I serpenti sono considerati degli esperti scalatori. A quanto sembra, però, sono molto prudenti sugli alberi: per non scivolare impiegano molta più forza di quella necessaria. Un studio recente sostiene che la sensazione di sicurezza di non cadere sia più importante della fatica di spostarsi.
Una mattina, al tavolino accanto al divano da un’eternità come un satellite mancava una gamba. Jakob non si era mai reso conto prima che quando entrava in soggiorno fermava sempre lo sguardo su quel tavolino poi lo alzava e, seguendo un arco ben studiato, vagava nella stanza, senza curiosità o aspettative, solo per abitudine, allo stesso modo in cui al risveglio ci si stira sempre alla stessa maniera, si mette lo zucchero nel caffè e più tardi ci si siede con il giornale sul water. Il tavolo era ancora quello di Anna. Adesso aveva tre gambe, l’angolo anteriore sinistro si teneva in equilibro per aria, senza un sostegno. Se il tavolo fosse stata una persona, Jakob avrebbe detto che aveva un atteggiamento tra lo stoico e il risentito. Ci vollero un paio di secondi prima che notasse la gamba mancante. Era rotolata via e sporgeva per metà da sotto il divano.
Com’era possibile!
Jakob non soccorse subito il tavolino, si preparò prima la colazione. Dopo lavorò un po’ fino a quando, a metà mattina, prese una decisione che lo meravigliò. Si alzò all’improvviso dalla scrivania, scese le scale, si inginocchiò davanti al tavolo, lo prese tra le braccia e lo portò sul retro, in giardino. Lo gettò sul mucchio di legna da ardere. La gamba si staccò di nuovo. Quel pomeriggio indossò una camicia e un paio di pantaloni puliti, guidò per ottanta chilometri fino alla capitale, trovò in men che non si dica il negozio di mobili orientali di cui la figlia gli aveva parlato con tanto entusiasmo e comprò un costoso tavolo di bambù con decorazioni di metallo anticato. Quel momento di perplessità in cui lo sguardo cominciava il vagabondaggio mattutino lo rallegrava. Ma adesso incontrava una minima resistenza. Presto sarebbe scivolato anche su quella. Ma questo tavolo era suo, apparteneva soltanto a lui, non lo avrebbe preso in giro dopo anni di pacifica convivenza con un’inspiegabile auto-mutilazione. Anche se Jakob arrivò alla conclusione che quei mobili orientali facevano un effetto migliore, meno massiccio, nel loro ambiente abituale, tra stoffe delicate e svolazzanti come farfalle e candeline accese.
Poco tempo dopo si perse la fioritura del ciliegio perché fu costretto di nuovo a viaggiare per più di due settimane, infilarsi in un vestito e soffrire ai ricevimenti. Al ritorno chiamò la figlia della farmacista in modo che ripulisse almeno una parte della polvere e dei ragni che si erano trasferiti da lui. Arrivò con un’utilitaria rosso fuoco, tirò fuori le gambe con slancio, gli sorrise impertinente come ogni volta e senza salutarlo gli domandò: e che ne pensa dei nuovi vicini?
Jakob aveva già visto il furgone tra gli alberi, ma non aveva pensato a niente di particolare. Lavori alle fognature, risanamento della cantina, l’ennesimo perito, un nipote disperato in difficoltà economiche? Erano anni che i discendenti della defunta signora Schittek litigavano per l’eredità, mentre la vecchia casa andava in rovina. Jakob aveva riflettuto sulla possibilità di comprarla e di trasferirsi sul versante assolato ai margini del bosco per sedersi nel giardino d’inverno di legno in cui un tempo chiacchierava con l’anziana signora. Ma si era spaventato di fronte alla mole di lavoro che ciò avrebbe comportato ed era rimasto nella sua funzionale casetta, cui ormai si era abituato come a una seconda pelle, meno stretta. Aveva apprezzato lo spirito della defunta e tutti i vecchi pettegolezzi del villaggio, storie d’amore, inimicizie e intrighi come ve ne erano ovunque e da sempre, già molto prima di Shakespeare e Omero.
Adesso pareva che gli eredi si fossero messi d’accordo e avessero trovato un compratore, Jakob avrebbe dovuto saperlo. Una giovane coppia, gli rivelò la ragazza. Seguì una pausa a effetto, poi uno sguardo penetrante: mia madre dice che la storia si ripete.
