I bruchi sfinge del tabacco, quando mangiano, si scavano la tomba senza volerlo. Stimolata dalle secrezioni orali della digestione dei bruchi, la pianta del tabacco libera essenze che attirano predatori d’insetti. Peccato per i bruchi, perché in realtà le loro secrezioni orali dovrebbero avere solo un effetto antibiotico.
Dopo il litigio con Katharina Konrad si ritirò subito in cantina per continuare a lavorare all’annuncio mortuario. Questa volta fu molto difficile mandarla via. Ricorse alla vecchia tattica di non reagire, fermo sul pianerottolo come un ceppo fatto persona a osservare, senza prestare il fianco a ulteriori attacchi. Sanguinava da ogni piega dell’anima e tutti si ostinavano a ignorarlo, Katharina come Helena, con la quale di sicuro Katharina stava già parlando al telefono. Konrad si fermò sul pianerottolo, muto e appena sanguinante, tutte le sue certezze, l’amore e la fiducia nella famiglia come opera di tutta una vita, colarono sui gradini di marmo, e che lui non si muovesse, non battesse ciglio e sembrasse spietato, come gli avevano rimproverato più volte tutte e due, dipendeva solo dal fatto che ogni movimento lo avrebbe fatto crollare. Non mi sbarrare la strada, sibilò Katharina, lasciami almeno salutare mia madre, ma lui rimase immobile, con lo sguardo fisso, perché non poteva muoversi, farsi da parte, non avrebbe sopportato di sentirsi sfiorato dal corpo matronale di Katharina nel caso l’avesse lasciata passare, così la respinse con lo sguardo fuori dalla porta.
Da sopra non giungeva alcun suono. Sospettava che Katharina parlasse molto forte di proposito, ma avrebbe potuto dirle, avrebbe potuto garantire alla sua inconsapevole, spietata, dispotica figlia, che c’era ancora qualcosa che funzionava, perlomeno quell’intimo legame tra lui e Grete. Grete aveva sempre saputo quando lasciare che fosse lui a prendere la situazione in mano, per la sicurezza di entrambi.
Questa volta basta, papà, disse infine Katharina con una voce che sembrava provenire da una botte vuota, non te la caverai così. Ma poi se ne andò e quando infine la porta si richiuse, Konrad rimase ancora un paio di minuti lì, immobile, fino a quando riuscì a scendere di sotto, il corpo così insensibile e goffo come se si muovesse ancora soltanto nei ricordi della vita precedente.
Di sotto, subito dietro la porta della sua grotta-esilio, era appesa la foto incorniciata di Grete con il vestito giallo. Curzola nei primi anni settanta. E come rideva. Lui non stava bene a quei tempi. Se non sbagliava il primo collasso cardiocircolatorio lo aveva avuto in azienda, poco prima di quella vacanza. Per questo non riusciva proprio a tollerare i bisticci delle bambine, le grida e i pianti e i morsi e i graffi mostrati dalla vittima di turno con melodrammatico orgoglio. Grete portava le bambine in salvo da lui, e mentre si voltava già mutava il disprezzo che serbava per suo marito in una sdolcinata aria benevola. Nuotava con loro al largo, giocava a carte e a volano, la sera tagliava loro la carne e leniva le punture di insetti, ma di notte, quando alla fine c’era silenzio ed era buio e senza luogo, Konrad e lei si ritrovavano sempre, nonostante tutto, con il sapore di sale e la sabbia ovunque e visti adesso quei turbolenti anni giovanili sembravano pura felicità.
Avrebbe tolto la fotografia, presto. Almeno lì sotto faceva ancora quello che voleva. Arriva il giorno in cui tra i bei ricordi e il presente c’è uno squilibrio così stridente che si preferisce sbarazzarsene del tutto. A quel tempo, in Iugoslavia, si conoscevano già da quasi vent’anni. Ma dal giorno in cui, affamati di vita, si erano incontrati per la prima volta nel dopoguerra, fino a quel dolce viso aperto di Curzola sembrava che tutto fosse accaduto in un battito di ciglia. E poi un giorno la tempesta si abbatte sull’albero, stacca tutte le foglie in una sola volta e non ne lascia nessuna, neppure la più piccola, dorata.
Se avesse preso la fotografia, avrebbe potuto imballarla subito. Ma al contrario delle cose già spartite, non era in grado di dire con certezza se riporre la foto nella scatola di Katharina o in quella di Helena. Di certo avrebbe potuto farne fare una copia, comprare un’altra cornice uguale a quella, molto comune. Tuttavia si sarebbe notato ancora qual era l’originale. E questo avrebbe portato a un nuovo conflitto, anche se Konrad non era in grado di dire quale delle due avrebbe avuto più valore per le figlie: la foto polverosa o quella nuova, oppure per ciascuna quella dell’altra, quella che non avrebbero ricevuto. Quest’ultimo caso è il più probabile.
In un momento di maggiore pace interiore, tra un paio di giorni o tra una settimana, avrebbe riflettuto ancora sull’idea di preparare una scatola a parte per Joshua. Una più piccola, quasi a completare quella di Helena. Sarebbe stato appropriato o solo una cattiveria? Lo avrebbero interpretato con un gesto sensibile o, al contrario, come un’accusa?
Ma – e allora si sarebbe potuto arrabbiare di nuovo per i mille riguardi che lo avevano addestrato ad avere nei loro confronti – almeno questo era indiscutibile: di tutti i nipoti solo Joshua aveva avuto fin dall’inizio una stretta relazione con Grete, proprio lui, quel teppistello imprevedibile. Quand’era bambino, lei era l’unica che riusciva a tranquillizzarlo. Avevano fatto insieme i biscotti di Natale per anni: amaretti, stelle alla cannella, pasticcini ungheresi Gerbeaud. E anche oggi, quando Joshua veniva da loro, entrava disinvolto nella stanza di Grete, le teneva la mano, chiacchierava e rideva con lei, nessuno sapeva di cosa. La fotografia della bellezza estiva con il vestito giallo a rombi sarebbe spettata a Joshua come a nessun altro.
Konrad si sedette alla scrivania e aprì il quaderno a righe. Certo, possedeva un computer e lo utilizzava con quel misto di orgoglio e paura, tipico della sua età. Se tutto funzionava come desiderato, traeva una sicurezza di sé quasi oscena e la sensazione di essere indietro rispetto allo spirito del tempo si faceva irrisoria. Ma presto l’oggetto si vendicava, faceva sparire i piccoli simboli da cliccare, che diventavano introvabili, ti minacciava con messaggi di errori, cambiava fisionomia, per farla breve si comportava come un essere vivo, incomprensibile e aggressivo, come una figlia adolescente. Allora doveva venire Katharina e il malumore trattenuto della figlia mentre sfrecciava qua e là con il mouse, lo faceva sentire l’ultimo degli idioti, uno che non aveva nessun diritto di esistere nel mondo moderno. Espellere, pensava, come hardware sono senz’altro da rimozione sicura.
Per questo motivo il computer era fuori questione. In questo caso era importante percepire ogni passo, gli schizzi e le variazioni fatte con la calligrafia che ancora vantava. Non sarebbe bastato sovrascrivere un documento di word. Nel frattempo pensava davvero che avrebbe avuto bisogno di un secondo quaderno. Che uno non sarebbe bastato. Anche per questa evenienza si era già perdonato. Da quando era impegnato in questo lavoro, aveva capito quanto doveva essere difficile fare lo scrittore. C’erano così tante possibilità. Così tante combinazioni. A seconda di come si comincia, i moduli testuali che seguono acquistano un aspetto del tutto diverso. Ogni frase tedesca può essere scritta in tantissime varianti. Aveva avuto una vita colma di amore e di premure per la famiglia. Amore e premure per la famiglia avevano colmato la sua vita. Premure e amore. Non si diceva amore di e premure per? La famiglia era stata il centro della sua vita, tutto il suo orgoglio. L’amore per lei, per chi, per la famiglia…
Assurdo, mormorò allora Helena senza sapere che il padre aveva alzato il ricevitore dell’altro apparecchio: proprio assurdo – che per ogni cosa c’è del personale specializzato, che lo sa fare meglio, che ha esperienza, non vuole proprio entrargli in quella testa da dittatore. E Katharina la assecondava: non capisce la società dei servizi. Eppure ci sono donne delle pulizie, lavavetri e consegne di pasti a domicilio, ci sono istituti per anziani che accolgono anche ospiti giornalieri, dove potrebbe portarla per due o tre pomeriggi…
Konrad era lì fermo, nell’angusto corridoio davanti alla stanza di Grete e non osava premere il pulsante rosso. Forse le figlie avrebbero sentito un clic e saputo così che le aveva ascoltate. E per quanto le loro parole gli facessero male, tuttavia l’avidità di dettagli era irrefrenabile. Ascoltare quanto fossero senza pietà, senza cuore e fredde, quanto male interpretassero tutto quello che faceva, i terribili sforzi. Alla fine, d’un tratto, quelle due furono d’accordo e conquistarono un insospettato potere. Come san Sebastiano, Konrad lasciò che le frecce penetrassero nella carne, era immerso nel sangue fino alle caviglie, ma dritto, saldo sulle gambe. E se c’era una cosa che rimpiangeva, era che non avrebbe assistito al momento in cui quelle due si sarebbero pentite davanti alla sua tomba.
