Api e farfalle trovano di che nutrirsi anche in posti insoliti. Dato che bevono acqua ricca di sostanze nutritive, si posano spesso sulle pozze d’acqua piovana. Come prova la foto di un ecologo ricercatore a Puerto Rico, si posano addirittura sulla testa dei coccodrilli per berne le lacrime salate.
Martin, l’amico di gioventù, è morto e Tom, la donna che si ostina a portare un nome da uomo, è seduta perplessa davanti al computer e prenota una vacanza in un villaggio con l’acquascivolo in Turchia. Le vacanze autunnali sono alle porte. Tra otto settimane i bambini non ricorderanno più che stasera Tom ha pianto un po’ e ha nascosto il viso nella spalla di papà. Figuriamoci poi se accetterebbero questa circostanza un po’ spiacevole ma molto indietro nel tempo, come spiegazione del fatto che non li portano agli acquascivolo più sgargianti e originali, dopo che al buffet della colazione, con le dita sporche di cioccolata, hanno ribadito che durante le ferie non si cura l’alimentazione.
Se fosse stato un incidente, una morte improvvisa, Tom non si sarebbe districata tra tutte le offerte, cliccando da una all’altra: bungalow con due camere da letto, centro benessere, piscina coperta, all inclusive con o senza vino durante i pasti, volo diretto oppure no. Ma la consapevolezza che Martin sarebbe morto si era insinuata da mesi nella coscienza degli amici come melma densa. Ma morirà, no? Già a Pasqua Tom se l’era sentito chiedere da Judith, che lo conosceva da altrettanto tempo e negli ultimi anni aveva avuto altrettante difficoltà a stargli accanto. Tipico di Judith: distruggere le speranze pietose degli altri per ricavare dal loro spavento una perversa consolazione. Tom, che ha una sorella che è pur sempre un medico, anche se non è un’oncologa, le aveva fatto uno stizzito discorso infarcito di termini specialistici che sosteneva il contrario: operazione, nuovi metodi, con la chemio oggi si è molto più avanti rispetto a un paio di anni fa. Tuttavia il fatto che quel giorno Judith – che di solito provoca Tom appena può – non l’avesse contraddetta, la diceva lunga.
E adesso Martin è morto, è sdraiato da qualche parte, freddo e non respira più, e di questo si prende solo atto, con rammarico, sgomenti ma non scioccati. Sarebbe potuto morire già ieri oppure avrebbe potuto lottare ancora per qualche ora. Adesso, in questo momento, lotterebbe, anche se Tom non riesce a immaginare come sarebbe questa lotta. Forse molto più tranquilla del verbo che suggerisce l’azione. Oppure una volta arrivati alla fine, si lotta di più per sfuggire alla vita? Un’ora e mezza più tardi e il giorno della morte di Martin sarebbe stato l’indomani. Invece è questo il giorno che sta tra ieri e domani, come un chiavistello indistruttibile. Sarà per sempre l’ultimo di Martin. Per sempre? Fino a che vivrà qualcuno che si ricorderà di lui. A Tom questi giganteschi salti mentali nel futuro fanno girare la testa.
Adesso ha trovato una ruota panoramica decorata con ghirlande di luci lungo i raggi, vecchio stile, come quelle della sua infanzia. Non è possibile ingrandire l’immagine ma nella descrizione c’è scritto che il Clubhotel dispone di un luna park gratuito. Al più piccolo potrebbe ancora piacere: un trenino a forma di bruco, una giostra con i seggiolini volanti e quella ridicola ruota panoramica, una ruota per nanerottoli. Quand’erano bambini, Judith, Martin e lei, indossavano dei cappelli di lana lavorati ai ferri o all’uncinetto dalle loro madri e nonne. All’incirca dei colori di quel luna park turco. Tom lo interpreta come un segno e prenota il Clubhotel anche se ha quattrocento posti letto.
Jonas e Karo questa volta hanno una loro valigia perché, per oscuri motivi, sono stati portati a casa di Tom e Georg la mattina stessa della partenza. Tom sfrutta la mezz’ora di anticipo a disposizione che questa volta la loro madre è riuscita a rispettare, come segue: chiede a suo marito di giocare con i bambini un paio di partite a Famiglie, mentre lei si ritira in camera da letto con le valigie. All’obiezione di Georg che non bisognerebbe fare le cose all’ultimo minuto, Tom risponde con una smorfia fallo-e-basta-per-favore. Ma non gli spiega nei dettagli cosa ha intenzione di fare, perché Georg le ripeterebbe che è sempre più co-dipendente. Se dopo le vacanze dovesse ricevere nuove accuse in merito – cosa che Tom si aspetta di certo – sarà preparata. E allora Georg sarà contento della sua co-dipendenza. In poche mosse Tom vuota il contenuto delle valigie sul letto: pantaloni, magliette, vestiti, biancheria, calzini, calze e costumi da bagno e li sistema come sul bancone di un negozio, in ordine per capo. Estrae, senza curiosare, le letterine, una blu e una rosa, che la madre ha infilato nella valigia dei bambini. Non è facile, le buste sono aperte, ma tanto Tom immagina bene la sviolinata di nontiscordardimé. Ha avuto già occasione di leggere frasi simili sui biglietti di auguri per i compleanni, sulle cartoline che spesso i bambini lasciano in giro, in quanto bambini. Con il cellulare Tom fotografa i vestiti sconosciuti; quella è l’unica possibilità di provare più tardi che nel periodo delle vacanze niente è andato perduto o è rimasto a casa loro. Da anni Tom lotta in silenzio per difendersi dall’ex moglie di Georg e dalle sue lamentele tanto meschine quanto numerose. A quanto pare manca sempre qualcosa, si rammarica sempre per la scomparsa di un regalo nuovo di pacca, di un paio di scarpe particolari che si ostina a credere che siano rimaste a casa di Georg e Tom. A dar retta all’ex moglie, a casa loro le scatole portapane se le mangiano, impanate, grigliate oppure a scaglie nell’insalata, perché a quanto pare spariscono a dozzine, anche se i bambini ne hanno una quando arrivano ogni secondo lunedì del mese e una quando se ne vanno il lunedì dopo. Una volta Tom e Georg hanno pensato di comprare da Aldi venti di queste scatole di plastica e di spedirgliele per posta, con tanti saluti, una piccola scorta. Hanno riso molto – la coppia felice – e a maggior ragione ci hanno bevuto sopra. Poi Tom è scoppiata a piangere e ha domandato a Georg quando l’ex moglie avrebbe smesso di gettarle fango addosso.
Gli oggetti più importanti dei portapane dopo un po’ ricompaiono – era da mamma, vengono a sapere dai bambini, quando glielo domandano – per questo, nelle telefonate che seguono, ormai Georg urla all’ex moglie di riordinare il suo porcile, perché finora tutte le accuse si sono sempre rivelate infondate. In questi casi Tom corre da una stanza all’altra e chiude le porte, ma Karo e Jonas talvolta sentono qualcosa. Alle controversie i bambini reagiscono in modo differente. A Jonas, il più grande, sembra che scivoli tutto addosso senza lasciare traccia. Quando manca una delle sue cose o quando la perde, alza le spalle e tace. Non sa niente, non si ricorda, non ha visto nulla e lui non c’entra. Questo strato di teflon deve costargli parecchia energia, che forse risparmia da altre parti. Tom lo ammira per questo. Karo invece è una sognatrice e la sua distrazione confuta ogni tesi sulle bambine ordinate. Perciò prende a cuore ogni perdita e comincia a cercare in modo tanto caotico quanto inquieto nel forno, nella dispensa, nei cassetti più profondi della scrivania di Tom. Ma per arrivare fin lì, il nuovo e, a quanto pare, prezioso orsacchiotto che le ha regalato la nonna materna, avrebbe dovuto essere animato.
Tom ama quel topolino arruffato anche se i suoi eccessi di collera complicano la loro vita. E a differenza di Georg, Tom vede con chiarezza che il problema sta cambiando forma. A malincuore alla fine Karo ha abbandonato l’abitudine di portare qua e là, tra mamma e papà, i giocattoli preferiti o i regali. La percentuale di confusione e rimproveri era diventata troppo alta per lei. Ma maturando abbastanza da sopportare la separazione settimanale dai peluche, Karo è diventata anche abbastanza forte da saltare giù dai giochi ai giardini e strapparsi i vestiti. E allo stato attuale i vestiti strappati vengono usati dalla madre dei bambini per allargare il prossimo campo di battaglia su cui schierare le truppe, dove, in un modo inquietante che nessuno capisce a parte Georg e Tom, non è possibile sfuggirle.
Sebbene il divorzio risalga ad anni prima, l’ex moglie di Georg continua a comportarsi con lui nella modalità sempre-e-mai che chiunque abbia letto una volta una rubrica di consulenza matrimoniale riconosce come la melodia della fine. L’ultima frase al vetriolo della ex, che Georg dimentica nel momento stesso in cui la scarica su Tom, è: i bambini non indossano mai niente di pulito quando tornano da me e le cose che gli compro sono sempre strappate e rotte.