A Jakob la postilla non piacque per niente. Come accadeva spesso, quella ragazza, quando parlava, sembrava bussare a una porta che non le riguardava. Quando si è ospiti a casa di qualcuno non si va subito in camera da letto. Con che facilità le uscivano di bocca le parole. Se la figlia della farmacista fosse stata un oggetto, sarebbe stata un cuscinetto a sfera che gira troppo. Così oliato che sporca le dita di grasso.
L’uomo si accoppia e si riproduce da quando camminava ancora curvo, replicò Jakob, si potrebbe dire quindi che sia la ripetizione più necessaria del mondo. E per favore, oggi passi l’aspirapolvere anche sotto i tappeti.
Si voltò e andò nella rimessa dove di sicuro avrebbe trovato qualcosa da riparare.
Nel tardo pomeriggio, con dei narcisi bianchi, qualche non ti scordar di me e due tulipani tardivi, Jakob compose uno stravagante mazzo di fiori e attraversò la strada. I nuovi vicini stavano carponi, con i visi sudati, sul pavimento del giardino d’inverno dove cercavano di posare il parquet. Era di certo la prima volta che lo facevano. Sembravano giovani in modo sconvolgente, giovani e innocenti, esausti e tesi, ma liberi da ogni amarezza. A un tratto a Jakob il problema non sembrò la vecchiaia di per sé, ma le lezioni della vita che ti guastano come muffa che non si vede ma di cui si sente l’odore.
Mentre la ragazza magra teneva in mano il mazzo di fiori come se fosse il primo della sua vita, il marito, oppure il compagno, domandò a Jakob se conosceva un trucco per ridurre gli interstizi. Gli sembravano troppo ampi e temeva che con il tempo si sarebbero allargati ancora di più. Glielo chiese nel modo brusco di quelli che si vergognano della propria ignoranza. Jakob annuì e andò a prendere le cinghie. Risparmiò a loro e a se stesso l’appunto che il legno fresco si secca e si restringe. A lui e ad Anna la signora Schittek non l’aveva risparmiato. Avevano posato il pavimento con l’aiuto delle competenze tecniche della signora Schittek e ora aveva la possibilità di reimmettere le conoscenze nella casa della signora Schittek che nel corso degli anni era andata in rovina – sì, così era la vita. Prima bisognava raggruppare le assi in cinque o sei elementi, e infine legare il legno necessario a coprire tutta la superficie per parecchi giorni. Certo, il lavoro era più complesso che unire semplicemente le tavole, secondo la scanalatura e il colore. E bisognava avere pazienza. Ma si evitava che dopo sei mesi si aprissero gli interstizi in cui le formiche s’infilavano di corsa come in un’enorme massicciata.
Quando l’uomo, con l’aiuto di Jakob, ebbe posato e fissato metà della superficie, all’improvviso nel giardino inselvatichito comparvero tre sedie blu, arrugginite, e nel mezzo una cassetta della verdura al posto del tavolo. La ragazza, piatta come una bambina, si era lavata e indossava abiti puliti. Quando sorrideva l’attaccatura del collo diventava rosa, ma quando rispondeva rivelava intelligenza. Jakob se ne stava seduto lì, con una bottiglia di birra sulla coscia e così venne a sapere i primi dettagli. L’uomo – un ragazzo agli occhi di Jakob – aveva una piccola ditta di software in città per cui, in parte, lavorava da casa. Jakob e Anna, anni prima, avevano fatto arrivare le linee telefoniche fino al bosco e adesso tornavano utili a quei due. La giovane era una storica che, come disse lei stessa, al momento lasciava metà borsa di studio del dottorato nei negozi di fai da te. Non rivelò il tema su cui lavorava, e Jakob non glielo chiese. Portava i capelli biondo cenere tagliati corti, sfrangiati in un modo che inteneriva. Come se fossero stati morsicati o tagliati con la pentola, avrebbe detto Anna, ma Jakob preferiva le ragazze arruffate alle bellezze prorompenti. Quando Anna e lui si erano trasferiti lì, anche lei aveva un po’ quell’aria da ragazzina, né carne né pesce, ancora indecisa se diventare una casalinga, una signora, un’eterna adolescente. Ma non voleva fare paragoni, ricordare. Jakob ringraziò per la birra, i due per l’aiuto, lei un po’ più di lui, poi Jakob se ne andò a casa.
