il negoziante, che è sempre più convinto di avere un pazzo davanti a sé. Tutto, dice Fitzcarraldo, tutto quello che ha qui. Ruote dentate, piedi di porco, seghe, argani: e, ripeto, tutto, proprio tutto quello che ha, dice deciso Fitzcarraldo. Ha delle rotaie ferroviarie? ROTAIE FERROVIARIE, dice il negoziante mentre la fronte gli s’imperla di sudore. Cosa? Come? Non ne teniamo. Vorrebbe forse ripristinare… la Sua ferrovia? Nemmeno per sogno, dice Fitzcarraldo, ma lasciamo perdere, se non ne ha.

Belen, mercato.

Nel brulichìo del mercato di Belen, Fitzcarraldo e Jaime de Aguila si aprono un varco, seguiti da portatori indios che hanno già sulle spalle i loro pesanti carichi assicurati con i frontali. Appare chiaro che qui Jaime ha in mano tutta la responsabilità degli acquisti. Si fermano davanti ad un banco traboccante di tabacco nero; parecchie donne stanno arrotolando delle sigarette primitive con movimenti rapidi ed esperti, pare di essere quasi in una piccola fabbrica. Jaime dà alcune laconiche istruzioni in spagnolo. Le donne infilano in due grossi sacchi tutto il tabacco. Tutto? domanda Fitzcarraldo stupito. Sì, dice Jaime, abbiamo bisogno di tabacco. Ora ci mancano ancora fucili, amache, kerosene per le lampade.

I due si sono fermati davanti a un altro banco, sul quale sono in vendita dei bidoni metallici contenenti una sostanza nera appiccicosa. I bidoni vengono toccati con estrema cautela come se contenessero dell’esplosivo ad alto potenziale. Dai tappi di chiusura filtra un po’ della sostanza grassa, simile a pece. Il negoziante indio li maneggia con particolare attenzione. Questo ci costerà piuttosto caro, dice Jaime. Ma perché mai abbiamo bisogno di curaro, domanda sorpreso Fitzcarraldo, e per di più addirittura venti chili? Un milligrammo che scalfisca la pelle è già sufficiente per ammazzare un maiale. Ma Jaime è sicuro di quello che fa, è un uomo dalle esperienze inestimabili. Gli aguarunas, spiega, sono una tribù che usa il veleno per le frecce, ma non conosce il modo di fabbricarlo, ne fa commercio con le tribù vicine. L’indio s’intromette, e per la prima volta udiamo il dialetto aguaruna. Cosa dice, domanda Fitzcarraldo. Dice, traduce Jaime, che per una punta di coltello di polvere d’oro potete avere nel bordello locale una donna bianca per tutta la notte, ma per un cucchiaio da tè di questa roba potete avere una donna aguaruna per un’intera settimana.

Iquitos, scarpata della riva e Rio delle Amazzoni.

È giorno di festa. Eccola lì ormeggiata, la Nariño, parata a festa, in uno specchio d’acqua sgomberato dal brulichìo delle altre navi: una nave veramente superba, una nave bella da innamorarsene. I ponti sono tirati a lustro, le cabine risplendono di fresca vernice bianca, lo scafo sembra nuovo, tanto è stato migliorato e dipinto anch’esso di bianco, la nave è pavesata di ghirlande, a prua campeggia LA SIGNORINA, lasciva e sensuale figura di polena. Forse diecimila persone festanti e curiose si sono radunate sull’estremità della ripida scarpata della riva ai margini della città. Una banda suona fragorosa e stonata, ambulanti vendono dolciumi e carne arrostita avvolti in foglie, bambini a non finire, è un grande giorno. Una mucca zebù viene issata a bordo con un argano.

In coperta si è radunato l’equipaggio, disponendosi in riga, in mezzo agli altri spiccano alcuni figuri dall’aspetto sinistro, l’accozzaglia più selvaggia che si potesse mettere insieme in tutta l’Amazzonia. Jaime, il comandante, indossa con fierezza una divisa da capitano tutta gallonata, sembra un grande di Spagna. Huerequeque arriva in grande ritardo, spingendo davanti a sé su per la palanca due giovani indie molto carine. Quelle donne non devono mettere piede sulla nave, urla Jaime dal ponte. Compadre, urla di rimando Huerequeque, ne ho bisogno in cucina, sono le mie aiutanti, senza di loro non posso far da mangiare; e già sono a bordo. Tutto finisce in mezzo al bailamme festoso.

A terra c’è Fitzcarraldo in un vestito di lino bianco, superbo come un re, con accanto Molly, che ha indossato il suo abito più bello e porta in testa un grande cappello di Parigi, ha un aspetto magnifico, una gran dama in mezzo alla confusione di uomini vocianti e scalzi. Fitzcarraldo tiene in mano il capo di una funicella fissata alla prua, che in parte è celata da un drappo. Molly, grida, sarai di nuovo una cantante lirica, ti lancerò alla grande, questo è il tuo giorno. La bacia con trasporto e senza reticenza, davanti a tutta la gente, e tira la funicella. Il drappo cade dalla prua permettendo di leggere liberamente il nuovo nome della nave, MOLLY AIDA, vi sta scritto in eleganti lettere dorate. Oh Fitz, dice Molly, sento che il mio povero cuore non ce la farà, lo conosco bene. Ecco, dice Fitzcarraldo con orgoglio, e ora viene la parte veramente ufficiale della cerimonia. Sul Nanay non potemmo fare un varo dignitoso, c’era l’acqua troppo bassa e il tutto è stato piuttosto miserabile, dovemmo far scendere in acqua la Molly con un rimorchiatore. Mette in mano a Molly una bottiglia di spumante che penzola da prua trattenuta da una cordicella. Dài, forza! dice Fitzcarraldo. Molly lancia energicamente la bottiglia contro la murata, e la bottiglia si frantuma spumeggiando. Molly si mette di colpo a piangere dirottamente. Fitzcarraldo la stringe a sé. Grida di giubilo. Jaime fa fischiare la grande sirena da nebbia, la banda suona. Gringo e Verdi rimangono sulla riva, scodinzolando.

Vediamo la Molly Aida staccarsi dal molo, il vapore che esce dal fumaiolo. La gente fa gesti di saluto, qualcuno getta in aria il cappello. Si vede che Fitzcarraldo ha degli amici. La Molly Aida prende l’abbrivo e dirige a monte del fiume. Cessano le urla di giubilo, la gente guarda incredula. Si odono esclamazioni: Ma dove va? Ma risale il fiume! I tre fratelli Borja, incredibilmente sorpresi, si avvicinano a Molly. Ma allora non va sull’Ucayali? Dovrebbe far rotta verso valle. Molly smette di piangere e assume un’aria di orgoglio. Sissignori, dice, Brian Sweeney Fitzgerald risale il Rio delle Amazzoni!

Vediamo Fitzcarraldo in coperta, circondato dai suoi uomini più fidati, Wilbur e Stan. Rispondono ai saluti.

Iquitos con le sue case e le migliaia di uomini diventa una striscia sullo sfondo. Fra la città e la nave, il fiume si allarga come un lago.

Rio delle Amazzoni.

In lontananza, sopra il grande fiume, sta scatenandosi un temporale. Lampi lontani attraversano serpeggiando il cielo, così lontani che il brontolìo del tuono riecheggia molto ovattato da un orizzonte all’altro. Per un lungo tratto, sopra la foresta sterminata pende una pesante coltre di pioggia strisciante. La nave segue la sua rotta fendendo le acque, naviga, ci si sente quasi sollevare il cuore.

In coperta, molti uomini si sono sdraiati a dormire nelle amache, regna la calma. La nave è stracarica di attrezzi, di corde metalliche, di provviste; la macchina da ghiaccio di Fitzcarraldo è saldamente ancorata sul secondo ponte e su, in alto, sopra una piattaforma appositamente allestita, c’è il fonografo. Fitzcarraldo è appunto in procinto di metterlo al sicuro dalle prime grosse gocce di pioggia. Wilbur dorme il sonno del giusto, con la bocca spalancata, sulla sua poltrona da barbiere che ha sistemata quasi orizzontalmente. Le macchine pulsano con ritmo regolare e tranquillo, i ponti vibrano leggermente. Jaime de Aguila se ne sta calmo e sicuro al timone.

Davanti a lui, il pappagallo Bald Eagle si liscia quanto resta delle sue penne.

Dalla porta di cucina esce una delle ragazze indie con un grappolo di frutti esotici e ride sommessamente. È ancora trattenuta da una mano nascosta fra la sua sottana. Quando se ne libera, appare il proprietario della mano che esce di un passo dalla cambusa, è Huerequeque. Ay, que rico! dice Huerequeque, e gli brillano gli occhi.

Jaime de Aguila, con fare attento, è appoggiato al parapetto del ponte, col capo stranamente inclinato da una parte. Fitzcarraldo si è messo al timone. A tribordo, dice Jaime, avanti a tribordo! Ci avviciniamo a una secca. Dev’esserci un banco di sabbia. Non vedo banchi di sabbia, dice Fitzcarraldo, come fa Lei a sapere che arriva un banco di sabbia? Acqua bassa, dice Jaime, ha un suono diverso da quella profonda.

Stazione ferroviaria nella foresta vergine, verso sera.

La nave scivola leggera lungo un braccio minore del fiume dalle molte ramificazioni, avvicinandosi al punto d’attracco della stazione ferroviaria. Nessun’altra è alla fonda, sembra essere uno dei tanti punti di trasbordo abbandonati del corso superiore delle Amazzoni, con tutta la malinconia, l’abbandono, la tristezza caratteristici di questi posti. La stazione è avvolta in un silenzio di morte, e dietro di essa, già dopo pochi metri, incomincia la foresta vergine. Una rampa inclinata con delle rotaie scende direttamente fin dentro l’acqua, molto più a monte, solidamente piantato sulla terraferma, c’è l’edificio principale coperto di lamiera ondulata.

Vi sta scritto, in lettere cubitali arrugginite, TRANSANDEAN-RAILWAY. Una parte del tetto si è staccata, e ne penzolano brandelli di lamiera sinistramente cigolanti, mossi dalla lieve brezza della sera. L’edificio della stazione ferroviaria suscita un’impressione ancora più triste a causa della ferraglia sparsa tutt’attorno, della fucina e dell’officina meccanica abbandonate. Dietro di esse scorgiamo la casetta del capostazione e il fumaiolo di una locomotiva.

Il capostazione, un uomo incanutito, dall’aspetto trasandato nell’uniforme della sua carica che chiaramente non è stata quasi mai indossata e sembra stirata di fresco, con tutti i bottoni d’ottone lucidati al massimo, è schierato in parata con la moglie india e numerosi figli sporchi, seminudi o nudi. Non porta camicia sotto la giubba, che dev’essersi infilata precipitosamente, e da sotto i pantaloni sporgono i piedi nudi. Dalle forti dita aperte a ventaglio intuiamo che l’uomo non indossa calzature ormai da anni. Se ne sta lì rigido e impettito e fa un saluto pseudo militare per tener sotto controllo la propria emozione. È arrivato Fitzcarraldo! Finalmente! Con una nave!

Fitzcarraldo salta a terra per primo e risponde al saluto. Il capostazione, dominandosi a fatica, fa una specie di rapporto militare, e dà sfogo immediato a tutto ciò che gli si è accumulato dentro in tutti quegli anni di disperata attesa. Mentre Fitzcarraldo, seguito dai suoi uomini, percorre la rampa che porta alla linea ferroviaria assieme al capostazione, questi scioglie lo scilinguagnolo in un profluvio di parole. Lo sapevo, dice raggiante di gioia, che Lei sarebbe tornato un giorno, io me ne sto qui già da sei anni senza paga, la stazione può funzionare, guardi i miei bambini, mi sono preso una moglie india, la locomotiva funziona ancora bene, solo che, voglio dirglielo subito, sono stato costretto a venderne qualche pezzo, ma si tratta di parti non indispensabili, va ancora, la locomotiva, Lei deve sapere che qui non si trova ferro da nessuna parte e che gli indios ne hanno bisogno per i loro machetes, e così ho dovuto farlo, perché sono stato dimenticato in questo posto. Ah, sono felice che Lei sia qui! Quand’è che i lavori riprenderanno?

Fitzcarraldo è imbarazzato e silenzioso. Lei lo sa bene, dice, abbiamo avuto dei problemi finanziari. Ma il progetto non è stato abbandonato del tutto.

Raggiungono la spianata dove inizia la linea ferroviaria. Qui ci sono effettivamente delle rotaie, arrugginite, che partono da un ferma-carri a cui è legata una funicella tesa fino all’albero più vicino e sulla quale sono distesi capi di biancheria bagnati. E lì c’è anche la LOCOMOTIVA malinconica. È un grande modello dell’inizio del secolo, dall’enorme caldaia e dalle gigantesche ruote d’acciaio, ma tutto coperto di ruggine, e sopra, alla cabina del macchinista, mancano quasi tutte le sovrastrutture, contro il cielo si staglia soltanto una parte dei tiranti del tettuccio. Sui predellini è cresciuta rigogliosa l’erba, e sotto la locomotiva c’è della sterpaglia che, come si può vedere, viene regolarmente tagliata. Dopo cento metri, le rotaie arrugginite corrono diritte nella fitta foresta. Ma anche lì s’interrompono evidentemente dopo pochi metri, perché non s’intravvede alcuna prosecuzione del tracciato.

Vicino alle rotaie sorge il triste edificio del capostazione. Leggiamo AMAZONAS TERMINAL a grandi lettere sfarzose sopra la porta d’ingresso, ma in fondo non si tratta che di una casupola di legno costruita un po’ più solidamente e piantata su palafitte. Dei brutti cagnacci sonnecchiano sulla stretta veranda, farfalle svolazzano ondeggiando intorno alla costruzione, dalla foresta giunge lo stridìo delle cicale della sera. Venga dentro, fa il capostazione a Fitzcarraldo, ma questi non accetta l’invito, ha qualche cosa di penoso da dirgli, che non vorrebbe esternare e non sa come esprimere. Si dà visibilmente una spinta interna e si schiarisce la gola. Vede, dice, le rotaie, siamo arrivati qui per via di un nuovo progetto, grandioso, sa, tutta la nostra situazione finanziaria cambierà decisamente da così a così, se tutto andrà bene. Volevo dirLe, insomma, che abbiamo bisogno delle rotaie. Il capostazione rimane di stucco, il volto gli si fa grigio e assume un’espressione senile. Cade la notte.

Linea ferroviaria nella foresta vergine, mattino presto.

È l’alba. Gli uomini di Fitzcarraldo stanno svellendo dalle traversine le rotaie servendosi di piedi di porco; tutti lavorano, danno una mano, soltanto Huerequeque, sullo sfondo, fa scappare nel buio della foresta una delle sue aiutanti. La mucca zebù pascola fra le rotaie. Jaime de Aguila solleva lo sguardo, non gli sfugge una scena del genere. Il capostazione si trova in uno stato di shock, ha lo sguardo vuoto, corre da uno all’altro degli uomini, deve stare a vedere senza poterci fare nulla la sua linea ferroviaria che viene demolita pezzo per pezzo. Quando una piccola squadra comincia a togliere i grossi bulloni proprio vicino alla locomotiva, si scuote, ha un gesto di ribellione. No, quella no, dice, per piacere no. Corre da Fitzcarraldo, che lavora con la squadra, e che, da quanto vediamo chiaramente, preferirebbe nascondervisi in mezzo. Don Fitzcarraldo, ansima il capostazione, gli uomini stanno togliendo le rotaie anche vicino alla locomotiva. La scongiuro, ne lasci almeno un paio di metri vicino alla locomotiva, come posso altrimenti mantenerla in efficienza, mi bastano trenta metri per farla manovrare avanti e indietro. Fermi la sua gente, per l’amor di Dio, guardi là, nella foresta, la linea continua ancora per due interi tratti di binario, dice il capostazione. Eilà, grida Fitzcarraldo ai suoi uomini, quelle non le prendiamo, ce ne sono delle altre nella foresta. Dal fondo della sua prostrazione, il capostazione lancia uno sguardo di riconoscenza a Fitzcarraldo.

A bordo, ponte di comando.

Il piroscafo naviga di nuovo sul grande fiume. Jaime, il capitano, è accanto al parapetto e tiene in mano una funicella a cui è fissata una tazza di latta. Fitzcarraldo, nella cabina del timone, sta curvo sopra una carta geografica, preoccupato. Dobbiamo avere oltrepassato da un bel po’ il Pachitea, dice. No, dice Jaime, non lo abbiamo superato. Ma, stando alle carte… ribatte Fitzcarraldo, esitante. Allora, dice Jaime, è sbagliata la carta. Lei è ben sicuro di sé? domanda Fitzcarraldo. Jaime lascia cadere la tazza nell’acqua e la tira di nuovo a sé con la funicella. Assaggia scrupolosamente l’acqua brunastra. Nessun dubbio, dice, il Pachitea è per forza qui davanti. Nessun fiume ha un sapore come quello del Pachitea.