Quando la conversazione terminò e Konrad sentì Helena far chiasso di sotto, in cucina, rimise con cautela la cornetta a posto. Aprì di un paio di centimetri la porta accostata di Grete. Era seduta nella sua poltrona e dormiva. Il sole splendeva su di lei e sui cactus grassottelli. Sorrideva nel sonno. La sua vecchia ragazza. Quando Konrad, senza socchiudere gli occhi e respirare, le fissava il viso e aspettava che tutto il resto si dissolvesse, le tristi pennellate grigie intorno alla testa e il putrido delta in cui il corpo si era disfatto, allora gli sembrava di ritrovarla, o almeno l’idea di Grete, come se occhi, naso e bocca fossero soltanto velati da una carta brunastra e stropicciata.
L’osservazione riguardo alla società dei servizi che lui, a quanto pareva, non capiva, gli si era invischiata nella memoria in una maniera che le figlie non avrebbero potuto immaginare. Poteva fare a meno dei loro consigli sugli aiuti assistenziali e sulle pulizie, gli bastava guardare Grete che dormiva in poltrona. Pacifica. Pacifica, dannazione. Quando si svegliava poteva accadere che accarezzasse con le dita i cactus, la lanugine che splendeva fiabesca nel sole, e allora sorrideva e rideva e gli confidava che quei coinquilini verdi e irriconoscenti qualche volta la pizzicavano. Ma pochi minuti più tardi, si metteva sgomenta l’indice in bocca e rifletteva su cosa le fosse capitato.
Davanti a lui Grete aveva rinunciato a ogni difesa e questa, Konrad lo sapeva, era la prova di fiducia più grande. Forse addirittura: l’essenza dell’amore. Non c’è più niente che funziona, solo la consapevolezza della direzione da cui arriva l’aiuto.
– Dimmi, Konrad, è tanto che non cucio più?
Si sentiva sicura solo lì, in quei dodici metri quadrati. A volte dimenticava dov’era il bagno. In una delle notti più brutte Konrad l’aveva trovata che scuoteva la porta dell’armadio, gli occhi enormi, pieni di panico. C’è qualcuno dentro, piagnucolava Grete, qualcuno si è chiuso dentro e non mi lascia entrare.
Più tardi, quando l’aveva pulita e rimessa a letto, era ricomparso un frammento di quella paura delirante, sommato con terrore ai resti di un’altra più autentica e antica. Konrad le aveva tenuto la mano ma aveva faticato a tranquillizzarla, non perché si era sporcata – questo lo aveva già dimenticato – ma perché era convinta che si trattasse di Fiona. La loro figlia di mezzo si era chiusa in bagno, come sempre, come un tempo. Ma adesso era andata via, l’avevano mancata di nuovo, non la vedevano da così tanto tempo. Konrad aveva abbassato lo sguardo sulla mano di Grete perché lei non si accorgesse delle sue lacrime. È tutto a posto, e Fiona sta bene, aveva aggiunto a piena voce. Fino a quando gli aveva creduto oppure fino al momento in cui la vaga consapevolezza della catastrofe era stata cancellata da quella implacabile spugna che lavora senza sosta nella sua testa.
Un circolo ricreativo per anziani o un qualsiasi altro posto nuovo l’avrebbe uccisa! Anche se fosse stato solo per poche ore. Grete non aveva più nessun senso del tempo. Prima di portarla in giardino d’estate, Konrad la preparava per giorni. Si metteva con lei alla finestra e le spiegava tutto. Esaminavano una a una le piante e gli alberi. Le proponeva di continuo di andare a visitare il giardino e guardare i fiori da vicino. All’inizio Grete sorrideva timida e faceva la preziosa, ma dopo un paio di giorni, con la finestra aperta e il canto degli uccelli, poteva accadere che dicesse di esserci già stata il giorno prima. Solo allora Konrad l’accompagnava piano di sotto: guarda la tua violetta africana, guarda le orchidee, qui le foto dei nostri figli, a sinistra Helena, cioè Ilka, a destra Kathi e al centro Fiona, e là davanti, tu lo sai bene, c’è la porta della terrazza, attenta, c’è uno scalino, adesso noi due andiamo a sederci in pace là fuori.
Perciò non solo il caffè con le amiche all’ospizio sarebbe stato impossibile, brutale e violento, simile a un tentato omicidio, ma anche un aiuto per le pulizie domestiche o un lavavetri avrebbero sconvolto il suo equilibrio. Tutto questo, quelle due cretine patentate delle figlie non lo capivano. Così, negli ultimi tempi, non gli era rimasto altro da fare che tenerle lontane con il suo silenzio, quasi fossero tornate insopportabili come a dodici anni. Così le buttava fuori di casa, anche se qualche volta sognava a occhi aperti gli attrezzi da giardino, il rastrello, la vanga, il piccone, con cui lui, cavaliere furioso e bagnato di lacrime com’era nella parte più tenera dell’anima, le sospingeva nel meritato gelo.
Studiò altre poesie di Rilke, sebbene già da tempo avesse scelto il proprio aforisma – in realtà era stata la prima cosa. Da decenni sapeva che avrebbe usato lo stesso che lui e i fratelli avevano assegnato al padre, sebbene, e questo lo disturbava sempre di più, nel frattempo era diventato molto di moda. Si potrebbe pensare che proprio con Rilke la scelta sia abbastanza vasta, invece… Più si riflette su una cosa, più aumentano i dubbi. Konrad ricordava di aver letto un saggio che dimostrava che le decisioni prese sotto pressione, erano quelle di cui in seguito ci si rammaricava di meno.
Nel frattempo c’erano giorni in cui propendeva per strofe che in quel particolare contesto erano piuttosto incomprensibili, quasi stridenti. E Konrad si compiaceva all’idea dei visi confusi. Per esempio: Un saluto già a me non più rivolto, replicato in silenzio – quasi già inesplicabile: un susino forse, onde un cuculo spiccò brusco il volo.
Gli piaceva il susino, gli piaceva il cuculo. Viola o arancione nella mente, colori festosi. È vero che non era sicuro se quegli uccelli stessero sui susini e di certo percepiva la sfacciataggine dell’espressione spiccò brusco il volo. Se solo avesse qualcuno, uno sconosciuto, un estraneo cui chiedere consiglio! Gli tornò in mente l’espressione Società di servizi e il potenziale di seduzione che aveva non lo abbandonò più per alcuni concitati giorni.
Arrivò al punto da cercare in internet le imprese di pompe funebri più vicine. Con una seconda mossa più assennata ne cercò su Google alcune all’altro capo della città, perché non voleva essere riconosciuto. Allo stesso tempo, in ogni momento fu cosciente che l’appuntamento che si figurava in tutti i dettagli – le spesse cartelline con gli esempi del testo e dei caratteri, i campioni di legno di diversi colori, maniglie d’ottone o cromate – con tutta probabilità non l’avrebbe mai preso. Non solo perché non era sicuro di lasciare Grete da sola più a lungo del tempo che gli serviva per fare la spesa. Ma anche supponendo che un simile consulente funebre, nel proprio campo avesse già visto davvero di tutto e che quindi ben sapesse mantenere la propria empatica calma – ciononostante sarebbe stato lui, Konrad, con lo sguardo da cane bisognoso e i sentimenti strazianti a entrare nel negozio per farsi aiutare a scrivere il proprio necrologio. E l’ostacolo era questo. Non riusciva a rimuovere se stesso.