Per questo Tom ricorre a tecniche degne dei servizi segreti. Ha contrassegnato tutti i capi di abbigliamento che si possono confondere con minuscoli occhielli argentati, soprattutto i pantaloni di Jonas e le piccole e graziose gonne di jeans di Karo. Quindi adesso Tom sa quali capi di vestiario sono i suoi e quali dell’altra. Lo può provare. Ma spera che non sia necessario perché se ne vergogna anche un po’. Perché in fondo il problema non è un paio di pantaloni da diciannove euro e novanta. E qualche volta pensa con disagio alla frase di Georg che su questo fronte non avranno mai ragione perché il punto è che loro saranno sempre, sempre, sempre in torto.
Nelle settimane normali Tom fa in modo che i vestiti con cui i bambini arrivano a casa sua spariscano la sera stessa nel cesto della biancheria da lavare e che da lì ritrovino la strada della stanza dei bambini, lavati e stirati, soltanto l’ultima sera, la domenica seguente. Allora il buco sul ginocchio, del quale l’ex moglie il lunedì pomeriggio si lamenta al telefono, potrà essere saltato fuori soltanto nel corso della giornata, anche se l’ex non ci crederà mai. La sicurezza assoluta non esiste, questo è chiaro. Ma una settimana in Turchia con una valigia piena di stracci “dell’altra parte” con il rischio moltiplicato, durante il viaggio, di distruggere o addirittura perdere in spiaggia, in mare, cose non loro, è per Tom un film dell’orrore; paragonabile all’incubo di una guardia del corpo quando il papa o il presidente decidono di fare un improvviso bagno di folla. E solo per questo le è venuta l’idea di scambiare i capi di abbigliamento più a rischio – due paia di jeans di Jonas, due pantaloni estivi e una gonnellina di Karo – con i suoi, contrassegnati con gli occhielli. Se in vacanza si rovineranno – non importa. Un altro silenzioso sacrificio per la serenità di questi poveri bambini. Tom deve solo stare attenta a non dimenticare di rifare la valigia una volta tornata a casa. Ma di tanto in tanto prova un orgoglio quasi indecente per quel suo modo pratico di affrontare la vita.
Quando arrivano, con grande ritardo, non è solo già scuro, ma buio pesto. Per quanto tutto sia estraneo, si sentono gli odori, i suoni. Da quel poco che è possibile riconoscere dai contorni, sembra un classico aeroporto – parcheggi, silhouette degli hangar e scalette degli aerei – ma il caldo umido, i recinti, il filo spinato e i riflettori ricordano vagamente Guantánamo, un’associazione di cui Tom si rimprovera subito perché razzista.
Intorno ad alcuni tavolini all’aperto ci sono degli uomini con i baffi che fumano. Da loro, dietro presentazione del voucher, si riceve un numero che corrisponde a uno dei tanti autobus. Sul numero 927, un pulmino, è già seduta una giovane donna, carina ma molto grassa, un raperonzolo gonfio con la pelle di alabastro e i boccoli. Tiene la mano di un ragazzo magro, a malapena adulto, che si preferirebbe credere suo figlio.
I bambini di Georg sono silenziosi e stanchi, Lenny, il figlio che hanno avuto insieme, è in braccio a Tom e cerca di tranquillizzarsi strusciandole il naso sulla clavicola. Sull’autobus c’è odore di Arbre Magique alla mela verde. Quando Karo fa per allacciarsi la cintura di sicurezza, si scopre che ce l’hanno solo due sedili. Tom lancia uno sguardo a suo marito e loro e i bambini si cambiano di posto in modo che almeno Jonas e Karo siano allacciati. La biondina nella fila davanti se ne accorge e cerca anche lei senza successo la cintura. Si rivolge al ragazzo in una lingua straniera al che quello scende e ritorna con un baffone che dev’essere l’autista e che si spiega solo in turco e a gesti. I palmi delle mani aperti rivolti verso l’interlocutore, tuttavia, sono comprensibili a livello internazionale.
I don’t go, dice la ragazza grassa e scende all’autobus, I don’t go.
È svedese? Chiede Tom a Georg.
Ritengo che sia inglese, risponde lui.
Tom gli dà una gomitata: sai cosa intendo.
– Non lo so invece. Danese, finlandese, norvegese?
Tom mugugna e nasconde il viso nella chioma di suo figlio. Fintanto che i bambini sono piccoli, ci offrono la possibilità di sottrarci fisicamente da molte situazioni, questo è uno dei vantaggi incontestabili della famiglia e funziona addirittura con i figliastri.
Dopo alcuni minuti, davanti alla porta aperta dell’autobus, si svolge una riunione di baffoni, il fumo penetra nell’abitacolo, le sigarette puzzano di torba o di fieno bruciato come quelle dell’infanzia di Tom.
Il padre di Martin fumava una robaccia simile. Non era il vero padre, fumava quelle sigarette e aveva una voce come quella di Louis Armstrong. Quando erano ancora piccoli, la sera giocavano e lui faceva l’orso. Tutte le volte che Judith e Tom dormivano a casa di Martin – Tom non si ricorda più perché e se è successo così spesso come le sembra adesso, crede solo di ricordare che la madre di Martin non c’era mai – quello strano uomo li mandava a letto. Loro aspettavano nell’oscurità, la porta era aperta di uno spiraglio, la luce filtrava dall’ingresso. Il fascio di luce si allargava piano e loro trattenevano il respiro. Con un ringhio sommesso, il padre di Martin entrava a quattro zampe, bramiva e grufolava: era il grande orso affamato. Arrivato all’accampamento di materassi dov’erano sdraiati i bambini, si alzava, digrignava i denti e urlava come se li volesse mangiare tutti. Senza averne prova certa Tom crede ancora oggi che Martin fosse quello che aveva più paura, una paura tale da farsela quasi addosso. Ma l’orso si rannicchiava e annusava il loro viso. Con ognuno ringhiava e bramiva con un tono diverso, loro restavano sdraiati in silenzio, con la pelle d’oca, e qualche volta lo accarezzavano come per tranquillizzarlo. Allora l’orso canticchiava loro delle melodie tristi, vicino al collo e all’orecchio, e alla fine, quando usciva di nuovo carponi, si addormentavano beati perché il mostro si era rivelato un guardiano forte e amichevole.
La svedese è ferma davanti all’autobus e guarda fisso davanti a sé. Lo sguardo del suo accompagnatore si sposta qua e là tra lei e i baffoni che fumano. Uno dei kapò infila dentro la testa e si scusa in inglese. Fino a quando non salgono tutti i passeggeri, purtroppo non si può partire. Georg scende e suggerisce ai due svedesi di prendere un taxi. If you pay, risponde la giovane donna con inattesa durezza. È chiaro che ha imparato a rivendicare il proprio posto, anche con il suo carisma.
I baffoni dicono di non avere nessun altro autobus, meno che mai a quell’ora. Karo scende e dice a suo padre: può avere la mia.
Georg prende la figlia per mano e domanda al ragazzo se anche lui ha assoluto bisogno di una cintura oppure se è sufficiente allacciare la ragazza. Usa la parola “girlfriend”. Il ragazzo si esprime con gesti esagerati, con gli occhi, le spalle, le mani che significano tutti la stessa cosa, vale a dire un frenetico assenso. Per questo riceve dalla principessa un’occhiataccia. Lei rivendica tutto e lui celebra il nulla che rimane, pensa Tom. Forse anche lei sarebbe più contenta se gli estremi potessero avvicinarsi un po’. Allora sarebbe una persona più tollerabile. Ma in questo caso il ragazzo dovrebbe smettere di sguazzare nella rinuncia.
Georg fa sedere Karo in grembo a Jonas, nonostante le proteste di entrambi, li allaccia insieme e con un gesto cede al grasso raperonzolo il posto accanto al loro.
E il piccolo? gli sussurra Tom con tono di rimprovero quando l’autobus si mette in movimento, e io?
Non siamo in Africa Centrale, dice Georg.
Durante il tragitto Tom pensa che, nell’eventualità di una brusca frenata, Karo spezzerà i denti del fratello con la nuca oppure gli romperà il naso. E a come deve essere una relazione in cui l’altro ritiene che la sua vita sia più degna di essere salvaguardata.
L’hotel è una modesta fabbrica di tempo libero. Gli architetti che l’hanno progettata hanno provato a nascondere la somiglianza con un lager frazionando tutte le aree più grandi. Chi compra qualche ettaro di terra per l’allevamento del turismo di massa ma non vuole che sembri così, vi stende sopra una rete di elementi divisori; le sale da pranzo piene di paraventi lavorati a intaglio e i banconi del buffet messi di traverso, i giardini ricchi d’intricati sentieri o di siepi di bosso che si snodano senza senso. Se l’architetto avesse messo lo stesso impegno nel distinguere i singoli segmenti anche nel crearli, allora avrebbe potuto funzionare. Tuttavia, poiché non bastano mai né il tempo né il denaro, vengono fuori dei labirinti che sembrano dei centri commerciali. Per fortuna i bambini capiscono subito in quale direzione si trova la spiaggia e lasciano che gli adulti li usino come una bussola che li guida. Puntata verso il mare.