Rio delle Amazzoni, foce del Pachitea.

La nave prosegue la sua rotta consueta, il fiume è molto largo. Il fumaiolo fuma con regolarità, le macchine pulsano con ritmo tranquillo. Un po’ avanti, sulla riva sinistra, vediamo la foce del Pachitea che sulle prime non ha affatto l’aspetto di un fiume diverso, perché la corrente principale del Rio delle Amazzoni si divide sempre a ventaglio in singoli bracci inframezzati da isole, sicché la confluenza di due o più bracci assume sempre l’aspetto di una congiunzione d’interi sistemi d’affluenti. Qui però si distingue una linea netta, che si stacca con tutta evidenza, come un taglio nell’acqua, un’acqua corrente molto più scura, quasi nero-brunastra. L’orizzonte è ampio, è sempre costituito più da cielo che da terra, e nel cielo si accavallano montagne di nubi, prendono la forma d’interi paesi e di interi continenti, si gonfiano, si riuniscono, si sciolgono.

A bordo, ponte di comando.

Jaime de Aguila governa la nave, ponendo molta attenzione ai bassi fondali e al legname vagante. In alcuni punti vediamo delle barene piatte e lunghe, e non sembra facile trovare il passaggio navigabile, sebbene il fiume sia largo certamente un chilometro. Nella stretta cabina di comando ci sono una bussola e alcuni strumenti nautici montati in bell’ottone. Fitzcarraldo è vicino a Jaime, guarda il fiume davanti a sé e controlla una carta geografica particolareggiata. Jaime vi dà un’occhiata di sfuggita. I due uomini si guardano per un attimo negli occhi con un cenno d’intesa. Jaime gira il timone a sinistra, la navigazione prende da questo momento in poi un’altra direzione.

A bordo, ponte inferiore.

Una parte dell’equipaggio assedia come un nugolo di mosconi la porta della cambusa. Alcuni sono anche appesi alla piccola finestra, molesti e vogliosi. Una mano di donna colpisce scherzosamente con uno straccio il volto di uno tra i più sfacciati.

La mucca zebù dorme in fondo al ponte inferiore su del fogliame fresco, sventola gli orecchi per scacciare i mosconi.

In coperta, un po’ più in là, dove nel punto libero dalle cabine si allunga un pesante tavolo di legno lucidato con dei bei panchetti di mogano saldamente fissati con viti, oziano alcuni uomini che giocano a carte e sbevazzano. Hanno ormai trincato tanto, che giocano come al rallentatore. Uno è piegato tutto in avanti, la testa appoggiata al tavolo, e dorme. Di colpo si sveglia, si guarda in giro stupito: lui che dormiva è l’unico che si sia accorto del cambiamento di rotta. SU MADRE, dice con voce strascicata, ma dove andiamo, puta su madre! I giocatori lasciano cadere le carte e guardano fisso.

Gli uomini abbandonano la porta della cambusa e si girano, con gli sguardi frugano in cerca della riva. Come, dice uno, cosa? Cos’è questa storia? Amigos, dice Huerequeque sporgendosi col corpo dalla cambusa e accarezzando delicatamente la carabina che tiene in mano, questo è il Pachitea, stiamo risalendo il Pachitea. Evidentemente, nessuno ve lo ha detto.

A bordo, ponte di comando.

Stan, col viso peoccupato, si china verso l’interno della cabina di comando e parla con voce smorzata a Fitzcarraldo. Là sotto, dice, sta bollendo qualcosa in pentola. Gli uomini non sono del tutto d’accordo sulla rotta, per dirla in termini blandi. Devo aggiungere che anche a me piacerebbe sapere dove stiamo andando. Vengo, dice brusco Fitzcarraldo.

Ponte inferiore.

Gli uomini sono radunati, è presente perfino il macchinista, tutto unto di grasso, mancano soltanto Huerequeque e le sue due aiutanti. Oltre a Wilbur e Stan, ci sono quattordici uomini, che si sono disposti a semicerchio con in volto espressioni irate e di sfida. Dov’è Huerequeque? domanda Fitzcarraldo. Ha detto che preferisce riposarsi un po’, assieme alle señoritas; il fatto è, piuttosto, che quello sapeva già dove si andava, dice un uomo dallo sguardo cupo, con la camicia aperta e tatuaggi sul braccio. Beh, e allora? dice Fitzcarraldo, e prende fiato. Che cosa ho detto, prosegue, che ho bisogno di uomini, di veri uomini e non di chiacchieroni che se la fanno addosso, capito? Potete tornare subito a Iquitos. Chi vuole tornare a Iquitos? Evidentemente Fitzcarraldo sa valutare bene gli uomini, nessuno vuole tornare a Iquitos. E Fitzcarraldo aggiunge subito con fare pungente: do subito, adesso, la paga a chi vuole tornare a Iquitos, non ha che farsi avanti. Silenzio, ostilità, ma nessuno si muove. Uno degli uomini, un tipo forte come un orso, con le ganasce gonfie di tabacco da masticare che fa rigirare in bocca prima di sputare un liquido brunastro, chiede la parola. Dove si va? dice con fare minaccioso, vogliamo sapere — e sputa un’altra volta — per quanto dobbiamo navigare. Risaliamo il Pachitea per circa tre giornate di viaggio, dice con molta calma Fitzcarraldo, come se ciò costituisse una meta. Ma, s’intromette il tatuato, fino a Saramiriza c’è una giornata di viaggio, e dopo? Potete rimanere a Saramiriza e farvi missionari se lo volete, dice Fitzcarraldo. Fitz, s’intromette Stan, io ci sto in tutto e per tutto, davvero. Abbiamo fucili e rotaie, attrezzi e viveri per un paio di mesi, ci sto a fare tutto ciò che vuoi, lo sai bene, io non ho paura, ma anch’io vorrei sapere ciò che hai veramente in testa. Fitzcarraldo fa una lunga pausa e poi comincia a parlare. Sapete, il mio piano è talmente pazzesco, che non so ancora esattamente se funzionerà, dice. Da Saramiriza navigheremo su per il Pachitea ancora per due giorni. Abbiamo le carte esatte della spedizione del novantasei. Ho in mente qualche cosa di GEOGRAFICO. Se andrà bene, diverrete così ricchi da non potervelo neppure immaginare. Sapete, domanda quello del tabacco da masticare, quanti partirono nel novantasei e quanti ne sono tornati? Lo so, dice Fitzcarraldo, ma non siamo più nel novantasei. Quando saremo arrivati, vedremo e vi spiegherò tutto.

Gli uomini non sono completamente soddisfatti, ma nessuno, lo si vede, vuole ora lasciare la nave. L’assemblea si scioglie in mezzo ai mugugni.

Saramiriza, stazione della missione.

È una giornata soffocante, afosa, nel cielo sta covando un temporale che stenta a mettersi insieme. Il fiume scorre così pigramente, come se esitasse per il timore di muoversi. L’aria è ferma, la foresta immobile, solo le mosche ronzano rabbiose. Immota è pure la stazione della missione, alcune casupole disposte a quadrato, una delle quali ha qualcosa che ricorda la civiltà occidentale. Sul lato anteriore sorge una chiesetta col tetto di lamiera sul quale sonnecchiano alcuni avvoltoi, sognando di carogne, ce ne sono perfino di appollaiati sulla croce di legno sbiadito collocata sul timpano. Davanti alla chiesa, fissata ad un ramo, penzola una campana senza battaglio. Lì vicino, appeso ad un corda, dondola un pezzo di putrella maneggevole che serve a percuotere la campana. Fra le costruzioni c’è uno spiazzo libero coperto da un prato falciato da poco, inframmezzato da strisce rossastre argillose. Il prato è diviso geometricamente da vialetti cosparsi di sabbia e al centro, al punto d’incrocio dei vialetti, si rizza un pennone verniciato di bianco, recintato alla base da una modesta ringhiera ornamentale. Presso il pennone sono schierati gli scolari, disposti quasi militarmente in blocchi, come squadre di ginnasti. Tutti indossano pantaloni kaki e hanno i capelli rasati, e tuttavia i tratti dei loro volti indios fanno uno strano, stonato contrasto con lo schieramento. Davanti a loro, a distanza, sul margine della riva del Pachitea, stanno due padri gesuiti nelle loro chiare vesti talari lavate e pulite, uno di loro è già piuttosto vecchio e porta una biblica barba bianca. Tutt’e due hanno l’aspetto di uomini che hanno lavorato duramente, per lunghi anni, nella foresta vergine. Lì, dove si trovano, il fiume ha strappato la scarpata della riva per molti metri verso l’interno, grandi zolle sparse pendono sopra il fiume e nel prato si scorgono delle profonde spaccature. Tra non molto, una parte dello spiazzo scomparirà. Una delle costruzioni sulla riva, mezzo sconnessa e abbandonata, sta in bilico sull’orlo della scarpata; per mezzo di pali conficcati nel terreno si è tentato di impedire il franamento della riva, ma è evidente che la legge del fiume è stata più forte.

Tutto è immobile, in un’atmosfera di attesa. Ad un tratto, un ragazzo che era dislocato da solo vicino alla campana, vi batte contro col battaglio, provocando un suono piuttosto flebile, più che altro di lamiera. Al centro dello spiazzo viene issata la bandiera, un drappo pesante, floscio, che non si decide a spiegarsi nell’afa immota. Nel momento in cui la nave di Fitzcarraldo si spinge nel campo visivo dello spiazzo, i bambini intonano l’inno nazionale peruviano, in spagnolo, orrendamente stonati.

La nave attracca, viene gettata fuori una palanca, cosa non semplice perché subito frana un tratto di riva, e Fitzcarraldo scende a terra per primo. Saluta i due missionari con una stretta di mano. Benvenuti a Saramiriza. Credevamo, dice il più anziano dei due, che foste una missione governativa, qui altrimenti non viene mai nessuno. Ci fermeremmo volentieri per la notte, dice Fitzcarraldo, possiamo far scendere la nostra mucca, voi avete qui della bellissima erba. Sì, dice il più giovane, può farlo, però deve legarla a un piuolo ben distante dalla riva, altrimenti qui frana tutto, come Lei stesso può vedere. Abbiamo già dovuto abbandonare tre edifici, presto dovremo abbandonare la missione. È spaventoso. Il Signore è imperscrutabile nei suoi decreti. Vi abbiamo lavorato per vent’anni, e adesso ecco qua. Avrei piacere di parlare con Lei, dice Fitzcarraldo.

Casa della missione, notte.

La notte avvolge l’edificio principale della missione. C’è un semplice tavolo apparecchiato per gli ospiti, coperto di una tovaglia bianca, sulla quale sono disposti diversi bicchieri con del succo di mango. Intorno al tavolo sulla modesta veranda sono disposte sedie di canna intrecciata; vi sono seduti i due missionari, Fitzcarraldo e Jaime de Aguila. Sullo sfondo intravvediamo, alla luce di una lampada a petrolio, l’interno dell’edificio, che è quasi privo di pareti solide. Vi si trovano due letti sopra i quali sono stese zanzariere di velo chiaro, delle semplici sedie, un semplicissimo tavolo. Lontano dall’edificio, sul piazzale delle adunate, l’equipaggio ha acceso un grande fuoco. Attorno ad esso si beve e si schiamazza. Di tanto in tanto si odono le risate e gli strilli delle señoritas di Huerequeque, e Fitzcarraldo fa finta di non sentire, perché prova un po’ d’imbarazzo di fronte ai due padri. Finge di interessarsi a un sillabario che sta sfogliando. Dicano, dice Fitzcarraldo, guardando questo libro, i testi e le figure, mi vien fatto di domandarmi come si possa imparare l’amor di patria da un sillabario. Abbiamo le nostre belle difficoltà, dice il padre più giovane, ma il governo lo esige, in caso contrario non potremmo nemmeno stare qui. Lei non se lo immagina neppure quanto qui siano difficili le cose più semplici: il nostro programma di vaccinazione, potrei parlargliene per ore intere. La gente, dice il più anziano, non vuole semplicemente lasciarsi vaccinare. Ma coi bambini le cose vanno meglio, si sentono già tutti dei piccoli peruviani. A scuola ho chiesto recentemente: che cos’è un indio? Voi siete indios? E quelli hanno risposto no, gli altri, su per il fiume, quelli sono indios, noi no. E allora ho domandato che cosa fossero gli indios, ed essi mi hanno risposto: indios sono quelli che non sanno leggere, e indios sono quelli che non sanno come ci si lava la biancheria. E gli anziani, domanda Jaime nel silenzio che sta per subentrare. Mah, dice il missionario più vecchio con fare esitante, prendendo prima un sorso dal suo bicchiere. Semplicemente non riusciamo a distoglierli dalla loro idea fondamentale che la nostra vita quotidiana costituisce un’illusione, dietro la quale si cela la realtà dei sogni. È vero che ciò si avvicina in qualche modo alla nostra idea di salvezza, però… Questo, lo interrompe Fitzcarraldo fattosi attento, m’interessa moltissimo, sa, io sono un uomo di teatro d’opera…

Missione, piazzale delle adunate, notte.

Raccolti attorno ad un grande fuoco di bivacco, sdraiati o seduti, gli uomini bevono, cantano canzoni e sbraitano. Intorno a loro, nella semioscurità, stanno immobili e solenni gli aguarunas della missione, soltanto i loro occhi scuri sfavillano. Le señoritas di Huerequeque sono al centro dell’attenzione, vengono passate da uno all’altro e brancicate. Le ragazze ridono e picchiano sulle dita i più insolenti. Nella semioscurità nasce improvvisamente una lite, due uomini si aggrovigliano in una rissa furibonda.

Casa della missione, notte.

I padri e i loro due ospiti sono ancora seduti attorno al tavolo. Ora è Jaime de Aguila a guidare la conversazione. Che cosa sanno Loro degli aguarunas dell’alto fiume? domanda. Sono stato presente, allora, alla catastrofe del novantasei, ci sono stati contatti da quell’epoca? Sì, otto anni fa, dice il più giovane dei missionari, poco tempo dopo di voi partirono due dei nostri confratelli assieme ad alcuni indigeni. Uno ritornò dopo un giorno e riferì che gli aguarunas si erano ritirati nel folto della foresta, e da quel momento non avemmo più notizie per delle settimane. E poi, e di questo ne avrà già sentito parlare, il fiume gettò a riva il cadavere totalmente putrefatto di uno dei nostri fratelli, mancava la testa, e il ventre era riempito di sassi. Ma il Signore volle che il fatto venisse alla luce e lasciò affiorare il corpo quando il livello dell’acqua si abbassò. Ah, è stato quella volta che i militari progettarono una spedizione punitiva. Solo che poi non se ne fece nulla, dice il padre più anziano. Di parole se ne fecero molte, ma di fatti nessuno. Da allora non abbiamo più avuto contatti. Di quando in quando capita una canoa con gente pacifica che scambia qualche oggetto, ma in pratica altro non sappiamo. Ma che cosa intende fare, Lei, lassù, praticamente? Abbiamo in mente qualche cosa di GEOGRAFICO, dice Fitzcarraldo. Sembra ormai che questa parola standard gli sia diventata familiare.

Dall’esterno, il baccano si fa sempre più selvaggio, non può più essere ignorato e sopraffatto. Jaime si alza in piedi. Padri, mi scusino un momento, vado a vedere se tutto è in ordine. Gli uomini…

Jaime de Aguila sta assumendo un ruolo sempre più preminente. Nel buio lo sentiamo urlare agli uomini e in brevissimo tempo subentra la calma. Nel silenzio che scende si fa sentire soltanto il ronzìo rabbioso delle zanzare. Fitzcarraldo le scaccia battendosi qua e là con le mani. Giovanotto, dice il missionario anziano a Fitzcarraldo, che non è certamente più di primo pelo, a queste dovrà abituarsi, di queste ne abbiamo più che a sufficienza. In lontananza guizzano i primi lampi lunghi e silenziosi. Spero che venga presto la pioggia, dice Fitzcarraldo.

Saramiriza, stazione della missione, giorno.