A volte lo angosciava l’idea che una specie di lapide rotolasse giù per le scale, fino alla sua porta e lo imprigionasse lì sotto. Oppure che, per un oscuro motivo, avrebbe preso a gonfiarsi al punto di non poter più uscire da quella stanza. Aveva già pensato alla possibilità di trasferire l’ufficio in soffitta. Ma avrebbe avuto bisogno di un aiuto, di traslocatori per portare tutto di sopra, forse di un elettricista o addirittura di qualcuno che isolasse il tetto. Tutto ciò non solo deponeva a sfavore dell’idea, ma era troppo anche solo per continuare a pensarci. Là sopra però, seduto alla scrivania, avrebbe visto il cielo e non solo una presa d’aria. Da lassù, in caso di emergenza, sarebbe potuto saltare giù.
Si girò verso il suo computer, aprì l’e-mail, cliccò su Nuovo messaggio, lo indirizzò alle figlie e scrisse nella riga dell’oggetto Le nostre ultime conversazioni.
Cara Kathi, cara Ilka, accetto i vostri consigli che so a fin di bene quasi al cento per cento (vedi i lavori edili). Concedetemi per favore quei pochi punti percentuali su cui sono di un’altra opinione. Forse vi sarà possibile prendere in considerazione l’idea che nessuno conosce i bisogni di vostra madre meglio di me. E che per nessun altro la sua salute può essere più importante. Qualunque cosa pensiate di noi, forse dovreste sapere che facciamo ancora l’amore e con piacere.
Vostro padre.
Quasi da sola la freccia del mouse scivolò sul bottone d’invio. Mentre lo premeva, Konrad vide davanti a sé un’immagine simile a quella dei libri di preghiera medievali o, forse meglio, di una carta da parati a corte, tanti sottili viticci e giovani coppie di filigrana che si baciano tra susini e cuculi. Arancione e viola, colori festosi. Forse avrebbe dovuto cancellare e con piacere. Ma cosa cambiava.
Si alzò, salì lento le scale fino in cucina, e prese una birra Ottakringer. Si appoggiò al piano di lavoro e bevve dalla bottiglia. Un vecchio che in pieno giorno beve da solo e in piedi. Vedovo, sebbene lei ci sia ancora. Un giorno avrebbe dimenticato di farsi la barba, perché in fondo non era importante – così come lei avrebbe dimenticato chi era lui, per Grete era uguale, l’importante era avere da mangiare.
Dalla dispensa prese gli attrezzi per le pulizie che aveva preparato la sera prima. In un secchio di plastica rossa, simile a una spaventosa nuova varietà di fiori, era infilato un mazzo di oggetti: guanti di gomma, il piumino per spolverare, un lavavetri con una guarnizione di gomma su un lato e la spugna sull’altro e una sottile bottiglia spray di detergente per i vetri del più igienico blu acquamarina. E inoltre quella cosa che soltanto con l’aiuto di una paziente vicina Konrad aveva potuto identificare come un utensile per la pulizia degli interstizi del termosifone. Portò tutto al primo piano, poi si preparò a svegliare Grete dal sonnellino pomeridiano.
Se le avesse lasciato fare come voleva, non si sarebbe alzata più. Sarebbe rimasta a letto a dormire oppure si sarebbe stiracchiata con gli occhi chiusi per fargli capire che da nessuna parte si sentiva sicura come a letto. Tempo prima era il contrario. Allora, durante i fine settimana, i sibili di esortazione di Grete filtravano vaghi nel sonno mattutino di Konrad, e quando infine si alzava, indossava una camicetta ben stirata, aveva il pranzo nel forno e usciva per andare a prendere le bambine dai sempre disponibili vicini, che secondo Konrad non aspettavano altro che godersi in prima fila lo spettacolo di una felicità borghese che andava in malora.
Dopo un po’ riuscì a persuadere Grete ad alzarsi. La portò in bagno e le ricordò di andare subito al gabinetto. Rimase in ascolto dietro la porta accostata. Quando Grete tirò lo sciacquone, Konrad entrò e le preparò lo spazzolino. Poi tornò con i vestiti che lei doveva indossare per fare le pulizie, Grete lo osservava e con l’indice destro picchiettava sul serpentello di dentifricio.
Bruco bianco, disse e sorrise, senza peli ma con molte gambe.
Konrad le portò la mano alla bocca, si sedette sul bordo della vasca e, mentre lei controvoglia cominciò a lavarsi i denti, le raccontò la vecchia storia, rimasticata cento volte, di Helena che per il primo giorno di scuola materna desiderava un cammello di peluche. Com’era stato difficile. Elefanti, tartarughe e scimmie, addirittura maialini e ovviamente orsi di ogni tipo, c’era di tutto, tranne i cammelli. Alla fine ne avevano trovato uno, piccolo e brutto, con un tappeto ricamato sulla schiena. E la piccola Helena, Ilka, aveva preteso subito che glielo togliessero: voglio un cammello nudo!
Da allora quella frase fu parte di lei. Erano cocciute, tutte e tre, come asini. Ma un tempo, quando Ilka insisteva su qualcosa oltre ogni buonsenso, tutti esclamavano: voglio un cammello nudo!
Grete gli sorrideva, persa. Forse non lo aveva nemmeno ascoltato. Sembrava che prendesse quelle storie, i tentativi di ricordare e le offerte di conversazione come un gentile accompagnamento musicale. Ma Konrad non riusciva proprio a immaginare che nemmeno quella frase trovasse più un’eco dentro di lei. Non era possibile. Se lo avesse ritenuto possibile, allora si sarebbe messo a piangere. No, a gridare, si sarebbe suicidato. Per questo non poteva essere. Non lo aveva ascoltato, tutto qua. Era impegnata con lo spazzolino. Konrad nutriva il sospetto che negli ultimi tempi Grete si lavasse i denti solo in alcuni punti, ma rimandava la verifica a un momento futuro. Controllare una cosa del genere significava che presto avrebbe dovuto anche lavarle i denti, così come già le metteva in mano la carta igienica. Cosa sarebbe venuto dopo era chiaro.
Come l’ultima volta, sulle prime Grete non volle salire la scala. All’inizio fu gentile – credo di non saperlo più fare, non lo faccio da tanto tempo. Poi si mostrò impaurita, eppure era lui che soffriva di vertigini, si sapeva. Grete piagnucolò e si lamentò che era troppo stanca e debole, lui la apostrofò con durezza, ti sei appena alzata. E quando anche questo non servì a niente, Konrad la prese per il gomito e glielo piegò appena all’indietro, era così che era riuscito a farla salire l’ultima volta.
Quando Grete fu in cima alla scala e si tenne forte, Konrad le porse il lavavetri e il detersivo. E poi, con una passata decisa, la lavagna interiore si cancellò ancora, Grete dimenticò la paura e la riluttanza, tutto ciò che era appena successo. Forse in simili momenti si sentiva di nuovo giovane in un senso molto più autentico di quello che sarebbe stato per lui, persino se si fosse trovato nell’improbabile situazione di sentirsi per un momento come a trenta, quaranta o cinquanta anni, o quando mai era stato giovane, quando la vita sembrava essere ancora qualcosa di diverso da un piano inclinato su uno stagno nero. Ma Grete sulla scala cominciò a pulire quasi ci fosse un grazioso premio in palio come un tempo per le gare di decorazione dei giardini. La rallegrava e la divertiva che la maggior parte della gente odiasse pulire le finestre, soltanto a lei era sempre piaciuto.
Perché si vede subito il risultato, le gridò Konrad da sotto, e lei rise e disse, stavo per dirlo io, e tu come lo sai?
Lo hai detto già mille volte, mormorò lui mentre le teneva la scala che vibrava del piacere che provava pulendo. Konrad si aggrappò all’alluminio spigoloso e sentì le vibrazioni. Gli ricordavano lo spazzolino da denti elettrico che per molto tempo Grete aveva ritenuto il non plus ultra dell’igiene dentale. Se ne era sbarazzato già da un po’, vista la situazione di Grete era superfluo. E le testine di ricambio erano care in modo esagerato. A un tratto gli parve che la scala cominciasse a vibrare più forte, sempre più forte come se fosse collegata a un grande motore che si stava accendendo, un aereo in decollo. Come se stesse per levarsi in volo. Volle alzare la testa per vedere cosa combinava Grete, se stava per fare una delle sue solite sciocchezze inopportune, invece abbassò la testa pesante, in modo indesiderato. Vide le mani proprio davanti a lui, troppo a fuoco. La nocca di mezzo sporgeva bianca. A quanto pareva, si aggrappava alla scala con tutte le forze sebbene non ne avesse l’intenzione e non ne vedesse alcun motivo.