All’inizio Tom è preda di uno smanioso fascino per il funzionamento perfetto della fabbrica: lo sciame di camerieri vestiti con abiti marrone scuro, uomini e donne, che, come indiani dalle tante braccia, sparecchiano e rovesciano una gran quantità di avanzi nei secchi della spazzatura fissati ai lati del loro carrello. Indossano guanti di gomma e gettano le posate sporche in alcune vaschette di plastica. I cuochi sudati dietro i buffet, ammucchiano carne e contorni sul piatto che viene teso loro. Verrebbe da credere che non ci sia alcuna pausa tra un movimento e l’altro. Il mestolo distribuisce a cottimo, mani bruciate dal sole conducono il bottino attraverso la mischia, lo posano e vi razzolano dentro, quand’ecco che il guanto di gomma giustiziere si allunga per prenderlo. A quasi tutti i tavoli i membri della famiglia hanno davanti a loro degli apparecchi elettronici. Bambini di due anni ipnotizzati passano il dito sugli iPad invece di mangiare e nel frattempo i genitori rispondono alle e-mail con l’unica preoccupazione che la salsa non cada sull’apparecchio.
Il mondo è destinato a tramontare, dice Tom.
È per capirlo che si abbandona un appartamento elegante in un antico palazzo e si va in vacanza, le risponde suo marito.
Come ha ragione e quanto Tom vorrebbe che invece fosse l’esatto contrario. Proprio come i suoi bambini che considerano il parquet a spina di pesce una noiosa consuetudine e per il resto dell’anno sogneranno questo mare azzurro.
La svedese e il suo ragazzo siedono ogni mattina a un tavolo in disparte. Lei mangia due o tre croissant con la Nutella e quando ha finito si lecca le dita e con la punta umida raccoglie tutte le briciole dal piatto. La lingua, che è appuntita e piatta, spunta a brevi intervalli.
Lui, che non sembra ancora maggiorenne, cerca il suo sguardo, sempre pronto a sorriderle, ma lei ferita e offesa guarda fisso davanti a sé. Tom trova tutto questo enigmatico, una coppia incomprensibile, ma Georg sostiene che è sempre molto più semplice di quanto si pensa.
Che cosa c’è di semplice? Chiede Tom.
Lei ripaga di notte l’infermiere delle sue lune, con quell’abbondanza di carne, dice Georg: tutte le relazioni sono solo affari.
Tom si limita a scuotere la testa. Non saprebbe da dove cominciare a obiettare.
Dopo colazione Georg va con i bambini in spiaggia mentre Tom ripiega su una sdraio in piscina. Apre un romanzo ma lo sguardo le scivola sulle righe. Se tutte le relazioni sono degli affari, quale è allora il suo? Cosa riceve, cosa dà? Che cosa significa che trova risposte soprattutto alla seconda domanda? Un tempo avrebbe detto che la lealtà è la cosa più importante.
Alcuni anni fa, in un’osteria, incontrarono Martin ubriaco fradicio. Tom gli si avvicinò per salutarlo, ma lui si alzò, allungò la mano rozza verso il suo ventre e disse: adesso sei diventata anche tu una borghesuccia? Speravo che almeno tu potessi rinunciare a questa stronzata della procreazione!
Dopodiché Tom ruppe con lui. L’indomani gli scrisse una lettera in cui diceva che doveva smettere di attribuire agli altri il proprio dolore universale. Nessuno aveva voglia di essere amico di una vittima perenne, sempre di cattivo umore, ormai doveva essersene accorto anche lui. Allora le era sembrato tutto molto convincente. Parlando con altri aveva descritto con voce stridula lo psicogramma di Martin, quello di una persona senza dubbio molto sensibile che purtroppo crede di poter rivendicare il diritto alla felicità e al successo. E che con il suo piagnisteo, in mancanza di altri destinatari, finisce per sfogarsi con gli amici più cari.
Già un paio di mesi più tardi, questa convinzione si era dileguata. E alla fine, a parte quell’unica cafonata, Tom non aveva più saputo quale fosse stato il problema. Pareva che anche lei avesse un qualche conto aperto con Martin, anche se non ricordava più quale. Così con il tempo gli si era riavvicinata con imbarazzo e lui aveva lasciato che accadesse. Di tanto in tanto Tom si era sentita offesa che Martin, al contrario, non avesse cercato di fare lo stesso, di porgerle delle scuse imbranate, anche non a parole.
Non era più stato come prima.
Ancora adesso nei ricordi di Tom la scena al Blaubichler è molto più nitida rispetto alla maggior parte di ciò che era seguito, a parte la cremazione austera, quasi sgarbata di Martin. Proprio pensando all’esempio del Blaubichler, si è ripetuta spesso quanto sia importante che il partner sia leale. Che Georg non le abbia detto, ah, ma era ubriaco, non essere così severa. Ma negli ultimi tempi, talvolta ha l’impressione che molte cose nella sua vita avrebbero potuto essere diverse. Che di alcune abbia salvato la versione sbagliata. Che quella volta Georg si era indignato e offeso e che forse le aveva detto che non aveva mai potuto soffrire quel complessato. E che solo per questo Tom era ricorsa a un gesto così patetico, che non si addiceva a lei, a Judith e a Martin.
Sulla spiaggia c’è vento. Nuvolette bianche quasi tutte uguali sfilano all’orizzonte come buste di latte su un nastro trasportatore. Tutto svolazza, gli asciugamani sulle sedie a sdraio, le camicie estive di quelli che camminano lungo la riva e le stuoie di cannicci che ricoprono i gazebi all’ombra dei quali sono allineati i lettini. Tutto quello sventolio e crepitio e la luce del sole sono così drammaticamente autunnali e melanconici che Tom crede che il vento e le onde le s’infrangano dritte sul cuore.
Tra le dune profonde dietro la spiaggia c’è un’unica doccia, solo un grosso tubo che termina con un soffione, ostinata nella sua inutilità. Si nuota in mare, poi i piedi si sciacquano in piscina. Che cosa ci sta a fare una doccia qui? Forse anche questo era un elemento che serviva ad architettare quello spazio troppo ampio. Tom è proprio lì, in quel punto vuoto tra il giardino e la spiaggia. Si mette accanto al tubo della doccia e cerca la sua famiglia come in un brulicante wimmelbuch. Infine riconosce Karo dall’andatura saltellante, come un capretto con una lieve zoppia. Tom ha fatto chiedere alla madre se loro, Georg o Tom, dovevano portare la bambina dall’ortopedico. Non è niente, me ne sarei accorta, era stata la risposta nervosa in cui Tom – sebbene le fosse stata riferita da Georg – aveva avvertito l’indignazione per aver osato mettere in dubbio le competenze materne. Karo e Jonas giocano con un pallone rosso, il figlio di Tom corre entusiasta dietro la palla senza acchiapparla. Nella testa di Tom la voce di Martin dice: idillio familiare menzognero. Tom risponde mesta: è raro che sia così idilliaco. Per la maggior parte del tempo, infatti, ci si è solo dentro.
Dov’è Georg? Uno che potrebbe essere lui è appoggiato di spalle a un palo della struttura di cannicci, ma non può essere perché quell’uomo parla con una donna esile come un giunco, con in capelli lunghissimi, che per un attimo gli posa la punta delle dita sull’avambraccio. Se fosse lui, allora si sarebbe dato da fare alla svelta. E quella donna afferra la sua cortina di capelli, la arrotola con le mani e forma una corda che infila nel colletto della camicia di lino giallo limone. Il vento, il vento.
– Non si riesce a parlare quando i capelli ti svolazzano di continuo intorno alla testa.
– E io che pensavo che quando i capelli sono così lunghi non danno più fastidio.
– È vero. Come vede, si possono infilare sotto i vestiti.
– Ma così le punte le faranno il solletico sui fianchi.
– I fianchi? Cosa gliene importa a lei dei miei fianchi?
– Mi scusi, al momento niente naturalmente.
– Vuol dire che in futuro potrà importargliene qualcosa?
Tom si scuote e si mette in marcia. Smette di osservare quei due e s’immerge nello spettacolo del mare agitato e schiumante. I bambini si tuffano contro le onde come in un film muto perché, anche se forse stanno strillando, si sente soltanto il rimbombo dell’acqua. Un bagnino con un fischietto cammina attento su e giù. Standard tedeschi sulla Riviera turca. Sicurezza e sorveglianza. Fino a quando la fabbrica delle vacanze con la sua misera ruota panoramica rimane alle spalle, si potrebbe credere di essere su una spiaggia incontaminata; vacanze autunnali al mare negli anni sessanta, che la moda fa di tutto per rievocare. Martin è nato negli anni sessanta, lei no ma per poco.
Arrivata alle sedie a sdraio, Tom perde per un attimo l’orientamento. Crede di essere andata troppo a sinistra, alza lo sguardo, cerca l’uomo appoggiato al palo, i bambini che giocano con la palla. Un paio di metri più avanti sbatte la tibia contro il bordo di un lettino. Si spaventa, fa un passo indietro e vede due mani che spalmano la crema su una schiena simile al dorso di una balena, di un bianco accecante. Le mani si fermano, ma il cervello di Tom riproduce i secondi passati con un piccolo ritardo: le mani massaggiano la carne, che eccede tra le dita, e l’afferrano come se fosse staccata dalle ossa, per disporla in modo diverso. Il possesso orgoglioso che c’è in quel gesto. È molto di più che spalmare una crema solare, è un massaggio che rivendica la proprietà. Un attimo dopo Tom riconosce il boyfriend svedese che le rivolge il volto da ragazzino e arrossisce, Tom abbassa gli occhi. La ragazza raperonzolo alza la testa e sbircia oltre la spalla con gli occhi socchiusi. Tom si scusa in modo prolisso, si rimprovera per la disattenzione, si rammarica senza fine. Never mind, dice Raperonzolo con la voce arrochita e fa un gesto con la mano. Mentre Tom fugge, si domanda se sia davvero possibile che la svedese non l’abbia riconosciuta, mentre il ragazzo sa chi è fin troppo bene e si sente ancora in colpa.