Si annuncia il mattino, sopra il fiume scuro galleggiano banchi di nebbia, e dalla foresta salgono vapori. Gli uccelli salutano il giorno con canti infernali. Nella notte è piovuto, l’erba bagnata del prato manda un luccichio, nell’argilla rossa si sono formate delle pozzanghere. Gli uomini sono tutti a bordo. Bambini stanno silenziosi sulla scarpata della riva e guardano la nave. Con loro sono i due padri. A bordo, sul ponte inferiore, c’è strepito e confusione, da lontano non possiamo farcene un’idea esatta, ma evidentemente si è riaccesa la lite per le señoritas. Una sta strillando come un’ossessa. Alcuni uomini si prendono a spintoni e strattoni.

A bordo, ponte di comando.

Jaime de Aguila ha preso in disparte Fitzcarraldo, è serio e risoluto, si toglie il berretto da capitano, che non ha portato per molto tempo e che si era appena messo in testa, per sottolineare il suo gesto. Adesso Lei deve intervenire, energicamente e immediatamente, dice. Io scendo subito dalla nave, e Lei si cerchi un nuovo capitano! Chi sono? domanda Fitzcarraldo. Sono Evaristo Chavez e Fabiano, il brasiliano, questi per primi, e poi le señoritas, quelle devono scendere immediatamente a terra. Dico: immediatamente, oppure si governi Lei la Sua barca, da solo. E quanto a Huerequeque, non mi fido molto a proseguire con costui. Beh, dice Fitzcarraldo, è un furbo matricolato, beve come una spugna, però quanto a testa, quello ne ha più di tutti gli altri messi insieme. Anche gli altri, dice Jaime con disprezzo, non valgono molto. Svelto, faccia qualche cosa, il capo è Lei.

A bordo, ponte inferiore.

Fitzcarraldo scende dalla cabina di comando, per la scaletta dai begli ornamenti metallici, e subito la rissa si placa. Fitzcarraldo, con calma olimpica, si porta dietro il tavolo della mensa, vi deposita quattro mucchietti di monete uno accanto all’altro, e chiama poi, sempre calmo e come per caso: Evaristo! Fabiano! le due señoritas! I quattro si fanno avanti, non presagendo nulla di buono. Il vostro servizio, dice Fitzcarraldo, termina qui. Vi ringrazio. Eccovi la vostra paga sino alla fine della settimana. Avete due minuti di tempo per mettere insieme le vostre cose, il che significa centoventi secondi, dopo i quali dovrete essere già a terra.

La scena è stata efficace. Huerequeque che aveva già fatto un passo avanti e si accingeva a dire qualcosa, resta come inchiodato e non spiccica parola. I quattro lasciano la nave, una delle señoritas piange. Forse questa è la nostra fortuna, dice cupamente Fabiano mentre scende a terra.

Pachitea, mattino presto.

La nave tiene rotta al centro del fiume, a sinistra e a destra la foresta vergine avanza prepotentemente verso l’acqua, ma pagandone lo scotto. Alberi isolati ai margini delle rive sono stati strappati e scaraventati parzialmente nell’acqua limacciosa, in qualche punto la riva è talmente scalzata, che interi gruppi di piante annaspano nel vuoto con le loro grosse radici, in altri punti gigantesche zolle con numerosi alberi si sono staccate e sono state trascinate via dalla corrente. Dall’acqua sporgono rami che ondeggiano annuendo o negando contro la corrente. Ristagna ancora nebbia tra le chiome degli alberi, che inconsapevoli crescono, spingono, si riproducono, vengono ricoperti e soffocati dalle liane, marciscono. Gli alberi sudano e dormono e nascono e crescono e lottano per la luce e si addormentano, e al mattino, quando la notte è piovuto, pisciano come le mucche, a centinaia di migliaia, a centinaia di milioni. E tutto ciò forma la gioia degli uccelli, che gridano a centinaia di milioni moltiplicati per dieci.

Un’impazienza carica di tensione sovrasta pesantemente i ponti della nave. Nessuno degli uomini dorme, o beve, o gioca a carte, sono tutti appoggiati ai parapetti, uno accanto all’altro, e fissano in silenzio il verde della foresta che s’illumina alle prime luci. Un po’ più avanti si stagliano le prime colline ricoperte dalla foresta vergine, nubi nebbiose fluttuano sui declivi. La foresta piomba in uno strano silenzio, sembra che voglia trattenere il respiro.

Passa lentamente del tempo. Dal ponte Fitzcarraldo scruta la foresta con un binocolo. Niente.

Ad un tratto, da lontano, dal profondo della foresta, risuonano rulli di tamburi, dapprima quasi impercettibili, dispersi nella nebbia. Poi si fanno più forti, più vicini. Con fare molto cauto, Huerequeque si dirige alla sua cambusa e afferra prudentemente il fucile. Uno dopo l’altro, gli uomini a bordo seguono il suo esempio. Soltanto Wilbur sembra trovarsi a proprio agio, si stira comodamente nella sua poltrona da barbiere, che presto diventerà il suo trono.

Sul ponte di comando, Jaime de Aguila si china sul cornetto del microfono che lo collega alla sala macchine. Rallentare la macchina, avanti a mezza forza, dice. Il pulsare della macchina diminuisce in modo percettibile. Macchina rallentata, avanti a mezza forza, si risponde dal microfono. Che cosa fanno gli uomini, domanda Jaime. Fitzcarraldo si sporge dal parapetto e guarda verso i ponti sottostanti. Si sono armati, dice. Non si deve sparare in nessun caso, dice Jaime, se si spara siamo perduti. È proprio l’errore che abbiamo fatto allora, nella prima spedizione. Spareremo soltanto se saremo attaccati direttamente. Scenda giù e lo dica agli uomini, altrimenti qui finisce male.

Foresta vergine sul Pachitea.

Scrutiamo coi nostri occhi il margine della foresta, il nostro sguardo scivola lentamente cercando di penetrare nel profondo della foresta semibuia. Ma lì non si muove nulla, c’è solo silenzio ovattato e insieme un rullare cupo, assordante, incessante di un intero gruppo di tamburi. Il suono è ostile, minaccioso, si avvicina, aumenta d’intensità. I nostri occhi bruciano per lo sforzo, ma non vediamo NIENTE DI NIENTE.

A bordo della nave.

Fitzcarraldo si arrampica col suo fonografo sul punto più alto, sulla piccola piattaforma di legno. Ora mi porto su Caruso, dice fra sé. La mucca, grida verso il basso, mettete la mucca all’estremità della prua, e mettetela in modo che la si veda.

L’ordine viene eseguito. Huerequeque fa da forza trainante. Una cosa come questa, dice, i culi nudi non l’hanno vista mai, ciò metterà loro soggezione. All’improvviso un colpo duro, sordo percuote la parete sfiorando la testa di Huerequeque, e una freccia lunga un braccio viene a piantarsi vibrando con un sibilo cattivo nel legno della cabina. Ah, dice Huerequeque, ci siamo. Fra gli uomini nasce uno scompiglio, la maggior parte si butta al riparo, e uno solleva il fucile… Non sparare, stronzo! gli urla Jaime dal ponte. L’uomo ritira il fucile e si rifugia in una delle cabine aperte. Ed ecco ad un tratto risuonare la musica di Fitzcarraldo, la voce di Caruso, bella e sostenuta, ma anche grattante. La musica si frammischia ai rulli di tamburo, vi si oppone e un po’ alla volta li fa tacere. Uno dopo l’altro i tamburi smettono di rullare. Wilbur è balzato in piedi ed esegue in coperta una strana danza estatica, è l’unica persona visibile. Dalla foresta viene silenzio. Solo la nave vibra dolcemente, la macchina ha un battito soffocato, si procede quasi impercettibilmente, si è quasi fermi. I miei eserciti, dice Wilbur, sono schierati. Lassù sul ponte Fitzcarraldo ha scoperto qualcosa col binocolo. È una canoa, dice, ne vedo la parte posteriore, è stata tirata a terra precipitosamente. Guardando attraverso il suo binocolo, scopriamo che ha ragione. Tra i rami penzolanti di un grande albero, le estremità dei quali pescano quasi nell’acqua, c’è, seminascosta e tirata parzialmente in secco, una piroga india. E nient’altro. La foresta vergine è immobile, come rapita in estasi dalla bella voce patetica di Caruso.

A bordo, ponte di comando.

La musica è cessata. Ora nella foresta c’è un silenzio minaccioso, nulla si muove, anche gli uccelli sono ammutoliti. Jaime è teso in ascolto e Fitzcarraldo guarda teso davanti a sé. C’è silenzio e silenzio, dice Jaime. Questo qui non mi piace. Fitzcarraldo ha scoperto qualcosa. Vedo qualcosa, dice, qualcosa sull’acqua. Jaime non può vederla. Qualcosa di nero, dice Fitzcarraldo, che si dirige verso di noi.

Pachitea.

Sull’acqua del Pachitea galleggia qualcosa, qualcosa di nero, che viene avanti. Si avvicina, non è grande. Come una vaschetta nera, con un piccolo albero in mezzo. Poi scopriamo che cos’è: un ombrello nero, aperto e posato sull’acqua come il guscio di una noce, col manico ritto nell’aria a mo’ di albero. Quel coso galleggiante sa di mistero.

A bordo, ponte inferiore.

Fitzcarraldo si sporge di un bel po’ dal parapetto e tira su l’ombrello con una pertica. Gli uomini, armati, gli si affollano intorno. Ma da dove capita qui, in nome di Dio, un ombrello? domanda Fitzcarraldo. Huerequeque avanza l’idea che lo abbiano preso gli aguarunas a uno dei missionari, dopo averlo ammazzato. I padroni della foresta vogliono certamente farci capire che questo è l’ultimo avvertimento. Quelli lì amano i gesti fioriti.

Cabina di Fitzcarraldo, notte.

Fitzcarraldo ha radunato quasi tutti gli uomini nella sua cabina, che è arredata con semplicità, ma è un po’ più grande delle altre. Se ne stanno accucciati un po’ dappertutto, stretti gli uni agli altri, qualcuno fuma, un fumo denso riempie il locale. Adesso, dice Fitzcarraldo, tutto dipende dal nostro comportamento. Al tempo della prima spedizione, la nave venne preceduta dalla voce che si trattava di una specie di veicolo divino e che Viracocha, il dio bianco, era venuto per far uscire gli aguarunas dalla foresta vergine. Si suppone che gli aguarunas si siano spinti da queste parti provenendo dall’interno del Brasile trecento anni fa, avrebbero vagato per la foresta in lungo e in largo per dieci generazioni, è accaduto spesso che delle tribù siano diventate nomadi. Sì, conferma Jaime de Aguila, anche la loro lingua non appartiene a nessuno dei gruppi linguistici qui stabiliti; gli huambisas, i shapras, gli jivaros, sono famiglie totalmente diverse. Questi aguarunas, dice Fitzcarraldo, spinti da una credenza religiosa, partirono dunque alla ricerca di una terra senza morte e senza dolori, credendo che alla fine del loro errare un dio bianco, Viracocha, ve li avrebbe guidati. Di questo dobbiamo approfittare. Ma non è affatto un dio che arriva coi cannoni, è uno che arriva su di un veicolo bianco. Ma che ci frega di tutto ciò, dice il tatuato, se uno di quei culi nudi mi capita a tiro, gli pianto una pallottola in mezzo agli occhi. Non ce ne importa un cavolo del buon dio bianco, e: che altri porgano pure il culo al buon dio bianco, noi no di certo, brontolano alcune voci. Non tira aria buona, l’atmosfera sa di ammutinamento in arrivo. Qualche volta, dice uno in tono provocatorio, credo che vi manchi un venerdì. Questo qui non è un teatro, quelli là fuori nella foresta fanno sul serio.

E in questo, non è che abbia tutti i torti. Anche Fitzcarraldo, nel suo intimo, lo sente, e non dice più nulla.

In coperta, notte.

La più profonda oscurità avvolge la nave. Alcuni degli uomini, posti di guardia coi fucili, fissano stanchi il buio della notte. La foresta risuona di milioni di pigolii lamentosi, emessi da piccoli ranocchi. Tutto un mondo si trasmette pigolando nel buio tristi messaggi. Anche noi ascoltiamo tesi: non c’era forse qualcosa, non c’erano mescolati anche suoni umani che si scambiavano lamentosi messaggi in preparazione dell’attacco?

Fitzcarraldo posa delicatamente la mano sulla spalla di uno degli uomini. Va’ a dormire, dice piano, ora faccio io. Alle quattro uno di voi mi darà il cambio. L’uomo annuisce e scivola via sulla coperta buia in direzione delle cabine. Il motore borbotta lieve.

Cabina di Fitzcarraldo.

L’oscurità della notte è svanita, il giorno penetra a strisce luminose dalle persiane di legno. Fitzcarraldo è sdraiato sotto la zanzariera e dorme un sonno profondo e tranquillo. Entra Wilbur, allegro, quasi per caso. Solleva la zanzariera e sveglia Fitzcarraldo che con uno scatto si mette seduto sul letto. In mano stringe il fucile che aveva accanto a sé. Fritz, dice Wilbur in tono amichevole, dovremo far colazione da soli.

In coperta, alba.

Fitzcarraldo, ancora mezzo svestito, si precipita sul ponte con il fucile in mano. C’è solo il macchinista, piegato sul parapetto, che sta fissando qualcosa, fuori di sé. Anche Fitzcarraldo guarda. Noi guardiamo con lui. Sull’acqua nebbiosa del Pachitea si sta allontanando una lancia stracolma, c’è su tutto l’equipaggio, remano furiosamente e scivolano via veloci, scompaiono nella nebbia giù per il fiume. Ti sarebbe piaciuto andartene con loro, dice sarcastico Fitzcarraldo. Io non ne sapevo niente, sono stato tutto il tempo sottocoperta vicino alle macchine, dice l’uomo.

Ponte di comando.

Fitzcarraldo si precipita su per la scala, spalanca la porta della cabina del timoniere. Stan, il giocoliere, è lì inginocchiato, piegato sopra Jaime de Aguila che giace a terra, e con movimenti nervosi gli sta sciogliendo i lacci dalle braccia e dalle gambe. Jaime, furioso, si strappa un bavaglio dalla bocca. Quei porci, all’improvviso sono piombati qua tutti con i fucili. Avevo il sospetto che fossero dei buoni a nulla. C’è ancora Wilbur e il macchinista, dice Fitzcarraldo, pensavo già che fossimo completamente soli. Fuori i tamburi ricominciano a rumoreggiare. Penso, dice Fitzcarraldo, che un po’ d’opera italiana ci sia adesso ASSOLUTAMENTE NECESSARIA.

Pachitea.

La nave si trova già in mezzo alle ultime propaggini andine. A destra e a sinistra, nella nebbia mattutina, si levano montagne non troppo alte ma molto scoscese. Il fumaiolo erutta fumo, ma la nave avanza a stento, sembra quasi immobile tanta è la lentezza con cui procede. Una grandiosa musica operistica si leva dalle sue sommità spandendosi per la foresta e, come ormai è provato, quasi subito tacciono anche i tamburi.

Ponte di comando.

Gli ultimi cinque rimasti tengono un veloce consiglio di guerra nella sovraffollata cabina del timoniere. Tutti, meno Wilbur, hanno i fucili. Fitzcarraldo è tranquillo, parla con molta calma. Il sogno è finito, dice. Ecco, signori miei. Dobbiamo tornare indietro. Stan resterà quassù con voi, e tu vai giù alle macchine. Certo, dice il macchinista, subito, ho capito. Per la prima volta lo osserviamo con più attenzione: ci era sempre sfuggito, così sottile, giovane e coperto d’olio. Ma adesso nel momento del pericolo, sembra aver fegato, anche se avrebbe preferito di gran lunga tagliare la corda assieme agli altri. Ma ora sta acquistando energia. Io, dice Fitzcarraldo, mi occupo con Wilbur del ponte di mezzo. Facciamo un’inversione di 180°. È possibile qui? È possibile, dice Jaime, il capitano. Prima che ognuno vada al proprio posto, Fitzcarraldo dà ancora una rapida occhiata a destra e a sinistra verso i bordi della foresta. Sul tetto, l’opera italiana ingigantisce. Fitzcarraldo si sporge dalla finestra e guarda anche dietro. Lentissimamente, quasi al rallentatore, ritrae la testa. Non va, dice lento e laconico. Come?, fa Stan, che non capisce. Giratevi tutti lentamente, per favore, niente movimenti bruschi, lentamente. Tutti, come un sol uomo, si girano lentamente e guardano attraverso il vetro posteriore. Vedete anche voi quello che vedo io, dice Fitzcarraldo.

Finalmente anche noi guardiamo con i loro occhi. Ci accorgiamo subito che là dietro, per tutta la larghezza del fiume, il passaggio è sbarrato da piroghe, certo una quarantina e anche più, che seguono a breve distanza, forse corrispondente alla lunghezza della nave. Ogni piroga è occupata da tre o quattro indios, che remano con molta calma e mantengono cautamente la distanza dalla nave che avanza lenta. E adesso vediamo che, più indietro, altre imbarcazioni spuntano dalla nebbia. Gli indios, possiamo vederlo anche da lontano, hanno lunghi capelli, il viso dipinto a strisce ocra e sembrano armati. Ma seguono lentamente, con timoroso distacco.