Tutto il mondo odia pulire le finestre, sentiva canticchiare Grete sopra di lui, lo sapevi? Ma io, al contrario della maggior parte della gente, l’ho sempre fatto volentieri, e sai perché? Sai perché? Adesso indovina!
Un tempo, prima di partire per qualche viaggio di lavoro, Konrad travasava con pazienza il docciaschiuma in diverse bottigliette di plastica, più piccole. Lo osservava scendere piano, fluire denso attraverso l’apertura, disegnare otto e ghirigori sul fondo della bottiglia, fino a quando queste forme si scioglievano, riluttanti, con un’indolenza che si poteva dire mediterranea. Con la stessa lentezza gelatinosa si convinse che c’era qualcosa che non andava. Più cose non andavano. O c’era un terremoto oppure stava avendo un ictus. Oppure entrambe le cose. E per giunta, da sopra, dalla direzione di Grete, gli arrivava a ondate un odore molto, molto brutto. Più brutto che escrementizio. Dato però che Grete continuava a pulire e a chiacchierare, come vedeva Konrad nonostante la nebbia, non poteva essere uno dei soliti incidenti. Era piuttosto un odore dolciastro, come di topo morto, fermentato, e doveva appurare la faccenda presto, cercare tra tutta quella carne frolla, magari usare il talco nei punti in cui l’aria e l’acqua non riuscivano ad arrivare…
E poi c’era anche un rumore, una nota conosciuta che, tuttavia, era stonata perché non si accordava con la situazione. Cominciava e smetteva di nuovo, stridula e irregolare. E la scala vibrava come accompagnamento. Konrad vi si aggrappò forte. Poi il panico attaccò come un’orchestra, fortissimo. L’altro rumore tagliò l’aria come un coltello da frutta, e fu chiaro che non era solo nella sua testa. Proveniva da fuori, un rumore esterno, una buona notizia dal mondo. Respira con calma, si disse. Non trattenere il fiato per la paura. Passerà. Deve.
Grete, pregò Konrad, ma gli uscì troppo rauco e sommesso.
Perché si vede subito, esclamò Grete da sopra, il, il… finale…, be’, lo sai, quello che viene fuori, come si dice, che le finestre sono di nuovo pulite, sai, Konrad? Perché si vede subito. Per questo mi piace così tanto. Capisci? Konrad? Credo che stiano suonando? Aspettiamo visite oggi?
Ancora prima di aprire gli occhi, seppe che era andata bene. Non fu costretto a lottare, a rincorrere le ultime rogne. Le figlie non erano tornate a rivendicare il loro predominio morale puro e perpetuo. E questa era la cosa più importante. Chiunque fosse, era una soluzione più clemente.
Ma c’era un leggero odore di alcol e una voce maschile cantava una canzone per bambini. Non battere le mani, nonna, lo faccio io per te, udì Konrad, la formula lo riempì di sconfinata meraviglia. Con le manine clap-clap-clap, con i piedini tap-tap-tap.
Konrad si ritrovò con la schiena appoggiata al muro, seduto sulla moquette. E suo nipote Joshe cantava e guidava Grete giù dalla scala, una volta qui, una volta lì, scendere è più facile così. Quando Grete scese l’ultimo gradino e poggiò il piede sulla terra ferma, Joshe cominciò ad applaudire e Grete applaudì entusiasta a sua volta. Come due bambini impazziti, come politici giapponesi dopo una decisione di rilevanza nazionale, nonna e nipote stavano uno di fronte all’altro e applaudivano, non si abbracciavano, non si salutavano, non si meravigliavano di niente, erano nel loro mondo. Konrad cercò di riguadagnare il quadro generale della situazione: il lavavetri scolava nel supporto sul bordo interno del secchio. La bottiglia blu acquamarina era ai piedi della scala. Grete era asciutta, sopra e sotto, e indenne come un attimo prima. Niente era rovesciato, versato, rotto o andato storto. Nessun terremoto, niente ictus, la vita continuava e basta.
Allora, nonno, ti senti meglio, domandò Joshe. Avrebbe dovuto chiederlo a lui. Aveva un aspetto preoccupante, il viso pallido e la barba sfatta, i vestiti trasandati. Konrad tastò in giro alla ricerca degli occhiali. Ma Joshe era la sola persona immaginabile che in una simile situazione non sollevava un putiferio, non chiamava il dottore, né gli infermieri né i servizi sociali.
– Benissimo, ragazzo mio, è il cielo che ti manda.
Non proprio, mormorò Joshe e si sedette accanto a lui sul pavimento. Prese una sigaretta dal taschino e se la mise in bocca. Konrad sospirò ma non disse niente. Joshe gli fece un cenno con il capo lasciando intendere che non l’avrebbe accesa.
– Ho pensato di fare un salto a vedere come state.
– Non sei stato da tua madre?
Josha rise amaro. Vuoi sapere se mi ha mandato lei? Non ti preoccupare, nonno. Sono mesi che non mi parla più.
Cos’è successo? Domandò Konrad che non aveva ancora mai fatto una conversazione seduto per terra, meno che mai una importante.
– Potrei domandare la stessa cosa anche a te, e non lo faccio.
Una sua tipica risposta. Fin da piccolo questo bambino era sempre stato sveglissimo e svelto a capire, ma preferiva usare i propri pregi come un’arma. Andava sempre al nocciolo di ogni questione, pronunciava ogni dolorosa verità senza riguardo per la discrezione o le convenzioni.
Tap, tap, tap disse Grete e si guardò preoccupata. Memoria e intelligenza in fondo hanno poco a che vedere l’una con l’altra. E se si suddivide l’intelligenza in intelletto e gestione delle emozioni, allora in fondo Grete era sempre la stessa.
Tap, tap, tap? Allora sul viso di Joshe passò quel sorriso con cui da bambino incantava tutti e vanificava all’ultimo secondo ogni decisione che lo riguardava e che doveva essere definitiva. Da quel sorriso uno come Konrad preferiva distogliere lo sguardo. Era quasi imbarazzante. La franchezza, la tenerezza, l’ardente negazione di se stesso che conteneva erano più di ciò che riusciva a sopportare. A chi sorrideva così al mondo, doveva mancare qualche rotella. Oppure avere un parafango in meno sull’anima. Era forse questo il problema del ragazzo. Era sensibile come se fosse il cuore della famiglia, messo a nudo. Per questo si ribellava come se si attentasse alla sua vita se solo si correggevano le sue maniere a tavola. Da bambino, a parte Grete, aveva spinto tutti sull’orlo della pazzia. Fin quasi dal primo anno era stato un test fatto persona sulla disposizione alla violenza. Una provocazione del tipo e-dai-picchiami mascherata da bambino. Konrad aveva sepolto dentro di sé le poche occasioni in cui Joshe c’era riuscito, coperte da un viluppo di rabbia e vergogna. Come quella volta che lo aveva trascinato per strada, come un sacco bagnato, e lui strillava. Mentre pensava che almeno stava sbucciando le ginocchia di suo nipote e slogandogli il polso e non gli importava. O quella volta, e fu la peggiore, che lo aveva sollevato e tenuto sopra il grill. Come se stesse per mettercelo sopra, il sedere nudo insieme alle salsicce e alle cotolette. Nessuno lo vide perché gli altri si occupavano della sorella, Alina, alla quale Joshe aveva appena fatto qualcosa. E Joshe non smise di strillare anche quando sentì il calore sotto di sé. Quel bambino sarebbe stato capace di insegnare la paura a un aguzzino.
Tap tap tap, rispondeva cantando adesso il Joshe adulto, forse ancora più enigmatico, a quella bizzarra figura che un tempo era stata una giovane e bella ragazza e più tardi una madre competente, una nonna in gamba. Non sembrava accorgersi della differenza. Joshe si tirò su, distribuì nella stanza il suo sorriso morbido e cremoso, allungò le braccia con passione verso Grete, come Konrad non riusciva più a fare da decenni, la prese per le mani e ricominciò daccapo, tutta la canzoncina insieme a quello sciocco battere di mani e piedi e Grete cantava con lui, si muoveva qua e là come un orso ammaestrato e non sbagliava quasi mai. Dovevano fare così negli istituti di assistenza, stimolazione basale, per quell’involucro umano era senza dubbio divertente. Ma per qualcuno che ne avesse conosciuto il fascino e la bellezza, l’amore e le inconfondibili, superbe qualità, era una cosa diversa. Meglio la pulizia forzata delle finestre.