Nel frattempo Georg è seduto per terra, con la schiena appoggiata a uno dei pali di legno e guarda i bambini. Il piccolo scava una buca nella sabbia umida, Karo raccoglie i sassi vicino all’acqua, Jonas calcia distratto la palla qua e là. Cinquanta metri più avanti, una donna dai capelli lunghi è sdraiata al sole, in bikini, ma la camicia giallo limone non si vede, né accanto a lei, né sotto l’ombrellone. La scena che ha osservato Tom può essersi svolta da un’altra parte, più avanti, a ovest. Non ha mai avuto un gran senso dell’orientamento e ha il sospetto che la vista le sia peggiorata di nuovo. Si siede accanto a Georg e cerca di accoccolarsi sotto il suo braccio. Georg la respinge, si sposta e le cede il palo per appoggiarsi. Non è questo che volevo, protesta Tom.
Ma se ti appoggi a me, cado, dice Georg.
Tom gli racconta della svedese, del suo ragazzo e che anche spalmare la crema solare può trasformarsi in un oltraggio al pudore. Suo marito si chiede, ma in realtà è a lei che è rivolta la domanda, perché le interessino tanto quei due.
– Perché non capisco come si faccia a essere così giovani e così infelici.
Se non ora, quando, chiede Georg.
Per quella sera è prevista una “grande grigliata di pesce sul buffet”, Jonas ride. Karo difende gli inservienti con i vestiti marrone scuro in modo commovente, dicendo che le piacerebbe parlare il turco come quei camerieri parlano il tedesco. Tom si meraviglia che una bambina che qualche volta, presa da una rabbia accecante, non sa più cosa fare se non spezzare le matite o strappare i libri o le magliette del fratello, sia poi capace di concepire queste raffinate distinzioni. La rabbia di Karo di solito si abbatte su di lei come un fulmine, nessuno la vede arrivare. Una sola volta Tom ha intuito qualcosa, l’unica volta che poteva accadere qualcosa di terribile. Erano seduti a tavola a mangiare, nella coscia d’agnello era infilato un grosso coltello, Jonas sussurrò qualcosa che più tardi sia lui che Karo si rifiutarono di ripetere, e Tom si accorse che la punta del naso di Karo era sbiancata. La rabbia non è rossa, bensì bianca come il calore più bollente, quello in cui tutto si scioglie senza bruciare. La mano di Tom e quella di Karo erano scattate quasi in contemporanea verso il coltello, Tom era stata una frazione di secondo più veloce. Nel momento in cui Tom aveva afferrato il coltello e lo aveva estratto, Karo aveva lanciato un grido acuto. Poi, con la mano stretta in un pugno, si era accoltellata il dorso della mano sinistra che era posata sul tavolo, senza niente, ma tutti avevano visto i contorni del coltello che in realtà Tom, con un gesto lento, come se fosse molto fragile, si era posata sulle gambe, sottraendolo agli altri. Più tardi Georg disse che Karo non lo avrebbe mai fatto, mai. La bambina aveva iniziato il suo drammatico show quando Tom aveva afferrato il coltello in quel modo così concitato. Sei tu che glielo hai fatto pensare, aveva detto Georg ridendo. E Tom, che voleva solo essere lodata, aveva risposto con un rumore che era suonato come se avesse avuto in gola uno di quei ranocchi di latta colorata che lei e Martin da bambini facevano saltare per strada.
Con suo figlio in braccio Tom è di fronte a una bancarella da mercato così nuova e levigata che non passerebbe inosservata nemmeno al supermercato di prodotti biologici vicino a casa. Qui in Turchia luccica come gli incisivi d’oro dei tassisti. Sulla scena è adagiato un tonno intero, grasso e luccicante. Alla fine del barbecue sarà ridotto a uno scheletro carico di rimprovero. Dietro ci sono cuochi sorridenti – con lunghi grembiuli bianchi e lunghi denti bianchi – che brandiscono i loro coltelli, una pubblicità animata. Un cuoco acciuffa un astice nel ghiaccio, lo mostra al figlio di Tom e, scuotendolo appena, finge che sia ancora vivo. Ma anche questo bambino di rado reagisce come ci si aspetta. Lenny non si schifa, non ride, non nasconde il viso nella spalla della madre. Fissa ammaliato l’astice che fluttua verso di lui. Diventerà un intellettuale, ha detto il pediatra quando durante una visita di controllo, ha tolto a Lenny un sonaglino e lo ha nascosto da qualche parte. La maggior parte dei bambini si sarebbe voltato nella direzione del sonaglino e avrebbe cercato invano di riaverlo. Invece il figlio di Tom ha fissato il medico come per capire perché avesse fatto una cosa tanto scortese. Un intellettuale, non uno sportivo, ha detto il medico e si è messo a ridere.
Il cuoco turco guarda Lenny un po’ deluso. Tom fa un’osservazione entusiasta sull’enorme pesce come per consolare il cuoco. Da noi una cosa così non c’è, dice, ma quello risponde: in compenso c’è tutto il resto. Tom non è sicura di aver sentito bene, per questo si volta con un sorriso vago e cerca il resto della famiglia che ha perso di nuovo. All’altra estremità della terrazza ci sono due bambini seduti che mangiano. Potrebbero essere Jonas e Karo. Georg invece non si vede; da quando sono lì, sparisce sempre per un po’ e ricompare da direzioni del tutto inaspettate.
In quel momento, da un gruppo di persone lì accanto, qualcuno le afferra il braccio e glielo stringe così forte da farle male.
È un uomo anziano, basso, con i capelli ispidi e grigi che si spinge nel suo campo visivo dal basso e da dietro. Ha gli occhi rossi e acquosi, le stringe il braccio in una morsa e con l’altra mano lo accarezza. Piano, come qualcuno che torna in sé, Tom capisce che l’uomo piange. Dall’anca, suo figlio guarda giù verso di lui, con cautela Tom lascia scivolare il bambino a terra.
Mi scusi, sussurra il vecchio, la prego di perdonarmi, ma lei somiglia tanto a mia sorella, com’era a quel tempo, le faccio tutte le mie scuse.
Ha un leggero accento. Ebreo russo, passa per la testa di Tom, e qualcosa di freddo le stringe il cuore. Suo figlio la tira per una gamba e comincia a piangere, non c’è da stupirsi, Tom si volta verso il bambino, l’uomo le lascia il braccio e un attimo dopo è sparito. Dove eravate, le chiede Georg che è proprio accanto a lei, non hai ancora preso da mangiare, che cos’ha il piccolo?
E Tom gli tace metà della storia, cita soltanto un vecchio inquietante che a quanto pare l’ha scambiata per la sorella.
Tu non hai una sosia, dice Georg, tu sei unica, e lo dice ridendo con tanto entusiasmo che Tom pensa che in realtà si stia riferendo a qualcun altro.
Per tutta la sera Tom continua ad alzarsi e ad andare ai tavoli banchi del buffet per ogni sciocchezza. In realtà cerca l’uomo triste. Vuole sapere cosa è successo a sua sorella. Quando qualcosa la inquieta, sente l’esigenza di avere delle spiegazioni. Le spiegazioni sono per lei come il fascio di luce di una lampada tascabile in un cupo castello degli orrori. Durante la cremazione di Martin ha preso la parola un medico – un amico di famiglia – e ha spiegato da dove era partito il cancro. Perché era stato scoperto troppo tardi. Quanto era rara questa combinazione, il tumore stesso e il punto molto insolito in cui si era manifestato. Mentre passa in rassegna le bancarelle che sembrano uscite da un libro per bambini – spine di pesce, montagne di gelato che si sciolgono, fuochi fumanti sui quali non si cucina più niente, vassoi saccheggiati, solo al banco dei dessert regna ancora un certo ordine perché gli spazi vuoti sono subito riempiti – Tom immagina proprio il contrario: un funerale dove qualcuno spieghi quanto sia stata normale e usuale quella morte, una morte di cui si può morire e per cui potremmo morire tutti. Alla fine una pillola statistica calcolata sul numero dei presenti – oggi all’incirca un centinaio, riuniti per prendere congedo dal nostro amico Martin. La metà, uno su due, morirà di una malattia cardiocircolatoria, un terzo, come Martin, di cancro. Al terzo posto, nella nostra regione, vengono le malattie del fegato ma su questo potremo scherzarci sopra alla fine, al banchetto funebre, con un bicchiere ghiacciato in mano. Oppure qualcuno che parli della probabilità di una mutazione spontanea delle cellule che, come si dice sempre più spesso, sarebbe la causa principale del cancro. Che dica che la precedente onco-genetica, la ricerca di compromissioni familiari, sta perdendo di importanza ormai. La malattia è molto più casuale: una cellula fa ops, due anni dopo si combatte e poi si finisce nel freezer. E i vecchi amici fanno una vacanza in un villaggio con l’acquascivolo in Turchia.