Bene, dice Fitzcarraldo, CI MANCAVA SOLTANTO QUESTO. Dobbiamo per forza andare avanti, dice Jaime, volenti o nolenti. Cercar di passare là dietro sarebbe la fine. Si rivolge al macchinista. Adesso vai giù in sala macchine, molto lentamente, nessun movimento brusco, capito? Bisognerebbe dare un po’ più di vapore, ma con molta prudenza. Penso che sarebbe una buona cosa se aumentassimo un po’ la velocità. Con movimenti dominati da una calma sovrana, il macchinista scivola fuori dalla cabina.

Gli indios continuano a seguire a distanza. Noi vediamo come l’elica cominci a formare gorghi più ampi, come il motore aumenti di pressione e come la nave scivoli un po’ più rapida. Anche gli aguarunas nelle loro piroghe si muovono più velocemente, il distacco rimane quello di prima. Ci accorgiamo che nel frattempo sono aumentati di numero.

Nella cabina, Fitzcarraldo guarda fissamente attraverso il vetro. Col cannocchiale. Sono tutti uomini, alcuni con lance, dice piano. Continuano a mantenere la distanza. Si gira verso Jaime. Vi era mai capitata prima una cosa del genere? No, dice Jaime, una cosa simile non l’avevo ancora vista in vita mia. La musica sul tetto si interrompe, il cilindro è finito. Credo che questo non piaccia ai nostri amici, dice Fitzcarraldo, il fatto che la Tosca sia finita sembra innervosirli.

Pachitea.

Visto da una delle rive, a una certa distanza. La nave scivola forzatamente controcorrente, seguita ora da almeno un centinaio di piroghe. Fitzcarraldo, piccolo ma riconoscibile, striscia lentamente sul tetto verso il fonografo. Attacca un’ouverture, a tutto volume, bella e gracchiante. Le imbarcazioni formano dietro una lunga processione. La nebbia si è ormai alzata al di sopra delle cime degli alberi. Sul ponte di mezzo c’è il PAZIENTE BOVINO dallo sguardo fisso.

A bordo, ponte di comando, verso sera.

Jaime e Fitzcarraldo, grondanti sudore e stravolti dalla fatica, guardano fisso davanti a sé. Lungo silenzio. Non vediamo più le piroghe, ma sappiamo che gli sono alle calcagna. Quanto durerà ancora?, chiede Fitzcarraldo. Fino a quando ci incaglieremo su un banco di sabbia, dice Jaime laconico. Ma penso che la cosa migliore sia continuare a muoverci. Qualunque mossa facciamo adesso può essere sbagliata per un sacco di motivi. L’iniziativa dovrebbe partire da loro.

A bordo, cassero.

A poppa della nave. Ci accorgiamo con spavento che Wilbur, completamente allo scoperto, con le piroghe a pochi metri, fa grandi gesti verso gli aguarunas. Compie strani movimenti da uccello in amore, grandi richiami silenziosi in una lingua comprensibile solo a coloro che praticano l’altra sponda della follia, attira le piroghe con oscene movenze del suo corpo in calore. Chiama a raccolta tutta la sua armata. E infatti, timorosamente, tre o quattro delle piroghe più vicine avanzano un po’. Una è già vicinissima, basta allungare un braccio per toccarla. In totale potrebbero essere adesso già quattrocento le imbarcazioni che seguono la Molly Aida.

Ponte di comando.

Jaime, spaventatissimo, si accorge di cosa sta combinando Wilbur. Wilbur! grida, e reagendo in modo evidentemente sbagliato, tira la maniglia che mette in funzione la sirena antinebbia.

Cassero.

Proprio nel momento in cui l’aguaruna più vicino tocca con le punte delle dita lo scafo, la sirena manda un ululato possente. L’indio ritrae di colpo la mano, come se avesse ricevuto una scossa. Come quando una ventata scompiglia il fogliame, così le piroghe si allontanano dalla nave, mulinando spaventate. Poi lentamente si raccolgono di nuovo, si rimettono in ordine, come un branco di avannotti dopo che si è disperso.

Ponte di comando.

Jaime manda un profondo sospiro. Scusate, dice, sarebbe potuta finir male. L’avvenimento improvviso ha sciolto Fitzcarraldo, lo ha reso quasi allegro. Appoggia il suo fucile al timone ed esce tutto tranquillo dalla cabina, come se si trovasse nel porto di Iquitos. Credo che chiuderò la baracca, dice, il. sole sta già tramontando.

A bordo.

Fitzcarraldo tutto rilassato scende i gradini, attraversa la coperta passando accanto allo stupito Stan che è sdraiato tra due rotoli di gomene col fucile in posizione di tiro. Guarda che non ti scappi un colpo per sbaglio, gli grida Fitzcarraldo in tono scherzoso, e poi si avvicina a Wilbur. Allora Wilbur, dice, adesso facciamo cenno ai nostri amici di avvicinarsi. Con il coraggio insensato che caratterizza i pazzi e i visionari, si mette in piedi e comincia a far cenni.

Ed ecco, all’improvviso arriva un altro personaggio, perfettamente intonato alla situazione. Una delle cabine si apre e compare Huerequeque strizzando gli occhi, ancora mezzo addormentato, che si è svegliato ora dalla sua sbronza. È a piedi nudi e ha addosso solo i pantaloni, la sua pancia nuda deborda dalla cintura. Hola, compadres, ma che ore sono, dice a Wilbur e a Fitzcarraldo, solo in un secondo tempo si accorge degli indios. Amigos, grida, e fa cenno di avvicinarsi, come se chiamasse i compagni dell’osteria. Per un attimo Fitzcarraldo è irrigidito dallo stupore, lo fissa come se vedesse un’apparizione. Da dove salti fuori, Huerequeque? gli chiede, no, non è possibile. Ho dormito, dice quello. Gli altri se ne sono già andati, i vigliacchi, i degeneraditos? In questi attimi di piena disinvoltura e innocenza, la più grande delle piroghe, senza farsi notare, si è portata sotto il fianco della nave e un uomo solenne, con un copricapo di piume particolarmente bello, certo uno dei capi, è salito a bordo con due accompagnatori. Non hanno armi, all’infuori di lunghi arpioni da pesca. Fitzcarraldo è il primo a notarli. Restate calmi, dice, credo che non ci faranno niente. Stende la mano verso il capo con l’intenzione di stringere la sua, ma quello sfiora lievemente con le sue dita le dita di Fitzcarraldo, un soave, tenero, primo contatto. Wilbur e Huerequeque vengono anch’essi toccati nello stesso modo prudente e timido. Il capo comincia a parlare, tranquillo e dignitoso, di tanto in tanto lui e i suoi accompagnatori sputano tra i denti verso terra, come per caso. Ci serve Jaime, dice Fitzcarraldo.

Pachitea.

La sera è scesa. sul fiume e la nave è lì, con le macchine sotto pressione, ma a riva, ormeggiata ad alcuni alberi robusti. È circondata da una fitta schiera di piroghe, tutti si fanno sotto per toccare con le mani i bordi, al primo sguardo sembrerebbe che il pericolo e tutti i timori siano per il momento passati. Tra gli alberi brillano i fuochi dei bivacchi, sembra che ci si prepari per la notte.

A bordo, sera.

In una spettacolare estasi, il cielo è acceso da fiamme color arancione. Gli ultimi stormi di pappagalli gridano cercando l’albero su cui dormire la notte. I queruli ranocchi incominciano le loro orge di lamenti per le condizioni dell’universo. Ha inizio il grandioso concerto di milioni di pigolii.

Sul cassero sono seduti l’uno accanto all’altro tutti gli uomini superstiti, e davanti loro a semicerchio stanno circa settanta indios. Hanno raccolto in coperta un po’ di argilla che è tenuta assieme da un quadrato di grossi pezzi di legno, e sopra di essa sta ardendo un fuoco che per loro è caratteristico: tre tronchi ardenti, disposti a stella, e fra le commessure pezzi di legno più sottili e asciutti che alimentano le fiamme, e sopra di queste, posta direttamente sul fuoco, una larga pentola di coccio, nella quale sta bollendo qualcosa. Uno, due indios parlano alternandosi, per la prima volta ci è dato il tempo di ascoltare la loro strana voce dal suono dolce. Sembra che ci sia un chiaro ordine gerarchico di chi deve parlare, quando e di che cosa. I gesti delle loro mani sono appariscenti e belli, strani, dolci e belli, muovono le mani quasi come direttori d’orchestra che scandiscano una melodia impercettibile e totalmente sconosciuta, che si manifesta provenendo dalle profondità misteriose e più tenebrose della foresta vergine. È qualche cosa di indescrivibilmente delicato e timido.

S’inserisce una pausa di silenzio. Jaime comincia a tradurre. Parlano del veicolo bianco, intendono la nostra nave, dice, credo che si attendano qualche cosa come una redenzione. Dicono che su tutta questa terra pesa una maledizione. Sanno che non siamo degli dei, ma sembra che la nave faccia una grande impressione su di loro, e hanno parlato anche della voce sul tetto. Credo che vogliano che noi restiamo qui con loro, il capo dice che vuole farci un dono. L’entusiasmo di Wilbur è alle stelle. Gli aguarunas, dice, il mio popolo, ho trovato il mio popolo. Fonderemo un regno assieme a loro.

Il capo si alza in piedi e porge a Fitzcarraldo due testuggini vive nella cui corazza è stato praticato un foro ai margini per passarvi una liana che le lega saldamente assieme. Poi riempie una scodella col liquido scuro che bolle sul fuoco. Bevi, dice tra i denti Jaime, al quale la scodella è stata offerta. È chusirasi, un po’ amaro, ma non ne morirai. Fitzcarraldo beve coraggiosamente, come gli è stato ordinato. Allontana la scodella dalla bocca e la porge in giro ai suoi uomini, obbedendo a un gesto imperioso del capo. Amici, dice sottovoce come quasi a se stesso, credo che continueremo. È sopravvenuta notte fonda, le deboli vampe del fuoco si riflettono per settanta volte negli occhi scuri degli aguarunas.

A bordo.

Splende il nuovo giorno, ha portato con sé una pioggia che cade a dirotto, con regolarità e indifferenza. L’intero cassero è pieno di indios, quasi un centinaio di loro se ne stanno accoccolati in coperta, in silenzio, e guardano in direzione della rotta. La nave risale il fiume con un pulsare lento e regolare, e dietro e intorno ad essa brulicano le canoe degli indios, che ora si tengono soltanto a poca distanza. I versanti della foresta non sono eccessivamente alti ma, un po’ più lontano, sullo sfondo, vediamo profilarsi delle ripide alture, sovrastate da nubi, che annunciano le propaggini orientali delle Ande. Wilbur si muove con tutta naturalezza fra gli indios, Stan, che è con lui, sembra invece un po’ più diffidente.

Ponte di comando.

Fitzcarraldo è piegato su delle carte geografiche particolareggiate, e accanto a lui Jaime è al timone. Huerequeque gli si è avvicinato e guarda sopra le spalle di Fitzcarraldo. Fitzcarraldo si erge in tutta la sua statura. Laggiù, dice a Jaime, sì laggiù, vedi quella catena di colline. La vedo, dice Jaime. Dovrebbe essere lì, siamo arrivati. E rivolto a Huerequeque: guardati bene quelle stupide, ridicole, modeste colline. QUELLE DECIDERANNO DEL NOSTRO DESTINO. Sul viso di Huerequeque si dipinge un’espressione di consapevolezza.

Sulle colline di Camisea.

La nave è ormeggiata, da nessun indizio ci è possibile capire perché proprio in quel punto, non c’è niente che lo contraddistingua, dappertutto c’è solo foresta fumante che si stende umida sopra il pendio. Piove sempre. Un po’ più avanti, campeggia sul fiume un monte d’una certa altezza.

Fitzcarraldo è sceso a terra con tutti i suoi compagni, seguiti da quasi tutti gli indios che erano a bordo. Fitzcarraldo cerca di tenere nascoste sotto la camicia, al riparo dalla pioggia, le carte geografiche. Un sentiero, che reca evidenti orme di piedi nudi, prende qui l’avvio e s’inoltra a serpentina su per la collina. Venite con me, dice Fitzcarraldo bruscamente. Adesso si metteranno le carte in tavola, dice Huerequeque.

Sulle colline.

Fitzcarraldo ha contato i passi, esplora con lo sguardo la foresta che lo circonda. Intuiamo vagamente con lui che è stato raggiunto il punto più alto delle colline. Fitzcarraldo si ferma con fare solenne e attende che lo abbiano raggiunto per il sentiero i suoi compagni e gli indios. Qui è il posto che volevamo raggiungere, proprio qui. Stan e il meccanico si scambiano un’occhiata, qui non c’è niente, non c’è che la solita, solitissima foresta vergine, come dappertutto in giro. Dobbiamo arrampicarci su di un albero, affinché voialtri citrulli possiate capire qualcosa, dice Huerequeque, e si fa strada a colpi di machete attraverso il groviglio di liane e di radici, fino ad uno dei giganti della foresta. Prepareremo per i signori una piattaforma panoramica.

Cima dell’albero, colline di Camisea.

Sulla cima frondosa di uno dei giganti della foresta è stata costruita una stretta piattaforma provvisoria, ancorata saldamente con delle liane. Vi si affollano Fitzcarraldo e i suoi compagni, non tutti però vi trovano posto, tanto che Stan e il macchinista sono seduti sopra una biforcazione dell’albero, un po’ al disotto della piattaforma, ma anche di lì possono vedere abbastanza. Divento matto, dice Stan. Ora vediamo ciò che vedono tutti, seguiamo la mano di Fitzcarraldo che sta indicando qualche cosa. Sotto di noi scorre scuro e limaccioso il corso superiore del Pachitea, e se volgiamo lo sguardo dall’altra parte, dove il crinale delle colline digrada di nuovo, vediamo di colpo, tanto vicino da poterlo quasi afferrare, un altro fiume, molto più largo e più chiaro, che giunge vicinissimo a noi con un’ampia ansa, allontanandosene poi in altra direzione e scomparendo tra i monti. È l’Ucayali, dice Fitzcarraldo. Vi trasporteremo la nave, così saremo padroni del corso superiore. E i culi nudi ci aiuteranno. Lo sapevo fin da principio, dice Huerequeque, costruiremo un tunnel ferroviario. No, dice Fitzcarraldo, trasporteremo la nave scavalcando la montagna. Ma per essere un beone, hai un cervello che funziona abbastanza bene. Emozione si diffonde fra gli uomini sulla vetta dell’albero, questa è dunque la nostra meta, questo è dunque il nostro compito. Attacca una musica forte, patetica, e il nostro sguardo va dall’Ucayali al Pachitea, e dal Pachitea all’Ucayali, in mezzo agli strilli delle scimmie fracassone.

È uno spettacolo che ci solleva, che ci fa volare alto sopra il paesaggio assieme alla musica che si diffonde tutt’attorno. Eccoli dunque, i due fiumi, in quel punto tanto vicini l’uno all’altro, e tra loro le colline di Camisea, soffocate dalla foresta vergine, ecco il monte che è il destino di Fitzcarraldo. Qui dunque è il posto della SUA SFIDA: la sfida all’impossibile.

Foresta vergine, colline di Camisea.

Pioggia torrenziale, pioggia fitta, pioggia a rovesci. Un gigante della foresta, quasi interamente soffocato dalle liane, coperto di muschio, invecchiato, incanutito nella lotta per raggiungere il tetto di luce, ad un tratto ha un fremito dalla cima ai piedi. Scricchiola, manda un gemito terribile, quasi umano, poi si piega lentissimamente in avanti, si inclina sempre di più, e infine cade rapidamente, e dentro di noi gridiamo: CADE! Cade con un ultimo inchino davanti alla forza degli uomini, alle accette degli uomini. Con uno schianto spaventoso si abbatte sul terreno. E accanto ad esso, ecco piegarsi quello vicino, subito dopo un altro, e poi un altro ancora, è una foresta che oscilla e che si abbatte su se stessa.