Konrad rotolò su un fianco e si sedette sulle ginocchia poi si alzò a fatica. Rimani a cena? Domandò da dietro la spalla, ma non ricevette risposta. Grete chiese a Joshe di indovinare perché amava così tanto pulire le finestre, non ci arriverai mai, disse con una voce da ragazzetta innamorata. Joshe disse, no nonna, davvero, adesso devi proprio rivelarmi il tuo segreto, e Konrad si meravigliò che Grete dopo tutto quel cantare e battere le mani fosse ancora in grado di stabilire una relazione concettuale con ciò che era avvenuto prima. Di solito le emozioni erano come una valanga, nella sua mente.
Più tardi, in cucina, stavano appiccicati uno all’altra. Grete fu assalita dalla solita paura di cucinare e ripeteva senza posa che purtroppo non riusciva a ricordare che cosa avevano stabilito di fare. Tu non devi pensare a niente, la tranquillizzò Konrad, niente paura, ci penso io. La solita solfa. Queste tre frasi che gli tenevano insieme la vita quando non si rilassava con Rilke.
Ma Joshe s’incaricò di tutto. Fischiettando piano aprì gli sportelli di un paio di armadietti, la porta della dispensa, il frigorifero. Poi annunciò che lui e Grete avrebbero cucinato mentre il nonno si riprendeva dalla paura e dal mancamento.
Oggi non devi pensare a niente, gli fece il verso Joshe con pungente ironia e lo spinse verso la porta, ci pensiamo noi. Alle spalle di Joshe, la complice Grete rise a squarciagola e a un tratto Konrad immaginò che fosse tutta una recita e che in realtà potesse abbandonare quel ruolo. Ma resisteva per lo più per cattiveria, per vendicarsi delle offese subite per decenni. Konrad fece ancora in tempo a dire, ma sta attento con i coltelli e in nessun caso la frutta fresca … e Joshe gli chiuse la porta davanti al naso.
Konrad rimase lì a osservare la venatura posticcia. Proprio all’altezza degli occhi l’impiallacciatura era più chiara, un ricordo eterno di Fiona. A sedici o diciassette anni, una notte, forse ubriaca, aveva disegnato una svastica sulla porta con la vernice spray. Quando Konrad lo aveva scoperto, gli era venuta voglia di picchiarla fino a ridurla in poltiglia. Non aveva mai toccato le figlie, e da questo punto di vista era contento di non avere avuto dei maschi. Allora aveva pensato di non parlare più con nessuno per almeno un anno, Grete inclusa. Non si ricordava più – non lo aveva mai saputo – chi alla fine aveva tolto quello scarabocchio e con quale prodotto. Secondo lui era quello sbagliato perché aveva scolorito l’impiallacciatura. Ma ci sarebbe stato un prodotto giusto? Allora aveva preteso senza ammettere obiezioni che la porta fosse sostituita a spese di Fiona. Grete glielo aveva promesso. O perlomeno, quando le aveva di nuovo rivolto la parola, ferito a morte, in un tono inespressivo per la delusione, Grete aveva acconsentito a ordinare una nuova porta. Ma lo aveva pregato con tutta se stessa, mostrando per la prima volta le avvisaglie di un estremo spossamento psichico, di avere un po’ di pazienza. E poi lo aveva preso in giro così a lungo (preventivi, difficoltà nelle consegne e la questione se al piano terra non fosse il caso di cambiare tutte le porte) che sarebbe diventato un terrorista della famiglia se quasi otto mesi dopo avesse ancora insistito ad avere una porta nuova per una minuscola macchia. E nel frattempo, anche se non ne parlavano, erano tutti contenti che almeno la macchia era ancora lì.
Dietro la porta c’era Grete, senza di lui. In quella stanza che era stata un tempo il suo regno. Joshe non conosceva a sufficienza lo stato in cui versava, l’entità dell’erosione, anche se aveva ancora un accesso intuitivo a lei. Avrebbe cercato di ingozzarsi in un lampo di tutti gli alimenti di cui Konrad la privava con grande oculatezza e severità: frutta, cioccolata, forse addirittura lo zucchero. Avrebbe tolto – era già successo – gli utensili da cucina di acciaio dai ganci, li avrebbe buttati all’aria e trattati come se fossero giocattoli per le costruzioni o strumenti musicali. Konrad puliva i maneggevoli piccoli attrezzi una volta al mese con sapone e acqua calda anche se non sapeva a cosa erano serviti quella sola volta che li avevano usati. Anche se in confronto a quanto sapeva Grete era già molto. Avrebbe fatto a Joshe il proprio show, messo insieme alla rinfusa tutte le frasi innocue, ragionevoli, in verità del tutto inconsapevoli, con cui si barcamenava in pubblico, a teatro, ai concerti oppure il sabato al mercato. Che giornata meravigliosa. È sempre bello incontrarla. Stiamo davvero bene tutti insieme. Potrebbe andare molto peggio. Bisogna essere felici di essere in salute. E che i figli sono sani e felici. Cosa si vuole di più.
Alla frase sui figli, qualche volta i visi dei vecchi amici si accendevano, ma tanto loro lo sapevano cosa le stava succedendo. Gli altri, quelli che non sapevano niente, neanche di Konrad e dei figli di Grete, si facevano ingannare. Questa specie di conversazione è solo rumore amichevole, nessuno ascolta davvero con attenzione. In questo modo centinaia di infermi conducono raffinate conversazioni, annuendo, sorridendo, inchinandosi. Una telecamera senza audio restituirebbe immagini inoffensive, tuttavia non si dovrebbero sentire i contenuti che ricominciano daccapo ogni trenta secondi, prestampati, prevedibili: Come sta? Che giornata meravigliosa. Mi fa piacere incontrala.
Solo una volta, una delle amiche di Katharina l’aveva squadrata. Konrad era lì accanto, in silenzio, e poi l’amica si era informata con discrezione e aveva spiegato che conosceva quelle mezze frasi per via di sua suocera. Sanno farlo bene, aveva detto sorridendo, ma quando la conversazione diventa troppo lunga e complessa, la mia si scusa e va in bagno.
Per il divertimento di Joshe in cucina con la nonna, poi l’avrebbe scontata Konrad. Perché non darle le banane se le piacciono tanto? Se ha tanta voglia di mangiare il gelato alla vaniglia? Ma se mangiava i cibi sbagliati le veniva la diarrea. Allora di notte avrebbe di nuovo scosso la porta dell’armadio e lui, lui avrebbe dovuto portare un secchio di acqua tiepida e del sapone prima di portarla in bagno. Si sarebbe inginocchiato e avrebbe pulito, e lei avrebbe pianto per la vergogna e lo schifo. Konrad era ancora davanti alla porta della cucina e guardava la macchia chiara. Doveva intervenire. Sarebbe dovuto intervenire. Indicativo, condizionale, nel mezzo una manciata di zucchero o due mele verdi con il torsolo e il picciolo. Dentro sentiva Grete cantare. Irragionevole, diceva la voce di Helena. Società di servizi, diceva Katharina. Secondino, tiranno, nazista, stronzo, diceva Fiona. Si voltò e andò in cantina.
Quando – seduto sulla sedia da regista rivestita di pelle che l’azienda gli aveva regalato quando era andato in pensione – si svegliò con la bocca aperta e secca per quanto russava, davanti a lui c’era una grassa nera appoggiata a un tavolo da biliardo che veniva penetrata da dietro da un uomo la cui testa non era nell’immagine. L’audio era basso, i pantaloni di Konrad erano chiusi. Il grasso sedere si alzava e si abbassava, il sedere bianco, macchiettato di lentiggini, spingeva come una macchina. Da sopra arrivava un odore di pancetta, cipolla e funghi. Al contrario di quanto affermavano di loro stessi alcuni amici, Konrad non riusciva mai a svegliarsi credendo di essere molto più giovane e che tutto era ancora come prima, Grete sana e operosa, Fiona un incubo, ma ancora viva. Per quanto poteva essere profondo o alcolico il sonno: si svegliava ed era al solito posto. In fondo gli amici non dicono che un mucchio di bugie.
Sentì qualcuno che scendeva le scale. Doveva essere Joshe, perché Grete trascinava i piedi e già a metà strada avrebbe cominciato a chiamarlo come un capretto smarrito. La mano afferrò il mouse e lo mancò, peggio ancora, lo spinse giù dal tavolo. Quando volle alzarsi e nascondere lo schermo con il corpo, Joshe era già accanto a lui. La naturale agilità della gioventù. Suo nipote si chinò, acciuffò il mouse da sotto la scrivania e disse: prova con rosaporn.net. Credo sia meglio. E la cena è pronta.