Tom sa che sta esagerando. Ma esagerare è l’unica cosa che può fare. Esagerare fino a piangere. Da quando Martin è morto, due mesi fa, si è aperto un buco sproporzionato rispetto al ruolo di Martin nella sua vita. Il buco si sposta, a volte in gola, a volte nello stomaco, è stato anche in testa. In ogni caso è troppo grande. Prima, sì che era così. Quand’erano ancora bambini e poi adolescenti. Quand’avevano cominciato a rubare nei grandi magazzini del centro. Quando ben presto avevano smesso di rubare perché Judith aveva insegnato loro come si faceva davvero. Perché mentre Martin e Tom facevano scivolare tremanti nelle tasche cose di poco conto – per tanto tempo Tom ha avuto una penna stilografica a righe bianche e rosse, anche se temeva che quell’oggetto potesse essere utilizzato addirittura anni dopo come prova della sua colpevolezza – Judith si era presa solo una grossa scatola ed era uscita dal negozio sotto gli occhi di tutti. Con la naturalezza di chi l’aveva pagata. Tom cerca di ricordare cosa c’era dentro. Un servizio da tè, una teiera, le tazze e uno scalda teiera a candela. Martin e Tom non avevano più voluto partecipare perché si trattava di una gara impari e pericolosa per tutti. L’espressione di Judith quando nei mesi successivi li invitava a bere il tè nella sua cameretta arredata di nero. Vecchi mobili massicci, trovati al mercato delle pulci o per strada, l’essenziale era che fossero neri, alle pareti i poster con le salme aperte di Boeckl. E insieme a tutto questo, il tè aromatizzato e il ghigno inquietante di Judith. Una volta stavano tornando a casa da uno di questi tea-time, Martin e lei. Tom ha l’impressione che durante la sua gioventù sia stato sempre novembre, pioggia, semafori rossi che penetrano l’umida nebbia grigia con il loro segnale di arresto. All’incrocio, Martin, che fino a quel momento aveva guardato per terra, aveva rivolto lo sguardo su di lei come un cupo riflettore. Negli ultimi tempi Judith mi piace molto meno e tu molto di più. Dopo quest’annuncio, l’aveva baciata e stranamente era stato un bacio molto, molto bello. Avevano continuato ancora per un po’, un paio di settimane forse, e forse erano stati anche vicini a spingersi oltre. Questa nota a piè pagina della storia è da allora molto imbarazzante per Tom. Sebbene avessero già sedici anni, con tutta la buona volontà non riesce a ricordarsi come e perché fosse finita, non ne avevano parlato mai più.
Tom non riesce a trovare l’uomo anziano da nessuna parte, neanche un altro russo. I tavoli si vuotano uno dopo l’altro. Georg porta i bambini a letto. Non si vedono neanche la svedese e il ragazzo, il tavolo al quale mangiano quasi sempre è unito a un altro intorno al quale adesso schiamazza un gruppo di giovani inglesi. Se almeno ritrovasse la svedese e il boyfriend, si convince Tom, allora non avrebbe la crescente sensazione che in quel club certe persone spariscono e altre compaiano al posto sbagliato. Quel vecchio di prima somigliava a qualcuno della sua infanzia. Allora le persone anziane piangevano senza farsi vedere dai bambini. Per questo erano così inquietanti.
Tom ritorna al tavolo e aspetta Georg. Nel frattempo beve un gintonic, che si paga extra, ogni volta le portano un conto, ogni volta lo stesso cameriere le domanda il numero della stanza. All’improvviso le sembra meno gentile. Ha un sorriso scivoloso. È veramente così stupido da non ricordare il numero della stanza oppure è un modo di farle capire che disapprova il consumo di alcol? In realtà i turchi non sono dei fondamentalisti religiosi. O, al contrario, il cameriere è intelligente e svolge il proprio noioso lavoro nel modo più discreto, ritirandosi del tutto in se stesso e servendo ogni ospite che gli ordina qualcosa come se fosse la prima volta. Così gli riesce più facile sorridere. Oppure dipende da lei che confonde questi giovanotti nelle loro uniformi marroni così come confondiamo di continuo i cinesi e i cinesi noi. Capelli neri e unti e un sorriso bianchissimo. E poi il tempo, oppure il destino o chi altro, schiocca le dita e a un tratto tutti hanno i baffi, i denti d’oro e una pelle grigia di cuoio. Allora diventano autisti di autobus. A Tom viene da ridere. Le fasi intermedie, quasi impercettibili, ci illudono. Ci permettono di sopportare la vita, il passare del tempo, il venir meno di tutto, il nostro decadimento. Tom capisce anche perché mai lì, a ogni pasto, osserva il percorso del cibo nella fabbrica del tempo libero. I cuochi che riempiono i piatti, i vacanzieri che li portano via, gli agili guanti di gomma che li gettano nei contenitori. Perché lì il corso delle cose è così veloce che finalmente riesce a vederlo con chiarezza. Anche per questo l’affascina così tanto, Georg è tornato, ha già il suo gin tonic. Lo ha preso al bar?
Georg, dice Tom, ho capito perché il raperonzolo svedese mi affascina così tanto: per via del salto che ha già fatto! Sai? Nella loro relazione? Lei è così giovane e già così esasperata come se fossero sposati da decenni ed è una cosa che si vede di rado. Come se mancassero gli anni nel mezzo!
Capisco, dice Georg e le fa un mezzo sorriso. Credo che sarebbe meglio se andassimo in camera. Karo ha fatto fatica ad addormentarsi e non sono sicuro che si senta bene.
Georg, esclama Tom chinandosi in avanti, ti hanno dato un bicchiere sporco, guarda, c’è sopra del rossetto!
Quella notte Tom è grata a ogni millilitro dei tre gin tonic. Eppure, quando alle tre del mattino Karo comincia a rimettere a fiotti come la ragazza stregata nei film sugli esorcisti, si sente abbastanza sobria. Quel poco di ebbrezza che rimane è utile, un velo che attenua le percezioni, quando anche Georg comincia ad avere dei conati di vomito e si preme la mano sulla bocca. Il vomito lo disgusta al punto che non riesce ad aiutarla, per questo è seduto nel bagno con la figlia pulita e quasi consolata sulle ginocchia, e le canticchia divertenti canzoncine all’orecchio. Tom non ha un secchio né un detersivo e a quell’ora non vuole andare alla reception, usa il secchiello da mare di suo figlio, il secchiello del ghiaccio che ha trovato in un armadio e le bottigliette di shampoo del bagno. Ha notato da tempo che i lavori più insulsi le riescono meglio quando è brilla. Ha più pazienza, si abbandona al ritmo della monotonia. Il letto in cui ha dormito Karo è avvitato al pannello marrone scuro che ricopre la parete, ma nel mezzo c’è un interstizio di pochi millimetri dal quale può grattare via quel pasticcio solo con lo spazzolino da denti. Senza gin tonic sarebbe disperata, grazie al gin tonic afferra con coraggio il proprio spazzolino e rimanda al giorno dopo il problema della cura dei denti. Anche un giornale è di grandissima utilità, la morbida carta pregiata degli intellettuali tedeschi assorbe benissimo. Non si comprende del tutto quanto bene funzioni il nostro mondo moderno, nemmeno quando le circostanze non sono perfette. Anche gli strumenti improvvisati sono di prima qualità, tutto torna pulito, c’è una soluzione per tutto. Un uomo che per il ribrezzo non è in grado di pulire, consola la bambina. Si chiama distribuzione del lavoro. Ma cosa aveva Georg contro Martin, questo Tom continua a non capirlo. Quando si sono conosciuti e Tom gli ha presentato il vecchio amico, per la prima volta ha avuto l’impressione che Martin la stimasse. Rispettava Georg, non lo riteneva un idiota come tutti gli altri con cui Tom era stata prima. Quello che pensava Georg, allora non le era interessato molto, supponeva che almeno i suoi amici gli piacessero.
Le lenzuola di Karo giacciono sotto una coltre di schiuma nella vasca da bagno. Tom rifà il letto con gli asciugamani e i teli da bagno. Gli altri due bambini dormono sodo, è quasi un impercettibile applauso alla sua efficienza. Con un guanto di spugna inumidito pulisce tutto una seconda volta e spruzza in giro un po’ del dopobarba di Georg. Quando vuota per l’ultima volta il secchiello del ghiaccio, Karo, che si è già quasi addormentata in braccio a Georg, le chiede perché piange. E poi anche la bambina comincia a piangere e pretende di telefonare subito alla mamma. Tom e Georg devono di nuovo fare appello a tutte le loro forze, una fata buona concede loro calma e pazienza. Le spiegano quanto sia importante che la mamma dorma indisturbata e spensierata, lodano la bambina per il suo fenomenale coraggio e mentre Georg diventa poco a poco più deciso, Tom prova a evitare un attacco di rabbia con subdola comprensione. Alla fine Georg le racconta una favola, Tom massaggia i piedi della bambina e a un certo punto, come congiurati, si infilano in punta di piedi nel loro letto mentre fuori il sole sbuca dal suo alloggio notturno e comincia ad allungare braccia sottili verso l’orizzonte. Ma chi pensa che niente unisca quanto una sfida comune, sottovaluta che la decisione di avere una famiglia e più figli purtroppo comporti perdere risorse e riserve per anni e qualche volta la ragione. Georg adesso vuole fare sesso, Tom invece vuole parlare di Martin e della morte quindi respinge le mani di Georg che si spostano dalla sua parte, e gli fa presente che ha appena pulito il vomito tutta da sola come una donna delle pulizie. Poco più tardi Georg dice che lei e Judith la devono smettere di comportarsi come due vedove, poi entrambi girano la testa dall’altra parte e sperano di imbattersi in una barriera di sogni e oblio prima di rivedersi la mattina dopo.