Nel folto della foresta s’inerpica ripido il versante marcescente e putrido, e qui sono convenuti su un ampio fronte gli indios, che a colpi di machetes liberano la foresta dal fitto sottobosco e dal groviglio arruffato delle liane. Nembi di zanzare si sollevano intorno a loro, e dall’alto cadono polverizzandosi gocce di pioggia tropicale. Gli aguarunas manovrano i loro taglientissimi machetes con movimenti leggeri, quasi ciondolanti, quale eleganza, quale decisione nei loro atti! Eppure sappiamo bene che in poche settimane la foresta si sarà di nuovo richiusa su se stessa. Le liane pensili, quando sono staccate, esitano dapprima per un lungo momento, come se volessero contestare la propria distruzione, come se avessero bisogno di rendersi conto per un attimo di quanto sta succedendo, poi precipitano al suolo sommergendosi a vicenda. Con un solo colpo di machete vengono tagliati arbusti carnosi, che si piegano di lato col loro largo fogliame, e dal punto del taglio sprizza rabbiosamente un umore biancastro. Orchidee sensuali occhieggiano ai tagliatori meditando avvelenamenti.

Su due giganti della foresta vicini l’uno all’altro gli indios hanno sistemato ad altezza d’uomo delle impalcature, fissandole praticando con le accette delle tacche nei punti dove le robuste costole delle radici sporgenti si riuniscono intorno al ceppo da tutte le direzioni. Dalla foresta si sentono risuonare le scuri con l’accompagnamento musicale dei machetes, ciascuno ha un suono e una nota diversa a seconda di dove colpisce. Come per caso, un indio ammazza un serpente con un bastone.

Uno spiazzo libero, parecchie grosse pietre piatte sono sparse sul terreno argilloso e un intero gruppo di aguarunas attende il proprio turno per affilare i machetes. Come accade tagliando l’erba con la falce, dopo un breve impiego i machetes vanno nuovamente affilati. Gli aguarunas immergono brevemente le lame in una pozzanghera argillosa, per inumidirle, e poi le affilano premendole contro una pietra e incurvando l’acciaio.

Fitzcarraldo è in mezzo alla foresta fra gli indios che lavorano, e indica la direzione del tracciato. Ci rendiamo presto conto che la foresta viene tagliata per una striscia di circa venti metri di larghezza. Cadono gli alberi, e cade anche la pioggia.

In coperta, punto d’attracco di Camisea, sera.

Gli uomini di Fitzcarraldo siedono riuniti attorno alla tavola della mensa sul cassero, e mangiano. Da un cesto indiano rivestito di foglie fresche, Huerequeque taglia un pezzo di carne scura affumicata e se ne serve una fetta. Per niente male, questo cinghiale, e beve un bel sorso di aguardiente da una grossa fiasca panciuta. L’umore è piuttosto meditabondo. Jaime de Aguila esce dal buio avvicinandosi alla tavola e continuando a togliersi il fango dalle piante dei piedi. Soltanto Wilbur se ne sta in disparte presso il parapetto, dove con delle corde ha tirato ben teso un pezzo di stoffa, tenendovi vicinissima una lampada, di modo che dall’altro lato ne traspare una luce bianca. Zanzare si avvicinano danzando alla superficie illuminata e intorno svolazzano eccitate grosse farfalle notturne, qualcuna si è già posata sulla tela. Le vediamo più da vicino. Tra le farfalle alcune sono animali strani, dall’aspetto quasi preistorico, come capitate qui da un’era geologica remota, scomparsa. Wilbur ha il respiro corto per l’eccitazione. Rami di un grosso albero sporgono fin sopra il ponte. Lo zebù geme in sogno. Sulla terraferma ardono dei fuochi, dai quali giungono voci sommesse. Il pappagallo pronuncia alcune parole incomprensibili.

Nella cerchia attorno al tavolo si trova, come fosse la cosa più naturale del mondo, un giovane aguaruna di circa undici anni, che di tanto in tanto s’inserisce nella conversazione parlando con tutta disinvoltura la sua lingua: è evidentemente Wilbur che lo ha portato a bordo. L’inizio è stato davvero ottimo, dice Fitzcarraldo soddisfatto. Jaime, come credi che andremo avanti? Jaime continua con fare preoccupato a pulirsi le piante dei piedi con un listello di legno. Non so di preciso che cosa abbiano veramente in testa quelli lì, poco fa ho parlato con alcuni di loro, ma quello che passa realmente per le loro teste è un enigma. E io mi domando quanto tempo ci vorrà per sapere come andrà avanti questa faccenda. Se proprio non andrà, dice Huerequeque, ci costruiremo una galleria. Ma l’idea non viene condivisa da nessun altro, lui è il solo a crederci. Non appena la tagliata sarà finita, dice Fitzcarraldo, dovremo pur farcela, in via del tutto teoretica potrei farvi passare la mia nave colla mano sinistra, sempreché avessi un paranco e relative trasmissioni. Disporrei una catena di due chilometri perché la nave si muova di due centimetri. Ma, dice Jaime, tutto ciò è appunto teoria. Sarà una cosa lunga, e il grosso interrogativo è se gli aguarunas vorranno restare con noi per tutto il tempo. Non possiamo permetterci di perdere tempo. La costruzione della nave, dice Fitzcarraldo pensieroso, ci è già costata due mesi. E ora, aggiunge Huerequeque, ce ne rimangono soltanto sette prima che scada l’opzione, e sempreché arriviamo a farcela. Il giovane aguaruna comincia a parlare. Il nostro piccolo amico ha perfettamente ragione, dice Huerequeque che naturalmente non ha capito un’acca, qual’è precisamente il suo nome? Eilà, Wilbur, come si chiama qua il tuo amico? Mc Namara, dice Wilbur, sappiate che Mc Namara è il mio aiutante. Un aguardiente per il nostro piccolo aiutante! grida Huerequeque disponendosi a porgere la bottiglia al ragazzo. Lascia stare, dice Fitzcarraldo irritato. Cade un lungo silenzio. Poi Jaime scaccia dal tavolo, col suo legnetto fangoso, un ragno nero, grosso quasi come un pugno, che per tutto il tempo se n’era rimasto immobile, attirando l’attenzione di tutta la compagnia.

A bordo, cassero.

Il giorno è cominciato con una pioggia leggera, foresta e cielo grondano. A bordo si è formata una lunga fila di indios che sfilano davanti a Fitzcarraldo. Gli aguarunas sono seminudi e portano in parte machetes, lance e cerbottane che all’esterno, lungo la canna, sono avviluppate con fibra di liana. Jaime de Aguila distribuisce a ciascun indio un cucchiaio della massa nerastra e appiccicosa. Gli indios esaminano con attenzione il veleno per le frecce, lo annusano e lo ripongono in un contenitore di legno. Accanto a Fitzcarraldo stanno alcuni dignitari, tra i quali anche il grande capo che aveva preso il primo contatto. Stan e il macchinista, sullo sfondo, lavorano alacremente attorno alla macchina da ghiaccio di Fitzcarraldo. Abbiamo bisogno di qualcuno che ci dia il cambio, ho le braccia completamente rattrappite, dice il macchinista. Wilbur, dice Fitzcarraldo, non puoi dare una mano? Ma Wilbur non può, la notte scorsa deve essersi sfregato un po’ di acquavite sulle braccia, e ora su ambedue, delicatamente tese in avanti, sono posate una ventina di grandi farfalle d’un azzurro lucente, che non è assolutamente in grado di scacciare. Oggi non possiamo sicuramente contare nemmeno su Huerequeque, dice Fitzcarraldo, quello si è portato a letto l’aguardiente.

Sullo sfondo vediamo tutta la collina brulicare di aguarunas, si è ripreso a lavorare per portare avanti la tagliata. Occorrono ogni volta un centinaio di uomini per togliere di mezzo un albero abbattuto, usando corde di liana, leve e accette. Regna un’attività frenetica. Fittamente addossate le une alle altre, innumerevoli canoe sono saldamente legate alla riva da rigide strisce di scorza di liana, e per la prima volta scorgiamo ora anche donne, la maggior parte delle quali porta bambini nelle fasce a tracolla. Indossano tutte dei panni bruno-rossicci simili a tuniche, i lunghi capelli ricadono dietro le spalle.

Fitzcarraldo fa fare a un indio timido e titubante un tiro di prova con la cerbottana, questi qui crederanno altrimenti che vogliamo rifilare loro del miele. L’indio prende da una piccola faretra di legno una freccia lunga circa dieci centimetri, appuntita come un ago, vi avvolge un piccolo batuffolo di cotone, che porta in una seconda faretra, intinge la punta nel suo vasetto contenente il veleno appiccicoso, e spinge nella canna la freccia pronta per il lancio. Fitzcarraldo si mette un po’ in disparte e indica un pollo, qualche metro più avanti vicino alla prua, legato ad una zampa. L’aguaruna spara la freccia con un rapido soffio dal suono stranamente cavo, colpisce il pollo in un fianco. Quello apre soltanto le ali con un breve scossone e rimane immobile in piedi, nell’immediata paralisi della morte. Dal becco gli esce della schiuma formando alcune grandi bolle. Poi crolla in avanti, come un pezzo di ghiaccio, e non si muove più. Si leva un mormorio di approvazione, il curaro è buono. Basta che quelli lì non si mettano in mente di usare noi come bersaglio, dice Stan. Il ghiaccio è pronto! Fitzcarraldo si porta alla sua macchina e ne toglie un pezzo dal colore bianco lucido, che Stan gli allunga semiavvolto in un panno. Jaime, dice, è proprio il caso che io lo dia al capo come regalo. Però devi spiegargli che si fonde e che non gliene resterà minimamente. Non c’è parola per dire questo nella loro lingua, dice Jaime. Alla fine, dopo qualche esitazione, Fitzcarraldo mette in mano al capo il pezzo di ghiaccio. Quello rimane sorpreso, immobile come una statua, e Fitzcarraldo è un po’ in imbarazzo. Alcuni indios palpano il blocco gocciolante, sui loro volti si dipinge un’intensa meraviglia, si irrigidiscono in una composizione da vecchia fotografia, tra le loro file serpeggia un continuo bisbiglio e noi notiamo a questo punto che i più vicini degli aguarunas che lavorano alla tagliata smettono e guardano verso la nave. Come un incendio tra l’erba, l’irrigidimento si estende su per tutta la collina, vediamo veramente come l’irrigidimento si propaghi su per tutto il declivio. In un momento, tutta la collina si ferma. Si muovono solo il fiume, che scorre come sempre, e la pioggia, che continua a cadere.

Camisea, colline.

Debbono essere certamente trascorse due settimane, perché, quasi tirato da una corda, il taglio netto della foresta segna ora la collina, un nastro fangoso che scompare sull’altro versante. Il giorno è abbastanza chiaro, ora riconosciamo sullo sfondo, lontane e finemente modellate, le catene dei monti d’una certa altezza. La striscia della tagliata fa l’effetto d’un corpo estraneo nel mare, nei flutti montagnosi della foresta vergine. Vediamo anche che il terreno non è uniformemente piano, che ci sono degli avvallamenti, che la pendenza si abbassa per un tratto, per poi riprendere di colpo ancora più marcata, che nel terreno c’è perfino un solco profondo scavato da un torrentello. Lungo la tagliata, gli aguarunas si sono costruiti delle capanne provvisorie, dalle quali esce un fumo sottile che avvolge l’intera foresta nelle immediate vicinanze.

La nave è messa di traverso sul Pachitea, e perché non vada alla deriva è legata saldamente alla sponda opposta mediante grosse gomene tese al massimo. La prua tocca la riva della collina che in quel punto si inerpica pericolosamente. Con dei pesanti tronchi, è stato costruito uno scivolo obliquo, che, partendo dall’acqua, risale il pendio in modo da far uscire la prua dal fiume, ha quasi l’aspetto di un ponte pesante e massiccio, messo di traverso e puntellato da robusti piloni. Dalla prua alla terraferma si stendono una quarantina di gomene e di cavi di acciaio. Ancorati profondamente nel terreno per mezzo di palafitte e trattenuti da ceppi dei più forti giganti della foresta segati e lasciati infissi si trovano sparsi su per la collina altrettanti argani, costituiti ciascuno da un gigantesco tamburo per cavi con delle pesanti e tozze trasmissioni dentate, sopra le quali sono disposte a croce due traverse. Queste sono ad altezza d’uomo, in modo che una ventina di indios, spingendole in cerchio, possano metterle in movimento.

È arrivato il primo grande momento. L’equipaggio di Fitzcarraldo si è raccolto in coperta sulla prua, e a terra attorno allo scivolo. Tutto ciò che in qualche modo poteva essere rimosso, è stato scaricato dalla nave e si trova sparpagliato a terra: le scialuppe di salvataggio, l’intero bagaglio, parti del sistema timoniero, cavi, le rotaie ferroviarie, quelle almeno che non sono state impiegate finora, una confusione pazzesca, il tutto bagnato dalla pioggia e sporco di fango. Tutti gli sguardi sono fissati su Fitzcarraldo, che dà il segnale d’avvio. Gli aguarunas cominciano a girare contemporaneamente in cerchio attorno agli argani, spingendo le traverse incrociate, si sente un clic metallico di ruote dentate che s’incastrano le une nelle altre, un cigolìo. Sulla riva opposta, alcuni uomini, tra i quali il macchinista, sono pronti ad allentare la tensione delle gomene. Lentamente, come al rallentatore, i fasci di acciaio si tendono orizzontalmente nell’aria. La nave si adagia con un leggero strappo sul legno dello scivolo, che la prua comincia a intaccare. Sembra che le cose non si mettano bene, c’è qualcosa nell’energia della trazione che pare non sia stata calcolata bene. Sotto la tremenda tensione dei cavi, l’intera nave comincia a gemere e la forma dello scafo sembra distorcersi, lo notiamo dal fatto che i montanti superiori delle sovrastrutture di coperta assumono una posizione leggermente obliqua. La piattaforma superiore del ponte si deforma e con un orribile fracasso una delle tavole di plancia schizza dal pavimento volando in aria. La nave si è incastrata saldamente con la prua nello scivolo della rampa. Fermi, urla Huerequeque, altrimenti lo scafo va in pezzi! Jaime de Aguila urla qualche cosa in lingua aguaruna e corre su per la collina, perché qualcuno degli addetti agli argani continua a farli girare. C’è una sospensione, si diffonde una calma innaturale. Mollate, urla Huerequeque, girate indietro gli argani! La tensione dei cavi si allenta, ma adagio, questo tipo di movimento non sembra essere stato provato in precedenza.

La prua da vicino. Fitzcarraldo la esamina assieme ai suoi uomini. Una chiavarda, grossa come un pollice, è saltata dal suo alloggiamento, altre sono allentate. C’è mancato poco, dice Fitzcarraldo. L’avevo pur detto io, fa il meccanico, che dovevamo smontare la nave almeno in tre o quattro parti e trasportarle di là una per una. Questa idea, dice Fitzcarraldo irato, l’avevamo già scartata da un pezzo. Per smontarla, potremmo anche farcela, ma per rimetterla insieme ci occorrerebbe un cantiere vero e proprio, e quello dove andiamo a pescarlo? Compadres, dice Huerequeque, che deve aver bevuto un po’, so io come si fa. L’ho visto in Brasile come si mette insieme, a terra, una bambola di questo tipo, anche se non proprio di questa grandezza, ma Huerequeque ha visto più mondo di tutti voi cantanti d’opera messi insieme. Per prima cosa dobbiamo puntellare la nave all’interno, poi impiegare la forza esterna contemporaneamente in più punti, e poi dobbiamo spedire di nuovo nella foresta i nostri giovanotti. Abbiamo bisogno di moltissimi tronchi. Amigos, dice, ora lasciate che Huerequeque si occupi della signorina. Qui non si tratta di usare le maniere forti, qui ci vuole molta pazienza.

Camisea, tagliata nella foresta.

Il lavoro è sospeso, quasi tutte le attività cessate. La ragnatela dei cavi si stende ancora sopra il terreno, ma essi non sono più del tutto sotto tensione. Bambini nudi giocano nel fango scivoloso, dalle capanne esce del fumo che, schiacciato dall’afa dell’aria, si diffonde in un lungo strato tra gli alberi. Da una certa distanza sentiamo provenire una sommessa cantilena. A destra e a sinistra contiamo almeno duecento capanne. Risuona un battito regolare mezzo soffocato dalla foresta. Alcune donne stanno pestando manioca dentro grandi mortai di legno. Colla massa liquida biancastra, farinosa, riempiono dei tubi simili a otricoli, fatti di larghe fibre di liana intrecciate, fissati in alto ai rami degli alberi per mezzo di un cappio. Anche all’estremità inferiore c’è un cappio, e le donne si coricano con tutto il loro peso sopra un legno messo per traverso, spremendo in tal modo dagli otri che si allungano il liquido leggermente velenoso dell’amara manioca. Un uomo si fa strada su per la collina, trasportando sulle spalle un pesce gigantesco, quasi più grande di lui, e si dirige ad una capanna che spicca per le sue dimensioni. Barcollando sotto il peso, l’uomo ne sale i gradini ricavati con l’accetta da un tronco d’albero, e si porta sul ripiano della capanna del capo.