Grete era già seduta a tavola e lo attendeva con indosso una camicetta, piena di aspettativa come nei primi anni di fidanzamento. Joshe aveva apparecchiato con i vecchi bicchieri e il servizio buono, aveva addirittura trovato i tovaglioli di stoffa. Konrad supponeva che nel frattempo si fossero riempiti di muffa.
La tavola era apparecchiata allo stesso modo quando lui aveva avuto la promozione, quando le ragazze avevano fatto la maturità, quando avevano annunciato i loro matrimoni, o per lo meno Konrad si ricordava qualcosa di simile per quello di Ilka. Forse era così anche dopo il funerale di Fiona. Dopo un paio di anni, i rituali si scolpiscono in tutte le famiglie. Non si fa più differenza tra gioia e tristezza. Gente anchilosata versa lo spumante in calici di cristallo che un tempo erano stati qualcosa di speciale. I bordi dei tappeti sono consunti a forza di essere calpestati. Quando gli anchilosati muoiono c’è uno scossone, ma presto lo stesso rituale si conficca in un altro punto del terreno. Forse qualcuno, sorridendo imbarazzato, prenderà un paio di questi antiquati calici da spumante. In un altro ambiente potrebbero essere ironici. Ma passerà, miei cari, passerà e presto, per amore degli oggetti ereditati, diventerete anche voi un poco più rigidi.
Konrad si sedette al proprio posto e si posò il tovagliolo sulle gambe. Perché non godere di ciò che era stato cucinato per lui? Qualcuno aveva fatto qualcosa per lui. Un cibo caldo sulla tavola, preparato con amore. In ogni caso con affetto. E lui non aveva che da servirsi. E se era anche buono, allora avrebbe meritato di diventare l’ultima cena. Gli s’inumidirono gli occhi, bevve un grosso sorso di vino.
Grete sembrava del tutto normale, un’anziana signora gentile che doveva tornare dal parrucchiere. Guardava qua e là, gli occhi luccicavano di stelle. Joshe la trattava come un ospite d’onore.
Il cibo era più piccante di quello cui erano abituati, in ogni caso più salato di ciò che sarebbe stato sano. Per questo Konrad bevve di più; anche Grete, gli sembrò. Joshe rispose a tutte le domande sulla sua vita e il lavoro in modo così evasivo da rasentare il rifiuto. Konrad rinunciò al ruolo del borghesuccio che fa l’interrogatorio. Se c’era una cosa che non voleva quella sera, era essere il lungo braccio delle figlie. Sotto questo aspetto forse erano più simili di quello che si augurava. Perché i loro valori li avevano presi di sicuro da lui, proprio come lui li aveva presi dal padre. Le rivoluzioni adolescenziali sono soltanto l’illusione di un momento, la vera eredità è già iniettata nel midollo osseo.
Konrad si ripromise di lasciare correre. Si poteva anche tacere e aspettare. Joshe si informò sui lavori di ristrutturazione. E allora d’un tratto Konrad si comportò come Grete, trasformato, più bello del solito. Poco mancò che facesse passare la cosa come una sua idea. Per via di Grete che poteva inciampare sulle soglie. Allora, quando avevano comprato la casa, proprio le porte gli erano sembrate così accoglienti. Toglierle adesso era un’operazione notevole, senza parlare dei costi. Le soglie erano tutt’uno con le cornici delle porte. E loro avevano fatto posare le piastrelle del pavimento in seguito. Adesso bisognava puntellare, tirare via tutto, cementare. Rattoppare le piastrelle nei punti di congiunzione. E solo a causa di un paio di centimetri di dislivello. Che tuttavia potrebbero costare la vita a Grete. Questa era una delle frasi di sua figlia e Konrad non la pronunciò anche se per la prima volta non la riteneva del tutto esagerata.
Non sarebbe più facile traslocare? Domandò Joshe.
In un istituto per anziani? Chiese Konrad a sua volta, senza barriere, con le pareti delle sale comuni imbiancate con vernice antibatterica?
Ovunque, disse Joshe che non si curò del sarcasmo.
Diventa anche tu vecchio come noi, disse Konrad, e poi ne riparleremo.
Joshe rise. Anche Grete rise.
Vi piace? Domandò Grete. Trovo che oggi ho cucinato di nuovo bene.
Konrad aprì la bocca, Joshe gli fece un gesto. Hai cucinato alla grande, nonna, come sempre, sei famosa per questo in tutta la famiglia.
In tutta la famiglia, ripeté Grete e sembrò riflettere. A destra, accanto al gomito, c’era uno dei bicchieri da spumante. Bisogna spostarlo, pensò Konrad, lo farà cadere.
Joshe lo servì ancora da una casseruola che era sul tavolo. Non avevano mai fatto così prima, ma perché mai dover lavare anche la zuppiera e il coperchio? Non entrava quasi nella lavastoviglie per questo era da tanto tempo che non la usavano più. Da quando Grete l’aveva dimenticata. Joshe si alzò e prese un’altra bottiglia di vino. Konrad si chinò in avanti.
Cosa c’è, domandò Grete, ho fatto qualcosa di sbagliato?
Ma il bicchiere da spumante non c’era più. Doveva averlo tolto Joshe.
Così passò la serata. Konrad rimase seduto, inchiodato al suo posto, le diverse portate – un’insalata, un piatto a base di funghi e una composta con gelato alla vaniglia – apparvero e poi scomparvero. Il bicchiere non fu mai vuoto. Le candele ardevano. Grete guardava con vivacità l’uno e l’altro, come una piccola vecchia sposa. Finalmente a Konrad non importava cosa capiva Grete. Si sentiva bene. Chiacchierava, raccontava e si lamentava: di come Katharina e Helena lo avessero trascinato in quei folli lavori di ristrutturazione – quelle due furie, tu sai come sono – anche se nel frattempo gliene era quasi grato.
Non è facile decidersi a fare dei cambiamenti così grandi, spiegò, quando comunque si ha già molto da fare. Strizzò l’occhio a Joshe e fece un cenno furtivo verso Grete. Joshe lo capiva bene. Ammirava il nonno. Non tutti gli uomini della sua età accettavano il destino come lui.
Che oggigiorno gli operai dovevano essere pagati in contanti, era uno scandalo, anche su questo Joshe gli dette ragione. In realtà è una pretesa inaudita, tuonò Konrad, tenere in casa così tanto denaro contante! Forse lavorano in nero, Katharina non glielo aveva spiegato con esattezza.
Spero che tu non li tenga tra le mutande, disse Joshe.
No, non ci arriveresti mai, rispose Konrad, sono dietro il paralume della lampada a muro là fuori, l’unica che non funziona.
Hai nascosto dei soldi in una lampada? Domandò Grete ridendo. Per questo non funziona!
Se solo avessimo così tanti soldi da poterli nascondere in tutte le lampade, disse Konrad e annuì quando Joshe arrivò con il cognac.
Allora vivremmo al buio, disse Grete e rise.
Vorresti vivere al buio, domandò Konrad, se in compenso avessimo tanti soldi?
Grete lo guardò perplessa. Il denaro non è tutto, disse infine, ce la passiamo davvero bene, tutti insieme. L’importante è la salute.
Quando Joshe portò a letto Grete, Konrad si versò ancora un abbondante cognac. Quei due fecero ancora un po’ i cretini in bagno, poi per un po’ ci fu silenzio. Konrad immaginò che Joshe si fosse sdraiato accanto a lei, per coccolarla così come avevano fatto con lui quando era bambino. Un pensiero indecente. Ma Konrad aveva trovato indecenti anche le coccole ai nipoti, le due figlie avevano superato se stesse in questo. A loro era sembrato un rimprovero. Ma a lui nessuno aveva fatto le coccole da bambino, era il più piccolo di cinque figli e invece di coccolarlo gli avevano fatto pestare i crauti, per ore e giorni.