Dopo un paio di giorni una cupa routine prende il posto dell’iniziale senso di estraneità. Alzarsi, fare colazione, la cioccolata al distributore automatico, il caffè a pagamento al bar, impedire ai bambini di abbuffarsi di Nutella e cercare di tanto in tanto di alimentare i loro assurdi organismi con formaggio e verdure. Prima di andare in spiaggia devono almeno prendere i costumi dal filo del bucato e metterli in borsa. Non c’è una sola mattina in cui la cosa fili liscia. Georg urla, Tom con l’espressione di una santa martire infila tutto in una sacca da mare prima di gettarla ai piedi di Jonas: vi degnate almeno di portarla, Vostra Grazia?
E con immensa dedizione i bambini si lamentano di dover mangiare ogni giorno le stesse cose, anche se sono loro a servirsi dal buffet. Anche Tom, in realtà, ne ha abbastanza di pomodori, formaggio di capra, gulasch di agnello e baklava, ma tiene conferenze su fatto che lì per una settimana si riesce a mangiare ogni giorno qualcosa di diverso se ci si limita a due portate per pasto. Si accorge di non fare più caso alle famiglie ipnotizzate dai loro Smartphone e dagli iPad e comincia a temere il potere normativo di quella scena. Nel frattempo Lenny ha imparato a padroneggiare da solo gli acquascivolo più piccoli e annuncia che quella è la vacanza più figa di tutti i tempi. Al contrario dei due più grandi, la sua curva di eccitazione non diminuirà alla fine della settimana perché è ancora troppo piccolo per i ripidi scivoli dell’acquapark. Rimarrà quindi, almeno per quanto riguarda gli scivoli, affamato fino alla fine e immaginerà il “Buco nero” come un fenomeno sovrannaturale, come volare. Tom ha provato il “Buco nero” con Karo il primo giorno ed è rabbrividita davvero. Il tubo di plastica dentro il quale si scivola via è nero e alla fine, attraverso un imbuto, si finisce in un modo del tutto inaspettato nella piscina. Non si sfila fuori sdraiati, ma si cade. È sincronizzato alla perfezione. Il momento in cui si comprende che sotto si apre il vuoto è abbastanza lungo. Un attimo dopo che lo spavento ci ha tolto il fiato, si sprofonda nell’acqua tiepida. E si è di nuovo al sicuro. È un minuscolo tormento, niente di più. Sta’ attento, possiamo anche non farlo. Da un papà che è con lei sul bordo della piscina e tiene d’occhio i figli, Tom viene a sapere che quell’acquascivolo è stato progettato da una ditta sveva. Le magnifiche attrazioni collaudate dal TÜV, l’ente per il collaudo periodico. Immagini un po’ come deve essere, dice Tom all’uomo con i pantaloncini al ginocchio, verdi neon, gocciolanti: progettare acquascivolo, giorno dopo giorno, alla scrivania. Ma l’uomo, che deve avere almeno due litri d’acqua impregnati nei pantaloncini, segue i figli con lo sguardo e annuisce soltanto per cortesia, serio.
I bambini sono così riposati che litigano di nuovo come a casa. Un giorno c’è stata una brutta scena tra Karo e Lenny. Di solito sono molto legati e spesso si alleano contro Jonas. Ma dopo essersi contesi un giocattolo – un paio di occhiali subacquei o una palla che si illumina al buio che Tom ha comprato da un venditore ambulante sulla spiaggia – Karo è uscita vittoriosa da questo litigio e si è allontanata correndo di qualche metro con l’ambito oggetto e da lì, con un gesto trionfante lo ha allungato per aria come se il fratellino fosse il leone di un circo che deve saltare, ecco che d’un tratto Lenny si è impietrito come una statua di sale. Sembrava di vedere dentro di lui una specie d’interruttore, che teneva sotto controllo l’impulso che gli ordina di mordere e graffiare, gridare e scalciare. Prendilo e vattene, ha detto con una voce diversa, profonda: questa è la mia famiglia!
Da quale faretra ha tirato fuori questa freccia quel bambino innocente? La si vede colpire. Karo ha lasciato cadere il giocattolo come se le avesse bruciato la mano. Come nei fumetti dei Peanuts, le lacrime sprizzavano orizzontali, poi si è voltata e a passo svelto è sparita sulla spiaggia. Georg ha dato un’occhiata a Tom e le è corso dietro. Tom era così inorridita che in un primo momento non ha saputo cosa fare. La sacra famiglia. Il patchwork-modello. E poi un bambino di cinque anni alza la mano e la colpisce proprio al centro, nelle sensibili e nascoste parti indifese di quella costruzione sulla quale si è barato per anni, mostrando appunto che i rapporti non sono uguali, ma che ci sono sottili sfumature: più parente, meno parente, per niente parente, quest’ultimo in compenso doppiamente premuroso.
Il discorso che Tom tiene a Lenny subito dopo, è riferito con ironia all’autocontrollo che il piccolo ha appena dimostrato. Tom non lo sgrida, non grida, gli parla con insistenza e gli sembra quasi di vedere come le frasi lo penetrino. Quando si sbraita, i bambini si appallottolano come porcospini, ma se si rimane calmi, qualche volta si riesce a scalfire il loro cuore con lame che scintillano gentili. Tom gli descrive la situazione dei fratelli con compassione, fino al limite del consentito. Con tutta probabilità Lenny avrà degli incubi in cui i suoi si separano. Tom gli parla dell’amore e dell’affetto che Karo ha per lui, di come lo ha sempre considerato un fratello in tutto e per tutto fin dal giorno della sua nascita. Nessuno nella loro famiglia farebbe una distinzione tra mezzo fratello e intero come forse farebbero gli altri. Si vive insieme, ci si vuole bene. Lenny è senza dubbio turbato. Le chiederai scusa, dice Tom alla fine con una lieve severità nella voce e non dirai mai più una cattiveria del genere.
Lenny siede accanto a lei sulla sdraio e fissa l’orizzonte senza strizzare gli occhi che galleggiano ma non traboccano. Anche il mare oggi è tranquillo. Nell’acqua che arriva al ginocchio, alcuni bambini si lanciano una palla. Più a sinistra, sulla riva c’è una donna con una camicia di lino gialla che parla con un uomo al quale di tanto in tanto accarezza il braccio. La bambina che è inginocchiata davanti a loro e scava alla ricerca delle conchiglie potrebbe essere Karo. Ma di sicuro non si sarà ancora calmata. Sarà seduta da qualche parte sotto un cespuglio o un tavolo, col viso pietrificato e non permetterà a nessuno di rivolgerle la parola. Potranno dirsi fortunati se ricomincerà a parlare prima di cena. Tuttavia Tom sa che il suo predicozzo era troppo per il figlio, troppo per la sua età, e sospetta di averlo fatto per Georg. Quando i bambini fanno chiasso, sono impertinenti o inaffidabili, quando teme che Georg possa perdere i nervi, spesso Tom entra a gamba tesa prima di lui. Quando si tratta di attutire la rabbia di Georg o le sue lamentele alla famiglia, Tom si infuria come non mai. E quando Georg le dice che esagera, che qualche volta è davvero troppo severa, allora Tom ha l’impressione di aver infilato proprio all’ultimo momento il tappo nella falla di una barca che affonda. Di questo nessuno le è riconoscente, chiaro, perché tutti hanno comunque i piedi bagnati. Ma almeno sa perché lo ha fatto.
La svedese e il suo magro e giovane ragazzo si siedono ancora ogni giorno allo stesso tavolo. Con le dita inumidite e color alabastro, la ragazza raccoglie le briciole del croissant. Quando Tom aveva la sua età e si era innamorata per la prima volta, era andata in vacanza con un amante e non c’era stato posto per la noia e le abitudini. La vita era selvaggia e senza confini, qualche volta indecifrabile e anche deludente. Quella della svedese la irrita così tanto perché Tom la ritiene più monotona della propria. Ogni mattina lo stesso cattivo umore, ogni mattina aprire gli occhi e aspettare la liberazione. Ma con tutta probabilità questa supposizione è simile all’alito cattivo: si sente solo quello degli altri.
Prima di venire a sapere della malattia di Martin, qualche volta Tom si era vista come un personaggio dei fumetti colorato e arruffato che viaggiava sul proprio binario. Ogni giorno la sveglia, i panini per l’intervallo, ogni giorno la lotta accanita per avere qualcosa di suo che fosse abbastanza importante da scappare dai bambini un paio d’ore. Questa vita si sarebbe srotolata così fino a quando i bambini sarebbero stati grandi. Su quello che sarebbe venuto dopo c’era una nuvola. Quando Martin si era ammalato, proprio quella quotidianità che lui non aveva mai avuto le era sembrata dorata. Vedere i bambini crescere. Fare un panino e sapere che se ne potevano fare ancora migliaia.
Da quando Martin è morto, Tom non lo sa più di preciso: è di nuovo sul vecchio treno oppure è su un altro che sbanda molto di più?