Capanna del capo.

L’indio posa il pesce sul pavimento di rigida corteccia. La capanna consta praticamente di un’unica grande piattaforma con qualche pentola e qualche suppellettile, di uno dei caratteristici focolari di argilla sopraelevati, e di alcune amache, il tutto coperto da un tetto accuratamente intrecciato. Il capo e alcuni bambini sono accoccolati sul pavimento, accanto a lui Fitzcarraldo e Jaime de Aguila. Un po’ discoste stanno due donne, intente a masticare pezzi scorzati di dolce radice di manioca. Sputano il masticaticcio in un grande mastello di terracotta, che ha già cominciato a fermentare leggermente e a formare della schiuma. Il capo ha invitato a pranzo, c’è una zuppa di yucca e di testuggine. Lì vicino c’è ancora la testuggine macellata e i bambini giocano con la corazza e con le zampe cornee. Non si parla. Il capo porge in silenzio a Fitzcarraldo un sasso piatto, di colore bianco scintillante, simile a una focaccia. Sale, gli sussurra Jaime. Fitzcarraldo tenta col suo machete di incidere in qualche modo la focaccia di sale, ma questa è dura come il sasso, non se ne stacca nemmeno un pezzetto. Guarda come si fa, dice Jaime, gli toglie la focaccia di mano e la fa girare come un mestolo nella zuppa. Adesso l’ho salata troppo, sussurra dopo averla assaggiata dalla sua scodella. Il capo avvicina un mastello con della chicha di manioca pronta e mette in mano a Fitzcarraldo una ciotola di terracotta. Fitzcarraldo guarda per un momento la sostanza densa, che ha un po’ l’aspetto di chiaro yoghurt acquoso, e se ne prende una ciotola piena. La saliva, gli bisbiglia Jaime, è tutta fermentata, svelto, bevi. Fitzcarraldo beve coraggiosamente e fa dei cenni al capo per dire che gli piace moltissimo. Dio mio, gli dice ridendo, e intanto qui il tempo passa.

Pachitea, accanto alla nave.

Tutti hanno ripreso il lavoro con slancio palese. Le dozzine di canoe sono state in parte spostate, molte tirate a terra, grandi zattere di chiari e leggeri tronchi di balsa, tenuti insieme da liane, galleggiano vicino alla prua, che è sempre appoggiata sul piano inclinato dello scivolo. Indios stanno tirando sotto la prua tronchi del leggerissimo legno, e per farlo si tuffano sott’acqua, altri spingono i tronchi da dietro. Attività frenetica. Huerequeque, nell’acqua fino al petto, dirige la squadra. Sopra, in coperta, Fitzcarraldo con i suoi uomini sta fissando delle pesanti gomene in più punti della parte posteriore del ponte, è un lavoro faticoso.

Vediamo lo scafo della nave alla linea di galleggiamento. Effettivamente, davanti si è già leggermente sollevato, la linea marcata di nero è già un po’ obliqua rispetto all’acqua; sotto la prua vengono inseriti tronchi in numero sempre maggiore, ed essa comincia a sollevarsi. Huerequeque è felice. Dai cervelli contadini, urla, è già uscito qualche volta qualche cosa di assennato. Ma tu non sei un contadino, urla Fitzcarraldo di rimando, tu sei solo il miglior beone che abbia mai barcollato sulla terra di Dio. Un evviva per Huerequeque! Dà di piglio alla sua borraccia e ne prende un grande sorso.

Camisea, collina.

Centinaia di aguarunas si mettono in movimento come un sol uomo, gli argani cominciano a girare come mulini a vento posti orizzontalmente. I cavi si tendono uno dopo l’altro, s’irrigidiscono e gemono.

Pachitea, presso la nave.

La nave è sollevata obliquamente dalla massa dei tronchi di balsa, nella parte poppiera sembra quasi immersa del tutto. Su ambedue i lati sono sistemati dei puntelli. I cavi sono applicati in diversi punti sulle murate dello scafo, in un ben ordinato intreccio, il che consente di scaricare in avanti, verso la prua, il punto principale della forza traente. La polena amazzonica si drizza ora in alto, verticalmente.

Vediamo la prua da vicino. Tirata da forze titaniche, la chiglia preme contro lo scivolo, lubrificato con grasso e con sapone tenero. La pressione aumenta, l’intera nave geme nelle sue più profonde strutture. Huerequeque, come impazzito, continua a gettare acqua sopra le travi scivolose, ed ecco che ad un tratto, con uno scossone liberatore, la prua si mette a scorrere sulle travi. Huerequeque caccia un urlo. Funziona. Centimetro dopo centimetro, la chiglia avanza sullo scivolo. Gli indios sul pendio continuano a girare in circolo. Ogni dieci giri, la nave avanza di una spanna. La parte posteriore è ormai pericolosamente immersa nell’acqua. Dall’altra riva del Pachitea i cavi vengono allentati. Questo era il principio.

Abbiamo dimenticato qualcosa, urla Fitzcarraldo dal ponte. Che cosa? urla di rimando Huerequeque. Ora ci vuole un po’ di Caruso, ribatte Fitzcarraldo. Ed ecco attaccare un’aria dolce, melodiosa, a uno dalla gioia potrebbe mozzarsi il respiro.

In coperta, notte.

Vicino alla tavola della mensa, Fitzcarraldo e i suoi uomini hanno appeso delle amache, solo Huerequeque è seduto alla tavola di mogano, ormai impigrito e appesantito dal molto aguardiente. Ha un bicchiere davanti a sé, e continua a rimetterselo davanti, ma ogni volta il bicchiere scivola verso di lui. Lo ferma tutte le volte col petto nudo che tiene premuto contro l’orlo della tavola, non vuole capire che questa è inclinata da una parte. Dal modo in cui penzolano le amache, vediamo esattamente l’angolo d’incidenza sulla verticale. Gli uomini sono trasognati, Fitzcarraldo parla col suo pappagallo Bald Eagle, ma quello sta mangiandosi pazientemente una candela di cera e non vuole parlare. Jaime si fa sentire dalla sua amaca. Le sigarette se ne vanno troppo in fretta, dice, dobbiamo fare più economia, e anche il kerosene per le lampade, lo abbiamo quasi finito. Allora verranno i miei tedofori, i miei eserciti faranno luce, dice Wilbur, la cui amaca è tesa vicino al suo trono da barbiere. Proclameremo il Pachitea e l’Ucayali a regno degli aguarunas, e noi ci fermeremo qui. Wilbur, dice Fitzcarraldo con aria d’indulgenza, e aspira la sua sigaretta, la brace gli illumina il viso. Fitz? fa Wilbur. Staremo qui un bel po’ di tempo, dice Fitzcarraldo. Come procediamo, domanda a Jaime dopo una pausa. In una giornata buona, possiamo avanzare di dieci metri, dice Jaime, come pochi giorni fa, ma c’è sempre qualcosa che va per traverso. Oggi ad esempio non si è fatto un passo avanti, e ieri saremo andati avanti sì e no un braccio. Subentra un’altra pausa.

Dovremo costruirci una capanna, dice Fitzcarraldo, a lungo andare questo vivere di sghimbescio diventa ridicolo. Guarda Huerequeque che nel frattempo cerca di fermare il bicchiere col manico di un coltello, ma coltello e bicchiere scivolano ora insieme verso di lui. Dalla vicina foresta giungono le voci della notte. Buio fondo tutt’intorno.

Camisea, collina, giorno.

La nave è stata ormai trascinata su per la collina per un tratto pari alla sua lunghezza. Dalle murate sono stati tolti i puntelli e dietro sono state aggiunte delle lunghe travi che, strette da cavi, hanno la funzione di possenti leve. In aggiunta, alcuni argani tirano con lunghe catene, e il lavoro è in pieno svolgimento. È una scena impressionante vedere centinaia di indios che lavorano contemporaneamente ai verricelli e che trotterellano in cerchio come ebeti. Il ritmo ora si è consolidato, non è più lo scintillìo esasperante dei primi giorni. Ai margini della tagliata nella foresta le donne lavorano, hanno tutte i loro focherelli accesi. In tutto, gli aguarunas dovrebbero essere sui millecento.

Giù sul fiume sta succedendo qualche cosa, un gruppo abbastanza numeroso di indigeni vi si è radunato. Tra loro vediamo Fitzcarraldo e Jaime de Aguila. Dal nostro punto d’osservazione sentiamo giungere dei lamenti. Il gruppo più da vicino. Una dozzina di donne stanno rammollendo a bastonate, sopra tronchi d’albero scorzati, dei cespi d’una certa erba, riducendoli ad una poltiglia verde. Le circondano uomini armati di lancia, con i visi e le braccia dipinti di nero. Una donna è accovacciata per terra e oscilla stranamente col busto avanti e indietro cantando una nenia singolare. Sta avvenendo qualcosa fuori dell’ordinario. Anche il capo sta con gli uomini, lui pure dipinto di nero. Dalla collina, dove la maggior parte degli indios ha smesso il lavoro, arrivano altri gruppi di uomini. Wilbur si avvicina cautamente assieme al giovane che si chiama Mc Namara. La nave, che è avanzata impercettibilmente, ora è del tutto ferma. Jaime prende un po’ in disparte Fitzcarraldo, con prudenza. Non mi sento al sicuro, qui sta succedendo qualche cosa, ho un brutto presentimento. Nel novantasei è cominciata nell’identico modo. Sai che cosa stanno facendo le donne? No, dice Fitzcarraldo. È un veleno, un potentissimo veleno, certamente non roba per i polli, dice Jaime con voce strascicata. E gli uomini che si sono dipinti di nero. Cosa significa? domanda Fitzcarraldo. Significa che sono invisibili, e fanno questo quando vanno alla guerra, spiega Jaime. Solo la donna che canta è una faccenda che non riesco a inquadrare esattamente. Che cosa canta? domanda Fitzcarraldo, non faremmo meglio ad andare sulla nave e a caricare i fucili? No, dice Jaime, lo sai benissimo che non avremmo alcuna probabilità di cavarcela. Lasciami ascoltare. Che cosa canta, domanda di nuovo Fitzcarraldo. Canta, dice Jaime, di una dea della fecondità, c’è qualcosa che non funziona per qualche motivo, poiché sei una donna come me, poiché sei una donna come me, chiamo sempre il cibo. I miei piccoli bambini corrono felici da me, vieni anche tu come loro, caro cibo mio.

Tutt’a un tratto c’è dell’animazione nel gruppo. Fitzcarraldo si prepara già al peggio, ma ecco la cosa inaspettata. Le donne spargono il veleno nel fiume e gli uomini con la lancia balzano nelle piroghe, e adesso scopriamo anche noi lo scopo fin qui misterioso. Già dopo pochi secondi vengono alla superficie, colla pancia in su e in preda a forti convulsioni, dei grossi pesci drogati, che gli invisibili trafiggono subito con le lance. In pochi minuti vengono uccisi in questo modo parecchi pesci, grandi quasi come un uomo. Fitzcarraldo tira palesemente un profondo sospiro di sollievo.

Camisea, collina.

Non riusciamo a distinguere con sicurezza se sia giorno o notte, piove a cateratte come sinora non abbiamo mai visto. Lampi guizzano ininterrottamente, il tuono spacca la terra in due. L’acqua precipita dal cielo come in masse solide, opprime gli uomini, grava sulla foresta come un peso immane. In un attimo l’intera tagliata si è trasformata in un largo torrente di fango e di argilla rossiccia che precipita a cascata lungo il pendio. Vediamo come l’acqua scava subito solchi su solchi, come essa ribolle intorno allo scafo della nave, come si porta via il sostegno di travi e di tronchi.

Nell’inferno vediamo Fitzcarraldo e i suoi uomini che come fantasmi tentano di far uscire gli indios sotto la pioggia; questi sembrano essere restii e pieni di paura, almeno da quello che possiamo intravvedere tra gli scrosci. Il tuono rimbomba da far paura e i lampi sfolgorano orrendamente. Nel bagliore intermittente e sotto i rovesci riusciamo a intravvedere ancora un gruppo di aguarunas, che hanno messo in moto uno dei verricelli a fune, ma dopo pochi giri c’è un pauroso scossone e l’ancoraggio, scalzato dall’acqua e dagli scrosci di pioggia rossiccia, si disancora e schizza fuori dal fango. Urla, uomini che scivolano nel pantano, uno schianto di legni sopraffà il tuono, lo scafo della nave si stacca, incomincia a scivolare indietro, i puntelli saltano, acqua e fango zampillano, la nave si sposta indietro di parecchi metri lungo il pendio, poi, con un tremendo scossone, si blocca, facendo schizzare in avanti l’acqua che le scorre sotto, i cavi sprizzano acqua e si tendono orizzontalmente nell’aria. Urla di dolore, accorrere di uomini, è accaduta una disgrazia. Sotto la pioggia scrosciante scorgiamo dietro la nave due aguarunas rimasti incastrati tra i puntelli divelti, simili a uomini sepolti da un terremoto. Un tuono esplode, come una granata, poi tutto sfuma nei rovesci di pioggia come se si trattasse soltanto di una visione maligna.

Camisea, collina, mattino presto.

Una mattina piena di vapori, fresca, primitiva, gli uccelli cantano con una frenesia infernale. Sulla collina tutto è fermo, non si scorgono uomini, solo ai margini della tagliata esce fumo dalle capanne. Regna un senso di oppressione che contrasta col giubilo della foresta. Vicino alla nave scorgiamo un groviglio di travi, ma essa campeggia solida, ormai a buoni cento metri dal Pachitea, sulla salita della collina.

A bordo, cabina di Fitzcarraldo.

Nella cabina di Fitzcarraldo si è riunito attorno a lui il suo equipaggio, depresso, solo la porta è spalancata, e tutto sta di sghembo, ci si è ritrovati sopra un piano inclinato. Gli uomini stanno in piedi con uno sforzo curioso contro l’obliquità del loro mondo. Huerequeque tenta di diffondere un po’ di ottimismo con delle nuove proposte. Avvieremo le macchine, dice, che invece dell’elica faranno andare l’argano dell’ancora, e la nave salirà di forza propria su per la china. Poi tenderemo un cavo dalla nave al versante opposto, vi sistemeremo una gigantesca tinozza su rotaie e la riempiremo adagio adagio con l’acqua dell’Ucayali. Ne nascerà una controforza, e la nave non potrà più rinculare. E anzi… Abbiamo due morti, lo interrompe Fitzcarraldo. Volevo dire soltanto, dice Huerequeque dopo una pausa, che il contrappeso sul versante opposto potrebbe perfino trainare su la nostra nave. A prescindere dall’atmosfera di preoccupazione, intuiamo che non ha proprio tutti i torti, si tratta di proposte eccellenti, solo che in questo momento non entusiasmano nessuno.

Due morti, mormora tra sé Fitzcarraldo senza distogliersi da quel triste pensiero, se questo è il prezzo, non lo so. C’è qualcosa che non quadra, qui va tutto per traverso.

Dall’esterno sentiamo delle voci provenire dalle capanne, è chiaro che anche gli aguarunas tengono riunione, udiamo echi di una lite violenta, e Jaime de Aguila cerca di mettersi in ascolto per capire di che cosa si tratti.

Vediamo alcune centinaia di aguarunas radunati a una certa distanza, ai margini della tagliata. Urla furiose, gesticolazioni. I loro gesti hanno perso l’armonioso equilibrio.

A bordo, cassero, notte.

Le amache pesantemente cariche di uomini che dormono pendono di sghimbescio sul ponte. Respiro tranquillo dei dormienti, solo Huerequeque russa irregolarmente. Su per le scale risuonano dei passi, una figura si china sopra una delle amache. È Jaime. Sveglia con delicatezza Fitzcarraldo, che impiega qualche istante a orientarsi. Sono appena stato fuori, che tu lo creda o no, sono andati via tutti. Come? dice Fitzcarraldo svegliando così tutti gli altri, che cosa dici? Avevo uno strano presentimento, dice Jaime, e così sono uscito e non ti trovo anima viva. Nulla. Via tutti.

Vicino a Wilbur, che si è messo seduto sull’amaca, fa capolino da un’altra la testa del giovane indio. Solo Mc Namara, il mio aiutante, è rimasto qui con noi, dice Wilbur. Jaime si rivolge al giovane e parla per un momento sottovoce con lui. Quello risponde altrettanto sottovoce e con esitazione. Non ne sa niente, dice Jaime. Devo dire che ciò può significare che ci attaccheranno, può significare anche qualsiasi altra cosa, non ci vedo chiaro. È una faccenda misteriosa. Si diffonde un silenzio allarmato. Sommessi lamenti e pigolii nella foresta.