Durante le passeggiate quotidiane qualche volta passava lungo il confine del loro terreno dietro casa, un sentiero che prima faceva di rado. Allora sei curioso, vecchio ragazzo, si prendeva in giro. Ma dato che la casa dopo, quella della numerosa famiglia Grimm, era a un chilometro e mezzo, dietro il boschetto e perciò fuori dalla portata di occhi e orecchie, per lui quei due significavano davvero un cambiamento. Qualche volta sentiva la radio dalla finestra aperta della cucina, sintonizzata su un notiziario. In una stanza volevano lasciare la carta da parati a fiorellini della signora Schittek, avevano detto sorridendo come se anche loro fossero sorpresi di quel sentimentalismo.
A Jakob sarebbe potuto toccare di molto peggio. Una simpatica giovane coppia, ancora senza bambini – e senza dubbio non erano dei neonazisti come quelli che negli ultimi tempi si trasferivano volentieri nelle case di quella regione fuorimano. Al che seguivano agitazioni, adunanze, interventi della polizia, qualche volta addirittura dei combattimenti notturni con gli hooligan polacchi che varcavano la frontiera per l’occasione.
Alcuni giorni dopo Rebecca gli riportò la cinghia. La osservò dalla finestra dello studio. La ragazza prima cercò il campanello al cancello, poi si guardò intorno e con esitazione entrò in giardino. Non conosceva ancora i modi di quella zona: lì, quando ci si conosceva, si entrava in giardino annunciandosi a voce alta. Jacko, Anna, gracchiava sempre la signora Schittek, quando con il bastone zoppicava verso casa loro, Anna, Jacko, è arrivata la bolscevica! Anna aveva rinunciato a spiegarle che il marito si chiamava Jakob, non Isacco senza la s. Non sono così credente, ribatteva quella furba vecchia ciabatta che fino all’ultimo giorno aveva sempre avuto una sigaretta in mano: a parte quando si tratta della dittatura del proletariato.
Rebecca invece arrivò quatta quatta fino alla casa e poi bussò piano alla finestra della cucina. Jakob si trovava proprio sopra di lei, dietro le tapparelle, e non si mosse. Sulla nuca aveva una ritrosa indomabile, proprio là dove un portafortuna avrebbe l’anello per essere appeso. Soltanto quando Rebecca bussò la seconda volta e disse a mezza voce, ehilà, c’è qualcuno in casa, Jakob scese le scale facendo apposta un gran fracasso e gridò arrivo, sono qua.
Solo perché Rebecca non ne aveva intenzione, Jakob la invitò a entrare. Era riservata, al contrario della figlia del farmacista, e per questo Jakob fu quasi ospitale. Si ricordò e si ammonì ancora di non invischiarsi troppo. La gente di solito s’incolla alla svelta.
Rebecca ammirò la casa, la definì accogliente, una tana con un soffio di oriente. Le piacque soprattutto il nuovo tavolo, che in realtà era vecchio, un pezzo di antiquariato indocinese. Jakob riconobbe che l’arredamento rispecchiava per lo più lo stile della moglie – lui l’avrebbe arredata in modo più semplice. Quando Rebecca cercò le parole per chiedergli dove fosse questa moglie (Anna, si chiamava Anna ed era molto più sbarazzina e aveva i seni – ma forse era diventata vivace e aperta al grande mondo in seguito, soltanto i seni, quelli ce li aveva sempre avuti, si sussurrò velenoso), Jakob si voltò, marciò in direzione della cucina e, cosa che proprio non aveva voglia di fare, le offrì un tè.
Poiché dotata d’intuito, ben presto Rebecca si alzò e si scusò in anticipo perché forse lei e il marito avrebbero avuto bisogno di aiuto, in quei primi tempi caotici. Non c’è problema, disse Jakob, sono quasi sempre qua. Ma quando Rebecca gli dette la mano, com’era usanza lì all’est, dove ci si stringeva la mano anche sei volte se in un giorno ci s’incontrava tre, quando insomma gli dette la mano, con orrore di Jakob, Rebecca disse: mi dispiace, per sua moglie.
E non poté far niente, niente che in ogni caso non avrebbe peggiorato la situazione. L’espressione del volto si addiceva al motivo sbagliato.