L’ultimo pomeriggio e la sera piove come se fosse l’apocalisse. Con delusione di Karo, il karaoke in piscina viene annullato. Quand’è ora di cena, mentre aspettano l’ascensore, la svedese scende ondeggiando per le scale. Ha abitato per tutto il tempo sopra di loro? Le sue inimmaginabili notti si sono svolte sopra le loro teste? Il ragazzo abbassa lo sguardo, ma lei si ferma un momento e suggerisce di non usare l’ascensore con un simile temporale. Mentre prosegue allunga la mano e accarezza la testa di Lenny. In Tom, la rabbia per l’ammonimento di una fanatica della sicurezza si scontra con la fantasia di dover passare la serata chiusa nella cabina di un ascensore. Tom suppone che in una simile situazione almeno la metà degli imprigionati venga colta da un incontrollato stimolo della minzione. Fa un cenno del capo a Georg e tutti e cinque seguono la giovane coppia su una scala sorprendentemente ampia e ben illuminata. I vacanzieri che abitano nei bungalow, raggiungono la lobby e il ristorante fradici e con i bambini in lacrime. I tuoni sembrano giganti che si lasciano cadere con piacere su un letto che si trova proprio sopra di loro e che ogni volta si schianta. Sperano che il letto non sia il tetto. Le lampadine tremano ma non si spengono. L’esercito marrone dei camerieri non è veloce come al solito perché alcuni sono impegnati con gli spazzoloni.
La bassa costruzione in cui si trova il ristorante è poco preparata a quelle cascate d’acqua, quanto le porte a vetro elettriche. Il soffitto gocciola in diversi punti dove vengono posti alcuni secchi. Le porte scorrevoli devono essere chiuse a mano e un nastro rosso le contrassegna come inaccessibili. L’impero del tempo libero mostra la propria vulnerabilità. In quest’ambiente trasformato, freddo, umido, i turisti caricano sui piatti per l’ultima volta insalata e formaggio di capra, spiedini di agnello e patatine, melone e baklava. La densità di iPad e cellulari ai tavoli è diminuita, le forze della natura scatenate rubano la concentrazione dalle cose essenziali.
Lenny rovescia il succo d’arancia, Tom si alza per prenderne un altro. La mischia ai tavoli è peggio del solito, il maltempo ha di certo indotto tutti a cenare puntuali alla stessa ora. Forse nell’edificio principale si sentono più sicuri, forse non si sopportano più e non sopportano i figli che già nel pomeriggio non potevano più uscire.
Nella fila davanti ai distributori automatici di bibite lo sguardo le cade su una nuca che sembra ricoperta di una spugnetta grigia come l’acciaio. Le batte il cuore, esce dalla fila, avanza di tre passi e si mette accanto al vecchio che è ritornato dal mondo parallelo.
Scusi, dice Tom, è lei che mi ha parlato durante la grigliata di pesce?
L’uomo la guarda dal basso. Io non la conosco, dice, mi confonde con qualcun altro.
No, dice Tom, non credo. Eravamo davanti al banco del tonno e mi ha detto che le ricordavo sua sorella.
Io non ho sorelle, dice l’uomo, e non è affatto scortese. Almeno non che io sappia. Ma in fin dei conti non si può mai esserne sicuri.
Allora devo averla davvero scambiata con qualcun altro, dice Tom che è sicura che l’uomo menta e crede di capire che abbia un motivo urgente per farlo.
Kostja, chiama una donna che li raggiunge a spintoni, Kostja, sono qui!
La donna, proprio come l’uomo, indossa un gilet pieno di pratici taschini. Vicini sembrano due vecchi gemelli durante una pericolosa scarpinata per la quale si consiglia di avere sempre con sé gli oggetti più importanti.
Mio fratello l’ha importunata? Domanda la donna.
Ma no, nega Tom. Al contrario, sono io che gli ho rivolto la parola perché credevo che di recente, durante la grigliata…
La donna si volta appena di lato, dà le spalle a Kostja e rivolta a Tom sussurra: è possibile, ma devo informarla che purtroppo non è più molto… E così dicendo alza la mano come se volesse mettersi i capelli dietro l’orecchio, ma quando la mano è abbastanza vicina si picchietta con risolutezza il dito sulla tempia. Nel frattempo l’uomo è avanzato nella fila, Tom gli nota un sorriso di scuse all’angolo della bocca. Scuote incredula la testa.
Per favore non me ne voglia, dice alla donna, ma avete altri fratelli?
La donna la guarda. Adesso non più, adesso siamo solo noi due, ma prima…
Si volta ed esclama con tono perentorio: Kostja! Niente succo di arancia! Ne hai già bevuti due! Non lo digerisci! Prendi l’acqua! Kostja, per favore!
Poi si scusa e fa qualche passo verso il fratello, Tom rimane ferma lì ad aspettare il proprio turno.
Immagina come sarebbe vedere un sosia di Martin, qui nella mischia. Di sicuro non si metterebbe a piangere, al contrario, cercherebbe di distruggere quel miraggio prima possibile. Non gli rivolgerebbe la parola, neanche se l’estraneo avesse un particolare sconcertante, per esempio, i lobi attaccati nello stesso identico modo, lo stesso dopobarba oppure un’ustione sul polso sinistro. Certe cose esistono, non bisogna meravigliarsi, il destino ti sfotte oppure l’illusione e il desiderio alterano la percezione. E inoltre Martin non sarebbe mai venuto in un posto come questo. Nemmeno morto.
Quando torna al tavolo con diversi bicchieri di succo, i bambini sono seduti lì da soli. Papà è andato in bagno, afferma Jonas, papà è venuto a cercarti, afferma Karo, papà non c’è, constata Lenny, e gli altri ridono. Aspettano un po’, i grandi vanno a prendere altro pudding per loro e per Lenny. Tom decide di abbandonare il tavolo, dato che i posti scarseggiano e la gente innervosita si aggira con i piatti in mano e le chiede di continuo se si possono sedere al loro tavolo. Se andiamo adesso nella lobby, troviamo ancora posto, dice Tom che in nome di Dio si chiede cosa fare di quella serata appena iniziata. Lampi, tuoni e pioggia senza fine. La banda al completo si ammasserà ai due bar e l’atrio non è stato concepito per questo. In genere qui piove solo per poco e di rado, quello che sta avvenendo esce da tutti gli schemi. Tom ha sentito dire che ci sono stati smottamenti e allagamenti, non proprio lì vicino, ma in quella parte del paese. Beve due gin tonic, uno dopo l’altro, e riesce a giocare con i bambini quattro mani di Uno senza che nessuno dia di matto. Di tanto in tanto le porte dell’ingresso si aprono ed entrano acqua e vento. Più tardi torna Georg, fradicio ma di ottimo umore. Dice di aver dato una mano là dietro, all’acquapark, a smontare una pompa che dovevano estrarre da un casottino allagato. Non sapevo che sapessi fare una cosa del genere, dice Tom. Neanch’io, dice Georg, ma c’erano anche altri che se ne intendevano. Un paio di metri davanti a loro una donna con i capelli lunghi attraversa la sala, bella come una sirena e come una sirena sembra che agiti la mano una, due volte verso di loro. Tom si volta ma dietro di loro ci sono solo due camerieri in uniforme marrone impegnati in un complicato baratto tra i carrelli di stoviglie: uno riceve una pila di piatti sporchi, l’altro prende in cambio una bacinella piena di posate, tra notevoli tintinnii e sbatacchii. Quando Tom si volta di nuovo, la donna è sparita, Georg guarda raggiante lei e i bambini e ha le guance rosa.
Il giorno della partenza è uno di quelli che è meglio dimenticare in fretta. Il transfer per l’aeroporto è prestissimo, il cestino per il pranzo dell’hotel è rinsecchito, un succo di frutta si rovescia fuori dal tetrapak. L’aereo in ritardo, l’arrivo col buio, i bambini stanchissimi e irritati. Non appena sono tutti a letto, Tom carica la lavatrice. Ci si siede davanti, per terra, con un libro che non legge e si lascia invece ipnotizzare dal cestello mentre ripercorre con la mente la vacanza. A che scopo si va in vacanza? Cosa significa riposare? Perché le riesce così difficile passare da una routine all’altra, in un senso e nell’altro? Ogni volta che arrivano le vacanze, desidera rimandarle ancora di un paio di giorni con un colpo di bacchetta magica alla Harry Potter. Ogni volta non si sente pronta. E dopo, quando infine si abitua all’inattività per la quale, all’inizio, ha faticato a trovare un assetto, non riesce quasi più a credere quante cose riusciva a incastrare prima in una giornata che passava così svelta. Si domanda se riuscirà di nuovo a tenere un simile ritmo. E in realtà che cosa rimane di un viaggio del genere? Certo, si è stati in un altro posto, del tutto sconosciuto, si è visto un po’ più di sole. Si è nuotato in mare. E cos’altro?
Se non ti viene in mente niente di meglio che una vacanza da portinaio! La voce nella sua testa sembra quella di Martin e la difesa di Tom arriva così in fretta da suonare falsa. I bambini, se si vuole avere un po’ di riposo anche con i bambini, allora questa è la soluzione più facile… in quale altra circostanza nella vita si decide per la soluzione più semplice? Certo che un campo di sopravvivenza in un bosco, dove ci si deve costruire da soli tutti gli utensili e gli arnesi, catturare gli animali, ucciderli e arrostirli, sarebbe molto più istruttivo e stimolante per la mente rispetto ai buffet saccheggiati e ai bambini di appena due anni già rovinati dal benessere che non ingurgitano neanche un cucchiaio di cornflakes se non lampeggia l’iPad.