A bordo, cassero.

Una giornata coperta da scarse nubi, cade però una pioggerella uggiosa. La nave se ne sta sempre obliqua sul pendio. Le amache penzolano vuote e malinconiche nella brezza leggera. Appoggiati qua e là, alcuni fucili a portata di mano. L’equipaggio bighellona sfaccendato. Solo Huerequeque gioca contro se stesso a sapo, ma gioca così male, colpisce così poco, che segretamente bara da solo. Conta duemilaottocento punti complessivamente, ma tutti sanno che non erano neppure mille. Non hai niente di meglio da fare? lo aggredisce all’improvviso violentemente Fitzcarraldo, come un fulmine a ciel sereno. Notiamo che gli uomini si urtano reciprocamente, l’attesa snerva. Da quattro giorni non si fa che giocare a sapo. Sapo, sapo, sapo. Non lo sopporto più. Jaime de Aguila è rannicchiato sul tavolato della coperta e si cura coscienziosamente le unghie dei piedi con un cacciavite. Non parla. Wilbur e Mc Namara sembrano essere gli unici soddisfatti, mordono un frutto e ne sputano i semi, assorti nei loro pensieri.

Riva del Pachitea.

Fitzcarraldo, che non ce la faceva più a stare in coperta, è sceso sulla riva del fiume. Alle sue spalle, sotto la pioggia leggera, si stende ripida tra la foresta la tagliata deserta dal fondo fangoso e sdrucciolevole. La nave pende sul declivio. A destra e a sinistra ogni segno di vita è scomparso. La mucca zebù è legata ad un piuolo vicino alla riva, e fissa Fitzcarraldo con i suoi grandi occhi dolci. Egli l’accarezza sulla fronte fra le corna. Dovremo presto abbatterti, dice sommessamente.

Fitzcarraldo si porta nel punto dove si è formata una barena, è chiaro che il livello dell’acqua dev’essersi un po’ abbassato. Assorto nei suoi pensieri, guarda le lente acque del fiume che gli scorrono davanti di continuo, sempre eguali. La foresta vergine tace, cade una leggera pioggerella, il fiume scorre mestamente. Un gran numero di piccoli ragni, d’un color bruno quasi trasparente che li rende pressoché invisibili sulla sabbia, attirano l’attenzione di Fitzcarraldo. Sono dei velocisti dalle lunghe zampe e dai piccoli corpi, e ogni volta che Fitzcarraldo mette un piede davanti all’altro, si drizzano e corrono per un tratto. Tutta la sabbia ne è ricoperta, se ne stanno fermi oppure corrono. Appena Fitzcarraldo pesta violentemente col piede nella sabbia umida, tutti i rami, a centinaia, come se essi costituissero la pelle sottile e trasparente della sabbia stessa, corrono via veloci sulle loro lunghe zampe e si gettano nel fiume. Continuano la loro corsa sulla superficie dell’acqua, e questa li sostiene. Corrono sul fiume, come se non conoscessero la legge dell’immersione.

A bordo, cassero, notte.

Tutti gli uomini sono allineati contro il parapetto obliquo e fissano la notte, sfiniti, tesi e increduli. Sentiamo delle voci, molti suoni, un mormorio e dei rumori. Vediamo anche noi quello che vedono gli uomini. Lungo tutto il margine della tagliata ardono fuochi, si muovono ombre, risuonano richiami isolati.

Sono qui di nuovo, come se niente fosse, dice Fitzcarraldo trasognato. Non ci capisco più nulla, dice sottovoce Jaime de Aguila. Mi trovo davanti a un mistero.

Camisea, collina, giorno.

Il lavoro è ripreso a pieno ritmo, c’è un brulicare di uomini, i bracci piatti degli argani girano di continuo, i cavi cigolano, la nave ha un lieve gemito, ma tutto è stranamente tranquillo, il lavoro si svolge in un totale silenzio. Ad un tratto dal fumaiolo della nave esce come un colpo di tosse rumoroso, uno sbuffo di fumo, isolato, che si disperde, poi un secondo, e infine esce a folate un fumo denso, le macchine sono avviate, cominciano a pulsare e a brontolare regolarmente.

In coperta, prua.

Fitzcarraldo e Huerequeque sono accanto all’argano dell’ancora. Arriva anche il meccanico. Vediamo l’argano mettersi lentamente in movimento, cominciare ad avvolgere piano piano la pesante catena sul tamburo. La catena è tutta tesa in avanti e a distanza di circa quaranta metri c’è l’ancora incastrata tra le radici di un tronco sulla collina. La nave tira se stessa su per il pendio, con la propria forza, col proprio argano. Funziona, dice con orgoglio Huerequeque. E alleggerisce il lavoro dei verricelli, dice il meccanico.

Camisea, collina, come sopra.

Uno spettacolo strano, la tagliata, la foresta vergine, i fuochi fumanti, il formicolìo del lavoro: e lì in mezzo scivola lentamente in su sopra grossi tronchi la nave gigantesca, che lavora a tutto vapore con le proprie forze. Il battito delle macchine si tramuta in una musica grandiosa.

Camisea, contropendio dell’Ucayali.

Sul contropendio, c’è una enorme tinozza di metallo improvvisata, grande come un vagone ferroviario aperto in alto, posato su tronchi rotondi, che fungono da rulli e quindi da ruote. L’impressione di un vagone è rafforzata dal fatto che i rulli, a loro volta, posano su rotaie ferroviarie, che scendono lungo il declivio per due lunghezze. La tinozza è fissata ad un robusto cavo d’acciaio, che scavalca la sommità del colle di Camisea passando sopra un grosso tamburo saldamente fissato, e scendendo poi dall’altra parte fino alla nave.

Una serpentina di centinaia di aguarunas sta passandosi di mano in mano secchi di corteccia, riempiti d’acqua, la fila degli uomini scende in brevi zig-zag per la tagliata fin giù alla riva dell’Ucayali. La tinozza viene riempita a poco a poco d’acqua, possiamo arguire che ci vorranno giorni e giorni prima che l’operazione sia compiuta.

Fitzcarraldo e Huerequeque camminano scivolando lungo la fila degli aguarunas. Huerequeque è visibilmente orgoglioso, l’invenzione è sua, l’idea è stata sua. Gli indios si sono dipinti il viso di achiote e urucuri a larghe strisce ocra rossicce. Mentre percorriamo la fila assieme a Fitzcarraldo, ci colpisce il fatto che gli indios, passandosi i secchi, evitano tutti il suo sguardo.

Camisea, capanna di Fitzcarraldo, sera.

Una capanna nuova è stata eretta ai margini della tagliata, vediamo dai capi di vestiario, da un piccolo tavolo di legno con delle carte dettagliate della zona e dalle pentole di latta, che è stata costruita per Fitzcarraldo e i suoi uomini; per il resto, per il focolare e per le amache appese, assomiglia alla capanna del capo. Fitzcarraldo è accoccolato al suolo, vicino al fuoco, assieme ai suoi uomini, che in tutto questo tempo si sono ormai abituati a quella posizione degli indios. Hanno ospite il capo, e tra loro c’è anche il ragazzo di nome Mc Namara. Sullo sfondo, guardando oltre il ripiano, scorgiamo la nave sulla collina, irretita di cavi, è già parecchio in su, devono essere trascorse settimane di lavoro. Più avanti, all’esterno del ripiano della capanna, nel punto dove esso, per l’inclinazione della collina, tocca quasi il terreno, sono appoggiati alcuni indios che gettano dentro sguardi silenziosi. Wilbur accende una lampada a petrolio e la appende. Sulla scena cala lentamente la notte. Gli uomini mangiano chicchi di yams e scimmia arrosto con le dita, come gli indios. Le scimmie hanno un po’ l’aspetto di neonati nudi, dalle membra delicate, sfigurati in atteggiamenti dolorosi.

Come mai lo fanno, domanda Fitzcarraldo interrompendo il silenzio, come mai continuano a lavorare? Non lo so, dice Jaime, possiamo solo tirare a indovinare. Non riesco a scacciare il pensiero che stiamo consumando troppo tempo per tutto questo, sono trascorsi ormai quattro mesi. Può darsi che riusciamo a portare la nave al di là del colle, ma forse con troppi mesi di ritardo, quando la nostra opzione sarà scaduta, tutto sarà stato inutile e per finire in gloria questi qui avranno fatto una pallina delle nostre teste.

Non lo credo, dice Fitzcarraldo, credo che siamo al sicuro. In che modo, domanda Huerequeque. Ho un indizio sicuro, forse mi sbaglio, dice Fitzcarraldo. Fate attenzione, ma guardate come se niente fosse dove guardo io. Vedete le mani lì sulla ringhiera?

Seguiamo con lo sguardo gli sguardi prudenti. Fuori è sopravvenuta intanto notte fonda e sulla ringhiera della piattaforma di corteccia scorgiamo molte mani, illuminate ancora dalla lampada a petrolio, i visi dei relativi aguarunas ci fissano immoti dall’oscurità, nelle tenebre della notte possiamo soltanto supporre dove sono i loro occhi, lì non c’è che buio pesto.

Fitzcarraldo punta lo sguardo diritto là dove dovrebbero esserci gli occhi. Immediatamente, le mani sulla ringhiera si ritirano nel buio, solo una mano di indio vi rimane ancora appoggiata, all’estrema sinistra. Fitzcarraldo dirige lo sguardo su quella mano, e lo fissa nel punto dove dovrebbe trovarsi il viso. La mano non si muove. Fitzcarraldo continua imperterrito a fissare. Infine, dopo una lunga esitazione, un dito si muove e poi anche la mano scivola via con somma cautela e sparisce nel buio.

Camisea, collina, giorno.

Come una fedele accompagnatrice, il giorno ha portato con sé anche la pioggia dirotta, ma l’atmosfera è di festa. LA NAVE HA RAGGIUNTO LA SOMMITA’ DEL COLLE. Uno spettacolo inconsueto, lassù lungo la linea dell’orizzonte più alto delle colline si staglia il grande piroscafo sporco di fango e saldamente imbragato, e su ambedue i versanti scende la tagliata dalla foresta fino al Pachitea e all’Ucayali, la rossa argilla non è che un pantano senza fondo. Centinaia di aguarunas si affollano intorno allo scafo, presi anch’essi da una gioiosa eccitazione. Wilbur ha piantato il suo seggiolone da barbiere sul colmo del colle in mezzo al fango e alla pioggia, e vi troneggia con accanto il suo aiutante Mc Namara. Qui resterò, annuncia alla folla tumultuante, da quassù regnerò sul regno unito degli aguarunas. Fitzcarraldo è seduto a terra in mezzo al pantano rossiccio, e un aguaruna sta fasciandogli, con una liana sottile, un piede gonfio al di sopra del malleolo. A quanto sembra, è leggermente bevuto e canta. Zanzare, formiche rosse e micosi non ci fanno nulla, non ci faranno nulla, canta, po-ortiamo la bambola al di là del monte. Jaime de Aguila gli passa vicino e gli posa la mano fangosa sulla spalla. E ci mettessimo anche due anni, e anche se tutto sarà stato inutile, lo faremo egualmente per il gusto di farlo.

Non lontano da loro, dove un gruppo di aguarunas al margine della foresta sta aprendo a colpi di accetta un tronco d’albero marcescente cavandone delle grosse larve bianchicce per mangiarsele subito, Huerequeque è sdraiato per terra sotto la pioggia scrosciante, ubriaco fino all’incoscienza, e stende sopra di sé un lenzuolo inzuppato d’acqua come se si coricasse nel letto di casa sua. Il meccanico tenta di rimetterlo sulle gambe, ma Huerequeque si gira di malumore su di un fianco e si avvolge nel fango nel suo lenzuolo. Stan è andato a prendersi le sue palline e le fa ballare, da molto tempo non lo vedevamo farlo, è assorto nella sua arte. La pioggia cessa quasi di colpo e si allontana come una parete a strisce scure. Fa capolino un po’ di sole, e sopra gli uomini in festa, e sopra la strana, assurda nave sul colle, si forma un grande, splendido arcobaleno. Le colline lontane, soffocate dalla foresta, spiccano contro le nubi biancastre, sprofondando direttamente nel mistero.

Camisea, versante dell’Ucayali.

Un giorno normale, di lavoro intenso, colla sola differenza che ora la prua è inclinata in avanti, in direzione dell’Ucayali, e che tutti gli argani sono in funzione dietro la nave. Ora devono essere frenati colla stessa forza con cui prima venivano fatti girare. Tutti gli indios si puntellano contro le crociere di travi e girano ora in cerchio in senso contrario. La nave ha già superato circa un terzo del percorso in discesa, ma è evidentemente arrivata ad un punto difficile del terreno, dove si sta superando con una specie di ponte fatto di tronchi pesanti e di puntelli una fenditura larga parecchi metri.

Fitzcarraldo è sul posto assieme a parecchi uomini e osserva, stando per metà sotto il ventre della nave, il movimento delle masse. Vediamo come il corpo colossale della nave avanzi con un cupo sfregamento palmo a palmo. Non l’avrei immaginato, dice Fitzcarraldo, ma in discesa ci sono le stesse difficoltà che in salita. Ma, dice Huerequeque, per lo meno si va più in fretta, ci siamo fatti la nostra esperienza.

Riva dell’Ucayali.

Piove di nuovo, ma per poco. La nave è ancorata sopra uno scivolo e con la prua tocca quasi le acque chiare e fangose dell’Ucayali. Il fiume è in piena e corre ad una velocità impressionante portando con sé foglie e legname, segno di livello in rapido aumento. Millecento aguarunas scendono dal colle in strana processione, trascinando verso l’Ucayali le loro canoe in un punto dove il terreno è un po’ più piatto di quello dalla parte del Pachitea.

Fitzcarraldo armato di accetta è accanto ad un cavo fortemente teso, e dà un segnale ai suoi uomini, a Wilbur, a Stan, a Jaime, agli altri. Sibilano accette e machetes, si odono rumori secchi di tagli, uno dietro l’altro, tac, tac-tac, tac-tac, e con un TAC formidabile Fitzcarraldo taglia l’ultimo cavo teso allo spasimo. Il corpo della nave si mette lentamente in movimento con uno scricchiolìo sordo e pesante, acquista a poco a poco velocità e alla fine scivola con tutto l’impeto del suo peso nelle acque dell’Ucayali; la chiglia si tuffa profondamente nell’acqua e un attimo dopo la nave si raddrizza schiumeggiando sulle acque rossicce. Questo è il suo vero varo, si levano grida di giubilo, Huerequeque spara per la gioia col suo fucile, ma gli spari si perdono tra le urla e i canti. La nave, che con la prua è rimasta al guinzaglio delle gomene, accosta leggermente alla riva con la finestra e viene immediatamente ancorata dietro e davanti dagli uomini di Fitzcarraldo. La prua è rivolta contro la corrente.

Fitzcarraldo, orgoglioso come un padre per la nascita del primogenito, si accende un grosso sigaro, l’ultimo, deve constatare, mesce dell’aguardiente in enormi quantità e ne prende lui stesso una ciotola piena. Così non lo abbiamo mai visto, così fuori di sé, così totalmente abbandonato alla gioia del momento. Ed è un piacere vedere come sa essere soddisfatto quest’uomo. Tre settimane prima, urla Huerequeque, tre settimane prima della scadenza del termine. Sì, dice Fitzcarraldo, ce l’abbiamo fatta, e attenzione, ora arriva la parte ufficiale.

Fa una pausa densa di significato. Ci occorre un posto di trasbordo. Poi scoppia a ridere. Qui fondo una città! Svelti, un martello! e piuoli e corde!

Si porta a Fitzcarraldo quanto ordinato. Egli corre come un pazzo per la spianata formata dalla riva in lieve pendenza, pianta piuoli, tira corde, caccia urla di gioia selvaggia e fremente. Qui sorgerà il mercato, urla, e qui ci verrà l’ufficio municipale, la via principale correrà lì, e qui costruirò il mio palazzo, e lì ci verrà un piccolo teatro, e qui… E come si chiamerà, la città? domanda Wilbur intimorito dalla soggezione. Fitzcarraldo si blocca di colpo nella sua furia creatrice, noi ci avviciniamo di corsa al suo viso, ora ci sta davanti enorme, segnato dall’entusiasmo, raggiante di felicità. Fitzcarraldo assume un’espressione estremamente astuta. FITZCARRALDO, dice Fitzcarraldo. Scoppia una gioia indescrivibile e, come se avessero capito, anche gli aguarunas si uniscono cautamente al giubilo. Wilbur cade in un’estasi erotica. Ti intreccerò un’amaca di serpenti vivi, canta.