Quando le bambine erano piccole non era mai a casa. C’erano stati dei periodi in cui in un anno aveva trascorso a casa soltanto otto fine settimana. Grete glielo aveva sempre rinfacciato, un tema ricorrente dei loro amari litigi. Che in fondo lei era stata per anni nubile e ragazza madre. E che lui tornava a casa solo per prendere le camicie pulite. Quando Grete si era dimenticata anche questo, avevano cominciato le figlie di propria iniziativa. Allora Konrad aveva scoperto la tecnica di cacciarle con il suo silenzio. Batteva il pugno sul tavolo una volta, forte. Solo il pugno, non di più, e poi indicava la porta. Non abbassava il braccio. Lo teneva teso, ferreo, senza tremare, fino a quando capivano. E non diceva più niente, nonostante tutti le rassicurazioni. Seduto come il monumento di pietra di se stesso. Invisibilmente sanguinante da tutte le pieghe dell’anima. Qualcuno aveva pur dovuto provvedere al loro stile di vita, no? Gli studi, i viaggi, la casa, il giardino, le lezioni di pianoforte e di tennis, e quando Ilka aveva avuto bisogno di un prestito, chi è che aveva garantito per lei? Grete non aveva mai preteso molto, nonostante per un periodo si fosse interessata ai tailleur su misura e alle perle. Ma un figlio, si dice, costa come una casa. La casa che l’indomani mattina sarebbe stata forzata.
Quando Joshe ritornò, Konrad piangeva. Sapeva che era ubriaco, ma non era solo per questo. Joshe gli offrì il suo sorriso morbido come una crema. Vuoi andare a letto anche tu, vero nonno?
Konrad si alzò. Voglio farti vedere una cosa, ragazzo mio, disse e a passi pesanti scese in cantina. Staccò la foto di Curzola dalla parete e la poggiò sul ventre di Josha. Era polverosa, ma non importava.
Tua nonna, disse lottando per mantenere l’autocontrollo, ricordi che una volta era così?
Allora non ero ancora nato, disse Joshe.
Ma sai cosa intendo, disse Konrad, quella lì invece… Con la mano accennò al piano di sopra.
– Dimentica, ma è ancora la stessa cara persona che è sempre stata, disse Joshe.
– Come può essere sempre la stessa se presto non saprà più chi siamo?
Joshe lo guardò. Nonno, io credo che dovresti portarla dall’oculista, disse infine, sembra cieca da un occhio. Le ho chiuso l’altro per un attimo e ho avuto l’impressione che…
Konrad si aggrappò all’angolo della scrivania. Tu hai fatto cosa? Chiese aspro. Come ti permetti…? Non è possibile! Ci vede molto bene, lo saprò, no?
Joshe alzò le spalle. Ti serve ancora qualcosa? Altrimenti metto a posto la cucina e me ne vado.
Konrad fece un passo verso di lui e gli poggiò una mano sulla spalla. Ti piace la foto? Domandò.
Joshe la riappese. È una foto molto bella, al tuo posto l’avrei sposata anch’io.
Ma al suo posto non avresti sposato me?, domandò Konrad tossendo.
Ah nonno, disse Joshe, come faccio a saperlo?
Avrai tu la fotografia, disse Konrad rauco, penso che devi averla tu, nessun altro.
La guardo volentieri qui a casa tua, disse Joshe, adesso va’ a letto.
Si svegliò ore più tardi con la sensazione di essere stato molto lontano, in un sistema di tunnel o nella stanza più appartata di un palazzo da sogno. Lento, a tentoni, ritornò passando per saloni eleganti e abbandonati, tirato da un nastro color argento scuro che quando fu all’aperto si trasformò in una voce. Grete era in camera sua, Konrad si mise subito a sedere. Da molto tempo non si muoveva più da sola per caso, lui la guidava sempre per mano, di stanza in stanza. Le aride pennellate bianche intorno alla testa non le donavano, ma lo sguardo era chiaro e vispo. Mi dispiace svegliarti, disse, ma c’è qualcuno chiuso in bagno. E ne ho urgenza.
Certo, disse Konrad e si alzò un po’ a fatica. Al contrario di quel che si aspettava, Grete lo precedette e nella giusta direzione. Cercò di aprire la porta del bagno. Quando si voltò verso di lui, aveva il viso contratto dalla paura. Konrad, sussurrò, ho bisogno davvero…
Konrad la spinse da parte e provò ad aprire la porta. Si aprì soltanto di uno spiraglio, capì che dietro era caduto qualcosa e si era incastrato. Konrad non aveva idea di cosa poteva essere, le prime associazioni furono allarmanti, forse condizionate dal sogno. Gli ci vollero un paio di secondi per decidere quale fosse la prima cosa da fare. Poi disse a Grete, trattienila ancora solo un momento, conta forte fino a dieci, ho la soluzione.
Conta! Le gridò mentre si precipitava giù per le scale, voglio sentirti.
Quando Grete giunse a otto, Konrad trovò infine il secchio rosso, perché per poco non ci cadde sopra. Rovesciò il contenuto per terra e corse di nuovo di sopra, otto e mezzo, gridò, ragazza ce la fai, sono quasi da te!
Non fece storie quando Konrad la raggiunse, appoggiò il secchio alla parete, accanto alla porta del bagno, cadde in ginocchio e le tirò giù le grandi mutande di cotone. Le ginocchia bianche di Grete gli si avvicinarono. Konrad rimase rannicchiato e la tenne forte in modo che non cadesse da quella posizione instabile. La camicia da notte calò con clemenza, le coprì le gambe e schermò lo scoppiettio dalle tante tonalità che scatenò lì sotto, scroscio di pioggia, tempesta di vento e umide esplosioni. Il corpo di Grete tremava dai fianchi, per i quali la teneva Konrad, in su. Ma quando alzò lo sguardo, Grete rise. È proprio come in campeggio, sospirò alla fine, dove è stato, allora, in quel bosco…
Iugoslavia, disse Konrad, anche se non sapeva a cosa si riferisse Grete.
Non è vero, lo contraddisse Grete, credo che sia stato in Carinzia. Su quell’enorme lago dove tutte e tre hanno avuto la colerina, ma quando poi Fiona…
Con un movimento brusco si voltò verso il bagno: Fiona?
Konrad strinse la presa, Grete cercò di alzarsi. Fiona, urlò con voce stridula, è lì dentro, dobbiamo aiutarla!
Cominciò a dimenarsi, Konrad lottò con lei, ma alla fine Grete cadde insieme al secchio sul quale era seduta. Konrad indietreggiò per scansare il più possibile di ciò che comunque lo avrebbe tenuto occupato per il resto della notte. Grete era sdraiata a terra e piangeva, si tirava l’orlo della camicia da notte e strusciava nervosa le gambe l’una con l’altra. Konrad si alzò, la scavalcò e dette un calcio alla porta così forte che il dolore gli risalì la caviglia e il ginocchio. All’interno qualcosa andò in frantumi e dopo un secondo calcio con l’altro piede la porta si aprì. Era la spazzola per la schiena di Grete che si era incastrata tra la vasca e la porta. Non era Fiona, che in verità si era chiusa in quel bagno abbastanza spesso, decenni prima, per ripicca, tirannia o perché era ubriaca. Non era neanche Joshe che Konrad riteneva capace di comportarsi proprio come la zia che non aveva mai conosciuto. Non c’era nessuno sdraiato lì, dietro la porta del bagno, privo di sensi o morto, nessuno Grete, mi senti, solo la tua spazzola per la schiena con il manico extra-lungo.
Konrad aprì i rubinetti della vasca e dall’armadietto prese un rotolo di spago che teneva pronto per queste evenienze. Ne legò un lungo pezzo alla catenella di palline cui era attaccato il tappo di gomma. Era orgoglioso della lungimiranza che, tuttavia, era frutto dell’esperienza. In questo modo non sarebbe stato costretto a infilare la mano nell’acqua, poteva aprire lo scarico a distanza, lasciare che l’acqua scorresse via e il resto lo avrebbe lavato con il soffione della doccia. Gli sembrò meglio farla entrare in vasca che sotto la doccia, perché allora lo avrebbe ritenuto un regalo, un piccolo lusso preparato per lei. Che fosse piena notte non se lo ricordava più. Konrad non aveva mai capito perché il senso del tempo fosse il primo a svanire mentre il ricordo delle melodie solo molto più tardi. Chi studia il cervello lo saprebbe. C’erano studiosi per ogni cosa. In accordo con la società dei servizi.
Grete si sarebbe sdraiata nella vasca, le ragioni di quel bagno nascoste sotto uno spesso strato di schiuma. La schiuma che un tempo le ragazze si lanciavano a vicenda o che posavano sulla testa della loro paperelle come una cuffietta.