Ma Tom non riuscirebbe neanche dopo quattro settimane di vacanza al mare a decidersi ad affrontare una tale sfida – che sia la foresta canadese con i bambini o anche soltanto una vacanza in campeggio. Forse nel suo intimo è una portinaia. Oppure non ha proprio alcun talento per le vacanze. Tom invidia le persone che hanno hobby ben definiti. Conosce alpinisti appassionati che hanno portato con sé i bambini fin da piccoli e li hanno abituati all’alta montagna. Il risultato sono bambini di nove anni che partono all’alba senza brontolare per scalare una vetta di tremila metri. Un’altra amica, durante il periodo dei Festival, va a concerti e spettacoli teatrali con la figlia di undici anni. Un’eccezione, bisogna ammetterlo. Quando invece la domenica Tom raduna i figli per una passeggiata nel parco, cominciano a piangere di rabbia. E cioè prima e non durante, perché allora quasi muoiono per le fitte di dolore alla milza.
Esperimento mentale: Che cosa mi piacerebbe fare? Si domanda Tom. Se potessi scegliere senza costrizioni, senza nessun riguardo? Farei una vacanza d’amore con Georg alle isole Cicladi, come un tempo? No, non lo farebbe perché avrebbe i sensi di colpa. Parcheggiare i bambini da qualche parte e sdraiarsi al mare a contare i giorni che mancano prima di poter riprendere il comando sperando che nel frattempo non si siano già disabituati a lei grazie al lassismo dei nonni. È possibile che sia lei ad aver bisogno dei bambini per dare una struttura alle giornate piuttosto che il contrario? Tutt’al più riuscirebbe a rilassarsi da sola se sapesse che almeno Georg è a casa e che tutto segue il proprio corso. Allora forse farebbe una vacanza studio, nelle stanzette oscurate di un caldo paesino, per imparare l’italiano, o il greco. E così avrebbe di nuovo una giornata regolata, i compiti, l’aspettativa di raggiungere determinati risultati. Tutti gli studi sulla disoccupazione mostrano che l’inoperosità fa impazzire gli esseri umani. Ma allora cosa accidenti ce ne facciamo delle ferie? Appunto: una vacanza da portinaio per via dei bambini. La grassa svedese le punta contro l’indice impanato con le grasse briciole di croissant e le sorride invitante. Indossa una camicia giallo limone della grandezza di una tenda che le incornicia la scollatura rosa scottata dal sole. Colori allegri. Da quand’è che è di buon umore? Tom non vuole che torni a essere scorbutica per causa sua e decide di leccare quel dito estraneo. Sebbene le sembri un gesto piuttosto intimo.
Georg la sveglia, è sdraiata sul tappetino davanti alla lavatrice. Tom gli spiega che deve aspettare che la lavatrice abbia finito per mettere la biancheria nell’asciugatrice in modo che domani mattina la borsa dei bambini sia pronta. Georg dice che l’ex può aspettare, che anche dopodomani quella dannata borsa…
Vuoi andare da lei per forza? Chiede Tom. Quando è possibile evitarlo?
Tom, dice Georg, voglio che adesso vieni a letto. First things first.
Tom si accorge che ha un nodo in gola e non sa perché. Voglio liberarmene, dice, voglio queste cose pulite e in valigia così da non doverci pensare per almeno una settimana. Se quella cretina dirà che manca di nuovo qualcosa, allora sono io che me ne dovrò occupare, se dirà un’altra volta di aver avuto indietro una maglietta o un paio di pantaloni in meno…
Tom, dice Georg, per favore vieni a letto adesso. Per favore.
Tom dice, dieci minuti adesso non fanno differenza. È come una bambina arrabbiata che si preme le mani davanti alla faccia fino a quando sente che Georg è uscito dal bagno.
La mattina dopo, a colazione, Tom continua a lamentarsi per aver prenotato quel volo così tardi: avrei dovuto saperlo. Non dobbiamo farlo mai più.
Georg le ricorda che era stato chiaro fin dall’inizio. Che i loro voli erano così economici perché la gente non voleva tornare di sera, prima dell’inizio della scuola. Ma gli acquascivolo erano fantastici, dice Lenny con la bocca piena, ci torneremo?
Va a vedere cosa fa, chiede Tom ammettendo così di aspettare come sui carboni ardenti l’apparizione di Karo. Dopo averla svegliata Tom è già stata tre volte nella stanza dei bambini. La prima volta Karo era seduta per terra con indosso soltanto le mutande e si stava tirando su un calzettone, la seconda volta stava armeggiando con il secondo, la terza volta era solo seduta mentre il viso si rabbuiava nel solito modo. Tom si era rifugiata in cucina per non scatenare l’accesso di rabbia.
Karo è molto sensibile allo stress. Più si cerca di incitarla e più diventa lenta e testarda. La cosa migliore è assecondarne il ritmo, non sempre in accordo con l’orario di inizio della scuola.
Georg trascina Karo in cucina per un braccio. Al contrario di quanto si aspetta Tom, la bambina non s’infuria, ma guarda colpevole per terra. Indossa il vestito rosa a fiori che Tom le ha comprato per il concerto della scuola tra due settimane. Tra dieci giorni, per l’esattezza. Se la prossima settimana sua madre dimentica di restituirglielo, non avranno un vestito. È questo dunque il motivo di tutta quella commedia. La bambina vuole indossare il suo bel vestito e sa che non può.
Tom è animata da sentimenti contrastanti. Mostrare alla madre che belle cose compra ai bambini, lei, la matrigna. Abiti che i bambini amano così tanto che non vogliono più toglierseli. Allo stesso tempo la paura di non vedere più il vestito. Lo ha comprato in una piccola boutique francese. Era un pezzo unico, e anche se non lo fosse neppure lei è così stramba da comprare di nuovo lo stesso vestito per calibrare quel folle patchwork.
Con voce vellutata Tom comincia a parlare. Le fa molto piacere che a Karo piaccia così tanto quel bellissimo vestito – ti sta anche molto bene, mia cara. Ma anche lei sa che è per il concerto… eccetera.
La tua mamma mi stressa tutte le volte se non tornate da lei con indosso le cose con cui siete venuti qui, la interrompe Georg. Quindi, per favore, dopo colazione, mettiti quello che ti ha preparato Tom.
Tom si concentra sulle mani di Karo. Butterà per terra una tazza? C’è un coltello nei paraggi? Ma Karo spalma una fetta di pane con la Nutella, su e giù, su e giù, con quell’ossessione infantile per cui lo strato deve essere perfetto e uniforme un attimo prima di divorarlo. Una lacrima le cade sul dorso della mano in silenzio.
Un quarto d’ora più tardi, Tom e Karo sono sedute sul pavimento della camera dei bambini. Karo indossa di nuovo la biancheria, l’orologio ticchetta, Georg è all’ingresso e passa le chiavi della macchina da una mano all’altra. Karo è riuscita a rinunciare al vestito, ma rifiuta la graziosa minigonna in silenzio, mentre il labbro inferiore le trema per la disperazione.
Tom ripiega perplessa la gonna sulle sue ginocchia. Dovresti indossarla davvero, dice, questa gonna appartiene alla mamma. Allora Karo gliela toglie di mano e la capovolge. Tom ha bisogno di un momento per capire. Un’asola color argento sull’orlo, la prova irrevocabile che la gonna è sua e non della mamma. La bambina non sa niente di quei contrassegni, ma sa che con quella gonna è rimasta impigliata da qualche parte, a un cespuglio o a uno steccato, e che la guarnizione è strappata di un paio di centimetri.
I bambini non indossano mai abiti puliti, quando tornano da me, le cose che gli ho comprato io sono sempre strappate e rotte.
Tom ride e si alza. Hai proprio ragione, Karo, dice Tom, questa non è quella giusta! Adesso ricorda lo scambio prima della partenza. Una settimana di vacanza con un mucchio di abiti che appartengono al nemico, è paragonabile allo stress di una guardia del corpo quando il papa o il presidente decidono di fare un improvviso bagno di folla. Con decisione, estrae le cose dal cassetto, mostra a Karo la gonna piegata come una commessa che decanta la merce, la rigira, le fa vedere che è intatta, senza asole e pulita. E allora tutto procede alla svelta, la bambina indossa la gonna e la maglietta, Tom rifà in fretta la valigia senza dare spiegazioni. Sulla porta dà gli ultimi ritocchi ai bambini, Jonas riceve due colpi di spazzola sulla testa, Karo un bacio e una mano per battere il cinque. Anche questa volta è andato tutto bene. Quando Tom spinge i bambini fuori di casa e li guarda allontanarsi mentre scendono saltando i sontuosi scalini di pietra, le scale si trasformano nelle rotaie leggere sulle quali sferragliavano gli otto volanti della sua infanzia. Come divertenti scale a chiocciola, sospese su pali, in sgargianti colori pastello intonati ai cappelli indossati da Martin e Tom. Lì sopra, su un vagoncino che ha una forza sconosciuta, Tom sfreccia via, come un arruffato personaggio dei fumetti.