Riva dell’Ucayali, verso sera.

I millecento aguarunas e Fitzcarraldo con i suoi uomini sono accovacciati gli uni accanto agli altri sulla riva dell’Ucayali, le cui acque nel frattempo sembra si siano alzate ancora di un metro. Ma la nave è assicurata saldamente alla riva coi cavi. Fitzcarraldo è già discretamente ubriaco, si avvicina al capo barcollando sulle ginocchia molli, e vuole stringergli la mano, ma quello gliela tocca soltanto leggermente colla punta delle dita. Gli indios sono ora stranamente silenziosi, sembrano chiusi in se stessi, si guardano dentro. Su tutto echeggia la voce di Caruso. Sulla scena cala la penombra della sera.

Cabina di Fitzcarraldo, mattino presto.

Fitzcarraldo è a letto e sta smaltendo la sbornia. Dall’esterno sentiamo le voci della foresta che annunciano un fresco mattino. L’acqua del fiume rumoreggia e batte contro la murata della nave. Ma lo sciabordìo è stranamente forte e le voci degli uccelli risuonano stranamente vuote, come se avessero un’eco. La nave dondola leggermente, poi comincia a oscillare. Il letto di Fitzcarraldo comincia ad oscillare anch’esso, tanto che il suo corpo rotola stancamente qua e là. Il letto beccheggia su e giù come sull’oceano col mare grosso. Fitzcarraldo si sveglia, verde in viso, segnato ancora dalla sbornia. Si prende fra le mani la testa che gli ronza, la cabina gira su se stessa, il pavimento è malsicuro e traballa, il letto sbatte qua e là. Fitzcarraldo sta per vomitare, ma acquistando di colpo lucidità si accorge che non è la testa che gli gira, è la cabina che ondeggia, TUTTA LA NAVE ONDEGGIA. Fitzcarraldo balza dal letto.

Ucayali, in coperta.

Fitzcarraldo esce sparato sul ponte, vestito dei soli pantaloni. Ci sono alcuni aguarunas accoccolati a bordo, ma non è questo il punto. LA NAVE VA ALLA DERIVA SENZA GOVERNO, sull’Ucayali, e fra un istante, ancora peggio, ancora più spaventoso, non c’è alcun dubbio possibile: la nave sta entrando alla deriva nel Pongo das Mortes. Per un lungo momento Fitzcarraldo fissa incredulo e sbalordito i ripidi fianchi della montagna a destra e a sinistra, che più avanti si avvicinano in una stretta fra le rocce.

In quell’istante, anche Jaime esce di furia in coperta. Il Pongo, urla Fitzcarraldo con voce quasi inumana, stiamo infilandoci nel Pongo! Gli indios se ne stanno accucciati immobili, guardando profondamente dentro di sé, gli occhi spalancati e vuoti come il mare. La nave sussulta.

Sala macchine.

Fitzcarraldo e Jaime scendono in preda al panico nella sala macchine, devono cercare colle mani degli appigli, perché vengono gettati qua e là dalle oscillazioni, in più il pavimento è scivoloso per l’olio. Jaime cade, si rimette in piedi. Prima le valvole! Aprire le valvole! urla. Dove, urla disperato Fitzcarraldo. In quel momento il macchinista scende a sdruccioloni la stretta scaletta di ferro. Impartisce subito istruzioni: aprire la caldaia, accensione, svelti!

Pongo das Mortes.

Il Pongo è in piena, è ancora più spaventoso di quanto lo ricordavamo. Infuria, mugghia e rimbomba, ed ecco che già arriva la nave alla deriva, a velocità paurosa, sballottata dalle onde, presa nei vortici che la fanno girare su se stessa, senza governo, trascinata da forze immani. Ondate gigantesche di schiuma bianca si accavallano, la nave viene scagliata in alto per poi precipitare in un abisso senza fondo.

Ed ecco, a un tratto, uscire del fumo dal fumaiolo, dapprima timidamente, ma poi più denso e pieno. Spinto qua e là il fumaiolo disegna bizzarre linee di fumo nella gola. Ma è troppo tardi, nessuna forza al mondo potrebbe ora fermare la discesa all’inferno della Molly Aida. Ad una curva stretta, la nave si dirige con uno sciabordio spaventoso, orribile, tragico, contro una parete di roccia, una parte delle sovrastrutture più alte viene subito strappata via, poi segue uno schianto, un cupo fragore, le forze immani scaraventano la nave attraverso l’inferno di schiuma bianca. Si sta svolgendo una tragedia.

Pongo das Mortes, a valle.

Davanti a noi vediamo il Pongo impetuoso, le scoscese pareti di roccia avvolte in alto dalla nebbia. E ad un tratto, esso sputa fuori la nave, inclinata sull’acqua, eruttante fumo denso. Con le strutture superiori fatte a pezzi sul davanti, ma ancora galleggiante in qualche modo. Come sia stato possibile uscirne ancora sani e salvi, ci sembra un miracolo. Dietro la nave il Pongo bramisce come centomila cervi in amore, nell’orgoglio della propria potenza.

E come la nave muove verso di noi dopo aver superato l’inferno, abbiamo il tempo di farci venire un orribile pensiero. Fitzcarraldo è sì uscito dal Pongo inferiore, ma tutto è stato inutile. SÌ, TUTTO È STATO INUTILE. E: PERCHÉ POI? come è potuto accadere, perché la nave è andata alla deriva? Il sogno è finito, tutto è stato vano. In una sola notte sono stati annientati sette mesi di fatiche e di sforzi, tutto distrutto. Fitzcarraldo finisce di nuovo qui, all’uscita del Pongo das Mortes.

A bordo, a valle del Pongo das Mortes.

Dall’alto penzolano sul cassero parti del ponte superiore, è come se ci fosse stata una battaglia. Fitzcarraldo è come svagato, non si è ancora reso conto del tutto, il colpo della disgrazia è stato troppo forte. Jaime, che perde sangue dalla bocca (deve avere sbattuto da qualche parte), interroga gli indios che sono a bordo, sono solo quattro in tutto, che riferiscono animatamente con visi distesi, felici. Anzi, sembrano addirittura provare sollievo, a poco a poco si fanno sempre più lieti. Adesso mettetevi tutti ben seduti, dice Jaime. Sapete che cosa dicono questi qui? Fitzcarraldo, tienti saldo. Fa una pausa, tanto assurdo gli sembra ciò che deve dire. Dicono che sono stati loro, la notte scorsa, a disormeggiare la nave, perché potessimo andare per tutta la notte alla deriva giù per il fiume, e dicono che lo hanno fatto apposta. Dicono che lo hanno sempre saputo che la nostra nave, il veicolo divino, è stato trasportato al di là della montagna per poter navigare giù per le rapide. Era necessario, dicono, avevano aspettato l’evento sin dai tempi dei loro padri, era necessario per placare gli spiriti maligni delle rapide.

Gli indios fanno cenni di assenso col capo. Sono sciolti e felici, cominciano a cantare la loro nenia.

La nave zoppica lentamente in direzione della riva, dove scorgiamo a distanza lo stabilimento di don Aquilino.

Lo stabilimento di don Aquilino.

Fitzcarraldo e don Aquilino sono seduti sulla veranda. Fitzcarraldo è silenzioso, quasi catatonico. Don Aquilino si sforza di distrarre il suo ospite dai pensieri più neri, lo fa con discrezione e con una certa sensibilità. Apre una bottiglia di champagne. Anzitutto bisogna dare una poppata, dice, se l’è proprio meritato. Fitzcarraldo tace. Guardi qui, davanti alla casa, tutta la strada fin giù all’Ucayali, sono tutte bottiglie di champagne, qui le occasioni per far festa non mancano.

Anche noi vediamo la strada che porta al fiume, che è effettivamente lastricata con bottiglie di champagne, nel senso che le bottiglie vuote sono state infilate nella fanghiglia in modo che i loro fondi formino una pavimentazione. La nave di Fitzcarraldo è attraccata alla riva dell’Ucayali, da lontano riconosciamo l’equipaggio occupato a togliere le sovrastrutture.

Al Pongo das Mortes, dice don Aquilino levando il bicchiere. Fitzcarraldo, muto, alza il suo e lo vuota d’un colpo.

Cosa farà adesso? chiede don Aquilino. Silenzio, Fitzcarraldo alza le spalle. Sa, dice don Aquilino, glielo chiedo perché la Sua nave mi interessa, per Lei ormai non ha più alcuna utilità, ma io potrei usarla benissimo. L’impresa qui si è espansa notevolmente, negli ultimi tempi. Lo scafo e le macchine hanno superato molto bene il Pongo e in una settimana le sovrastrutture dovrebbero essere di nuovo a posto. Le assicuro che non intendo sfruttare la Sua non certo felice situazione… Ma Fitzcarraldo non reagisce, i suoi pensieri sono molto lontani, là dove regna solo la malinconia. Don Aquilino si sente impotente nei riguardi dell’ospite e della sua infelicità. Fa un tentativo per dirottare il discorso su temi un po’ più allegri.

Ho avuto notizia da Manaus di una compagnia d’opera europea che è lì in tournée, forse potrebbe andarci, voglio dire per tirarsi un po’ su. Fanno un compositore tedesco sensazionale, uno dei nuovi, Federico…, no Ricardo, come diavolo si chiama. Ricardo Wagner, mi pare, e l’opera si intitola Walchiria, è una di quelle grasse dee teutoniche, dev’essere tutto abbastanza teutonico. D’improvviso la vita ritorna in Fitzcarraldo, prima negli occhi, poi si mette a sedere diritto. Wagner, dice, davvero, quello che ha scritto il Parsifal? Dovrebbe essere proprio lui, conferma don Aquilino. E dica, fa Fitzcarraldo, quella faccenda della nave, parlava sul serio? Un’idea improvvisa lo ha colpito, ha preso fuoco, il fuoco si è impadronito nuovamente di lui.

Ucayali, nei pressi dello stabilimento di don Aquilino.

Don Aquilino e Fitzcarraldo scendono lungo la strada lastricata di bottiglie di champagne francese fino all’approdo della Molly Aida. Fitzcarraldo è allegro, sprizza energia e ha in mano un fascio di banconote. Arrivato alla nave, chiama a raccolta tutto l’equipaggio. Ora possiamo vedere meglio i danni del ponte superiore; nessuna struttura essenziale sembra seriamente compromessa, per quanto la nave abbia un aspetto piuttosto malconcio.

Amici, dice Fitzcarraldo ai suoi uomini che, sorpresi dal suo umore esuberante, si sono raccolti intorno a lui, voglio presentarvi il nuovo proprietario della Molly Aida, don Aquilino. Ho però posto la clausola di poter disporre della nave ancora per due settimane. Faremo delle riparazioni provvisorie. Jaime, tu vai a Manaus, ti prendi una barca e tutti questi soldi, e mi porti un frac, il sigaro più grosso del mondo e una poltrona di velluto del teatro. Ho promesso qualcosa a un maiale domestico che adora Caruso. Sì, dice Jaime, e fa una faccia molto misteriosa: E POI

Ucayali, punto di attracco.

È mattino presto, uno di quei mattini spettacolari che divampano di fiamme rosseggianti sopra la foresta vergine. Il fiume scorre silenzioso. Noi seguiamo la corrente con lo sguardo. D’improvviso, dietro la prima ansa dell’Ucayali, spuntano numerosi peke-peke, una piccola flotta di sei, otto imbarcazioni che, formando un ampio fronte, risalgono il fiume brontolando.

Fitzcarraldo si trova vicino all’attracco della Molly Aida, riparata alla bell’e meglio, dev’essere certo passata una settimana. Fitzcarraldo aguzza lo sguardo e riconosce Jaime sulla prima imbarcazione che fa dei cenni; Fitzcarraldo tira un gran sospiro: eccoli che arrivano.

I battelli attraccano e già le persone scendono a terra, stanchissime ma anche eccitate dall’inconsueto viaggio sul fiume: musicisti, cantanti, l’INTERA ORCHESTRA.

Faremo il nostro ingresso a Iquitos, ci porteremo la Grande Opera, grida Fitzcarraldo, PER UNA VOLTA NELLA MIA VITA. E già scompaiono i suoni della foresta, i rumori delle imbarcazioni, i discorsi della gente. Possente attacca l’ouverture della Walchiria, la musica investe tutto, il paesaggio, i cuori.

Vediamo Fitzcarraldo che stringe la mano al direttore, che aiuta le cantanti, robuste creature germaniche, a sbarcare; vediamo Jaime che gli consegna un sigaro di enormi dimensioni, una poltrona da teatro e un frac: e il suono si gonfia, la musica si espande e abbraccia ogni cosa. Un piccolo, grasso contrabbassista italiano ha lasciato cadere in acqua il suo strumento, dev’essere accaduto mentre lo scaricava. Panciuto, il contrabbasso si allontana sulla corrente dell’Ucayali. Il piccolo italiano singhiozza seguendolo con lo sguardo, e non c’è modo di consolarlo.

Ucayali, confluenza col Rio delle Amazzoni.

La Molly Aida sta viaggiando a tutto vapore, scende lungo l’Ucayali attraverso la foresta passandoci davanti e finisce dritta nell’immenso Rio delle Amazzoni. Descrivendo un’ampia curva, si gira controcorrente in direzione di Iquitos. Tutta la scena ha qualcosa di solenne, di una patetica grandezza. La musica aumenta ancora di volume, inizia il canto, e vediamo che l’intera piattaforma superiore è occupata dall’orchestra, ci sono i cantanti e le cantanti con elmo, lancia e corazza, possenti divinità germaniche, e cantano. Hanno montano una foresta di cartapesta, le loro quinte e il bosco finto scorrono davanti alla foresta vera. Che visione!

A bordo.

Fitzcarraldo, in frac e sparato, è semidisteso su un’amaca e fuma IL PIÙ GROSSO SIGARO DEL MONDO, vicino c’è la poltrona di velluto, vuota, del Teatro Amazonas di Manaus. Accanto a lui, Wilbur siede sul suo trono da barbiere, con gli occhi chiusi. E l’orchestra suona la Walchiria.

Iquitos.

La scarpata del fiume sembra un alveare in piena eccitazione, una folla immensa si sta raccogliendo, la notizia si è diffusa come un fulmine: Fitzcarraldo sta tornando. Ma sembra sia accaduto un miracolo: Fitzcarraldo, scomparso da otto mesi, sparito risalendo il fiume, ritorna ora dalla direzione opposta! Com’è possibile? Non può essere, uno che ha risalito il fiume DEVE TORNARE INDIETRO RIDISCENDENDOLO! Un miracolo, è accaduto qualcosa d’incomprensibile. A migliaia, eccitati, corrono verso la riva, nereggiante di folla.

Riconosciamo Molly, che arriva di corsa accompagnata da alcune delle sue ragazze. Come è felice! Fitzcarraldo è tornato. E c’è anche Bronski, pallido e silenzioso, che fissa dritto davanti a sé verso il fiume. Portata dal vento arriva la musica, la Walchiria.

Rio delle Amazzoni.

Vediamo la Molly Aida ancora a una certa distanza avanzare superba lungo la sua rotta controcorrente, nel trionfo finale.

A bordo.

La musica suona, cresce ancora una volta in un giubilo possente e doloroso. Vediamo Fitzcarraldo sdraiato nel suo frac, col più grosso sigaro del mondo. Fa il suo ingresso a Iquitos come un vero re, per una volta nella vita ha portato la Grande Opera in questa città. Ed ecco, all’improvviso, una voce gracchiante sopra di lui sovrasta la musica. Gli uccelli sono molto furbi, dice la voce, ma non sanno parlare. Fitzcarraldo si gira di scatto. Sopra di lui, sulle impalcature della sopracoperta, è appollaiato il suo pappagallo, quasi spennato, col culo calvo, ce l’eravamo quasi dimenticato non avendolo più visto da un pezzo. Guarda in giù verso Fitzcarraldo con la testa storta. Piccolo bastardo, dice Fitzcarraldo, eccoti qui di nuovo. Fa un ghigno e gli viene in mente qualcosa di astuto. Adesso è il momento di farti imparare una nuova frase: AL DI LÀ DELL’EQUATORE NON ESISTE IL PECCATO, sillaba rivolto al volatile.

Si profila la riva, la gente corre eccitata cercando di tenere il passo con la nave. Compaiono le imbarcazioni, le capanne, la città. La musica della Walchiria sovrasta tutto. Fitzcarraldo butta fuori una nuvola di fumo. Sta facendo il suo ingresso a Iquitos, un ingresso da re, e porta con sé la Grande Opera.

E QUESTO LO RENDE FELICE.