Mentre Grete era nella vasca da bagno, lasciando la porta aperta lui avrebbe potuto pulire fuori, avrebbero chiacchierato del più e del meno e forse Grete gli avrebbe domandato cosa stava facendo. Do solo una pulita, avrebbe risposto lui e Grete con la sua gentile voce di ragazza avrebbe detto, non si finisce mai, vero Konrad, lo abbiamo sempre detto, non appena si possiede una casa, non si smette mai di lavorare.
Allora Konrad avrebbe potuto ribattere, ma tu hai sempre pulito volentieri le finestre, Gretuccia, vero? E così sarebbe ripartito il disco, lei avrebbe avuto un argomento, e lui avrebbe finito in fretta di sistemare. Inoltre il Danchlor copre gli odori in un modo imbattibile, anzi, non li copre, li annienta.
Grete non si tranquillizzò durante il bagno caldo di schiuma né quando Konrad la rimise a letto con una camicia da notte pulita. Di sotto, in cantina, nella stanza accanto all’ufficio di Konrad, la lavatrice girava gemendo piano, al primo piano c’era odore di piscina, la vasca da bagno non era ancora del tutto pulita, ma Konrad aveva rimandato alla mattina dopo il trattamento con il detersivo abrasivo. Avrebbe potuto farlo Grete, strofinare la vasca sotto la sua guida, perché dopo l’agitazione notturna a lui dolevano le ginocchia. Quindi era di nuovo tutto in ordine ma nella testa di Grete qualcosa era rimasto incastrato nel posto sbagliato e lui non sapeva come liberalo. Piangeva, gemeva, chiedeva di Fiona e poi cominciò a dire delle strane cattiverie, tu non mi dici la verità, tu mi mentivi anche prima, lo sanno tutti che nessuno lavora così tanto, nemmeno tu. Tu non ci sei mai, tu sei sempre stato da qualche altra parte, tu credi che io sia scema o smemorata, tu hai sempre pensato di poterti permettere di tutto con me, ma adesso basta.
Dormi adesso, disse Konrad e le sistemò la coperta, sei scombussolata, se dormi domani ti sentirai meglio.
Ma Grete non la smetteva. Faceva dei rumori terribili come se avesse l’acqua nei polmoni, cercava di parlare mentre tremava per il pianto. Le colava il moccio dal naso. Konrad andò a prendere in camera sua la scatola dei fazzoletti e glielo pulì. Grete scosse la testa e s’impiastricciò il viso. Fiona, gridò, Fiona, dov’è adesso, tu l’hai picchiata e lei è corsa via, è colpa tua, di nessun altro.
Konrad stava per schiaffeggiarla. Guardò le guance brunastre e rugose, tremavano come gelatina, niente di quel viso ricordava quello di un tempo. Non si dovrebbe diventare così vecchi che la pelle, pur viva, sembra disfarsi. Gli bruciarono le mani e per un momento credette di aver fatto quello che aveva soltanto pensato. Grete si teneva le mani sulle guance e lo fissava spaventata. Gli aveva letto nel pensiero? Dov’è Fiona, sussurrò, cosa le hai fatto.
Konrad si alzò. Ho appena pulito la tua merda, disse, questo almeno te lo ricordi? Hai cacato in un secchio perché non sei più capace neanche di appendere la spazzola come si deve, e poi sei caduta e adesso piagnucoli.
Uscì dalla stanza, chiuse la porta dietro di sé e scese al piano di sotto. In cucina prese una birra dal frigorifero. Fuori albeggiava. Si sentivano i primi cinguettii, frecce di suono dorate, scoccate per prova dai cespugli e dagli arbusti. L’orchestra accordava ancora gli strumenti. Tra alcuni minuti, l’invisibile direttore avrebbe dato l’attacco e il concerto avrebbe risuonato con fragore, a tutto spiano senza umana esitazione. Perché anche se la notte scorsa i gufi e i gatti avessero fatto fuori un paio dei cantanti, quelli rimasti avrebbero cantato ancora più forte. Non si notava mai la differenza, anche se si ascoltava con cura, come faceva lui.
Andò in cantina con la birra. Chiuse i boccaporti di areazione e tirò giù le tende a rullo, blu notte con gli elefanti gialli, che erano state delle bambine. Si accomodò sulla sedia da regista e tornò alla grassa nera sul tavolo da biliardo. Sì, sapeva cos’era la cronologia di un file, non era un idiota completo. Questa volta accese anche l’audio e lo mise bello alto, per un po’ non voleva sentire nient’altro che ansimare, gemere e tubare. Il sedere di quella donna era enorme e liscio, sembrava gonfiato. Era difficile immaginare che un giorno anche quella pelle si sarebbe disfatta come quella di Grete. Aveva inoltre floridi capelli legati in una coda spessa come un braccio, con la quale l’uomo, di tanto in tanto, le tirava indietro la testa. Konrad avrebbe voluto che la tirasse più spesso e più forte, al ritmo dei colpi, o almeno ogni due. Ma gli andava bene anche solo immaginarselo.
Quando poco prima delle sette suonarono alla porta, Konrad aveva maturato la decisione. Era probabile che puzzasse di birra, ma non gli importava. Non si era neanche fatto la barba, ma questo avrebbe addirittura aumentato la sua credibilità. Comunque, andando alla porta si aggiustò i capelli davanti allo specchio dell’ingresso.
Erano in tre e trasportavano ogni genere di attrezzo in grandi secchi di plastica neri. Un furgoncino era sul marciapiede, con la portiera aperta e le frecce di emergenza accese. Dentro vi erano altri attrezzi, tamburi per i cavi, sacchi di cemento. Uno degli operai, uno straniero basso e scuro, aveva sottobraccio un rotolo di plastica trasparente.
Konrad si scusò in modo prolisso ma deciso. La grave malattia della moglie rendeva purtroppo impossibile cominciare i lavori. Non gli era possibile realizzare la ristrutturazione in tempi brevi, la faccenda forse era da considerarsi chiusa. Non si sa quanto ancora vivrà, disse. Per i costi che avevano avuto, dovevano mettersi in contatto con la figlia, Katharina, in fondo era lei che aveva incaricato la ditta. Gli operai annuirono e se ne andarono. Non fecero neanche gli auguri alla moglie, erano troppo apatici per farlo.
Era andato tutto liscio. In fondo si trattava pur sempre di una società di servizi. Quando non si aveva più bisogno del servizio, loro non lo prestavano. E tanto meno facevano resistenza, il loro servizio in quel caso consisteva nell’andarsene.
Konrad rimase ancora un momento all’ingresso. Poi si avvicinò alla lampada di mezzo delle tre che erano lì, sollevò con cautela il paralume e guardò. Il rotolo di denaro tenuto insieme da un elastico non c’era più. Konrad annuì. Se ci fosse stato qualcuno lì con lui, avrebbe detto che lo sapeva. Anche se non era proprio così.
Riavvitò la lampadina. A questo punto poteva pure far luce. Tornato in cantina, al computer, gli ci volle un po’ per capire come si faceva a stampare un documento in orizzontale. Fare il bordo nero fu più semplice. Quando vide il documento davanti a sé, si agitò per un attimo. La superficie interna alla cornice nera era bianchissima e aspettava con pazienza di essere riempita. Era ancora meglio del quaderno, sembrava molto professionale, molto vicino all’obiettivo.
Spostò il cursore a destra, lo sistemò a un terzo dell’altezza, scrisse Tutti cadiamo. Poi continuò a scrivere e si sforzò di notare subito ogni errore di battitura e di correggerlo:
Tutti cadiamo. Cade questa mano.
E così ogni altra mano che tu vedi.
Ma tutte queste cose che cadono
qualcuno con dolcezza infinita le tiene nella mano.
Il telefono suonò più volte, Konrad rimase seduto. A una mail che arrivò poco dopo da Helena che, istigata di sicuro da Katharina, s’informava sull’inizio dei lavori e sul chiasso, non rispose. Ormai poteva allontanarsi per un po’ dai tavoli da biliardo e dalle donne pompate, dopo quella notte di eccessi. Più tardi si appisolò. Grete scese le scale trascinando i piedi molto dopo mezzogiorno. Ehi, gli gridò da lontano come un capretto smarrito, ehi Konrad? E quando fu davanti alla scrivania, come un tempo il commesso di banca Franzl, un caro ragazzo biondo e deficiente che s’inchinava anche davanti alla sedia vuota di Konrad, allora tornò tutto come sempre. Ce la passiamo bene, disse Grete che con i capelli secchi intorno al viso sembrava il folle sole bianco di un libro per bambini, non è vero Konrad? Ce la passiamo bene insieme. L’importante è la salute.