Dopo quasi venti anni Anna lo aveva lasciato e Jakob non le avrebbe mai perdonato di avergli fatto fare la figura dello stupido. Prima aveva aspettato che la figlia andasse in America per un anno, poi gli aveva rivelato che si era innamorata di un altro. E se ne era andata. Così. Era come se per tutti quegli anni Jakob avesse amato una persona che non esisteva affatto. Tutte le convinzioni sulla moglie si frantumarono in mille orribili pezzi. Un tempo avrebbe detto che Anna era il suo grande amore, la sua migliore amica e la sua sparring partner intellettuale, entrambi sempre a disposizione dell’altro e uniti anche quando uno dei due era in viaggio. Allora, la sera, passavano ore al telefono. Un’intimità senza ostacoli, una fiducia totale. Con lei si era sentito completo per la prima volta, la vita precedente era sparita in una nebbia insignificante, utile solo per acquisire una cultura sufficiente, una certa conoscenza dell’animo umano e dei propri bisogni, e riconoscere quella giusta quando infine era arrivata. Ma considerava gli ultimi anni trascorsi insieme in modo critico. A posteriori pensava di essere riuscito a individuare con precisione i primi momenti in cui Anna si era allontanata da lui, parecchio tempo prima. Jakob aveva immaginato che la vita, una volta che la figlia era cresciuta ed era diventata indipendente e la sua carriera si era consolidata, sarebbe diventata più tranquilla, ma Anna sembrava pensare proprio il contrario. Frequentava una marea di corsi, s’impegnava in questo e quello, e portava a casa gente nuova da ogni dove. Prima due perfidi omosessuali con cui ridacchiava di continuo e che riteneva tanto spiritosi. Poi l’attivista, come la chiamava Jakob, una donna brutta e bassa che gettava il proprio metro e mezzo di statura nella lotta contro l’ingegneria genetica nell’agricoltura locale. Con premeditazione lasciava che fosse Anna a parlare in sua vece sui palchi occasionali e nei gruppi di discussione – con il suo spirito e temperamento le faceva fare di sicuro un gran figura. Ma invece di riconoscere che la stava sfruttando, Anna era piena di ammirazione per quell’essere incarognito. Magdalena ha un grande obiettivo nella vita, diceva Anna con un patos sognante che non le si addiceva, ed è molto di più di quello che la maggior parte della gente può affermare di se stessa.
Nuove amiche al ritmo di una all’anno, che sembravano guardarlo con ironia. Nei loro occhi truccati con cura o ritoccati c’era la domanda palese, perché mai Anna si fosse sepolta in campagna con quell’uomo scorbutico. Spacchi la legna ogni giorno? Le aveva chiesto una di loro una volta. Eppure quella casa era stata il grande desiderio di Anna. Svegliarsi sotto gli alberi. La tranquillità, il canto degli uccelli e una simpatica scuola di paese per la loro figlia. Voleva emulare la propria infanzia a casa del padre in Austria, la prematura morte del quale era una ferita che la faceva ancora soffrire quando aveva conosciuto Jakob.
Voleva fare un viaggio di studio in Persia, si fece togliere delle macchie cutanee dal viso, digiunò per perdere alcuni chili e riprese a studiare il violino. In questo trip autocorrettivo mancava solo un uomo nuovo, esclamò una voce velenosa che sembrava la sua. Anna aveva preso solo poche cose e se ne era andata, da quel momento il suono della porta che si chiudeva avrebbe echeggiato nella testa di Jakob, nonostante la loro – la sua – porta d’ingresso si chiudesse piano, con un lieve scatto. L’unica cosa che aveva cambiato era il tavolo di fronte al divano. Se tornasse, sarebbe tutto come allora. Se tornasse, non la lascerebbe entrare. La punirebbe duramente. Jakob sognava ancora a occhi aperti l’occasione di dimostrare la propria determinazione.
Al supermercato – che quando lui e Anna avevano cominciato a vivere lì, si chiamava ancora magazzino e non vendeva che patate, cipolle, rape rosse e poco più – davanti alle ceste piene di zenzero, carambole e avocado, avvenne un incontro spiacevole. La nuova vicina se ne stava lì immobile, con lo sguardo assente, la bocca socchiusa, come se avesse dimenticato del tutto perché era venuta. In mano aveva una busta di plastica che sembrava aver usato ogni giorno da anni. Proprio quando Jakob stava per salutarla mentre spingeva il carrello, come dal nulla, spuntò accanto a lui la figlia della farmacista, lo fissò come sempre dritto in faccia con quello sguardo che sembrava avere troppi watt o lumen, e disse: Signor Karner, c’è una cosa personale di cui dobbiamo parlare!
E sarebbe? Chiese Jakob senza capire.
La figlia della farmacista ridacchiò. Non lei ed io, noi due! E indicò Rebecca.
Allora si sposti e mi lasci passare, disse Jakob, che decise che in futuro avrebbe trovato un’altra soluzione per le pulizie. Ingoiò l’abbondante rospo, dicendosi che si era trovato solo nel posto sbagliato al momento sbagliato, una pura coincidenza, ma che era bastata per essere subito rimbrottato.
Non lasciarsi invischiare. Non lasciarsi coinvolgere. Rimanere con e per se stessi. Lasciare il mondo fuori, per quanto era possibile. Uscire di tanto in tanto dalla bolla per procurarsi qualcosa da mangiare. Non prolungare quel momento di imbarazzo e stare molto all’erta. Continuare disinvolto, spingere il carrello, la schiena dritta, sulla lista della spesa la prossima voce era: burro.
Per favore aspetti, gli disse Rebecca alle spalle e lo affiancò nel corridoio su cui c’era scritto Farina, Riso, Frutta secca. Jakob afferrò una scatola di purè e fece finta di non aver sentito. Allora Rebecca gli tolse il purè dalle mani, lo rimise a posto e disse: vogliamo invitarla a cena da noi. E se le piace, le farò il purè di patate.
Per fortuna Rebecca si rivelò una discreta cuoca. Usava erbe aromatiche fresche. Aveva infornato un bel pezzo di stracotto, perché in quel periodo il barbecue era proibito. Non era la prima volta che succedeva di maggio. Quel mese era o freddissimo e piovoso oppure, al contrario, così caldo e secco che c’era l’allerta incendi. Jakob raccontò che lì il clima era diverso da quello della città. Non era mai riuscito a scoprire se ci fosse una linea di confine topografica tra due zone meteorologiche oppure se si trattava solo delle correnti che si spostavano da ovest verso est.
Il marito di Rebecca stappò una birra e disse: oppure il contrario.
Sciocchezze, disse Rebecca, il tempo arriva sempre da ovest.
Sempre, domandò il marito, anche in Giappone?
Rebecca gli gettò un canovaccio.
Jakob stava seduto lì, teneva la sua birra appoggiata sulla coscia e sperava che non si sarebbero baciati. Si trattavano in modo scanzonato, sbarazzino, confidenziale. Erano abituati l’uno all’altra come giovani cani che si conoscono bene anche perché nella loro vita non c’è stato molto altro. Qui, persino con gli strumenti di misurazione più esatti, non si sarebbe riuscito a trovare una fessura o una crepa. Le fessure e le crepe si creavano solo più tardi, perché tutto cambiava, la pressione, la luce. La pressione aumentava, la luce diminuiva. Perché la luce diminuisse, questo Jakob non lo aveva ancora capito. Non dipendeva solo dalla pressione. C’erano stati tempi in cui, nonostante la grande pressione, Anna e lui brillavano insieme. Ma più tardi non più, dopo l’aborto spontaneo, dopo il suo grande, unico e per questo ancora più pesante, insuccesso professionale. Jakob supponeva che avesse a che fare anche con il passare del tempo, con la crescente coscienza della propria finitezza. Quando insieme erano ancora così uniti come quei due lì, a letto riuscivano ad appianare persino i litigi più violenti. A volte gli appariva il viso gonfio di pianto di Anna, enorme sullo sfondo cupo, fluttuante nella stanza come separato dal resto del corpo, che diceva: Questo cambia tutto, Jakob. Non so se potrà più essere come prima.
Quale era stato il motivo? Quel ridicolo semi innamoramento in Julia Marrot, che lui – cosa davvero poco furba – le aveva confessato mezzo ubriaco proprio il giorno del suo compleanno? Inteso come uno strampalato complimento – tu sei e rimarrai la donna della mia vita – ma con un terrificante effetto esplosivo. Allora Julia non si era accorta di niente, come era venuto fuori anni più tardi. Lei e Jakob erano ancora amici; da quando Anna se ne era andata, due, tre volte all’anno andavano a cena fuori insieme. Ma allora Anna si era comportata come se lui avesse un’altra famiglia un paio di paesi più avanti.
Dopo cena scesero al lago con una bottiglia di vino rosso. Quei due avevano già scoperto il posto dove c’era l’albero inclinato. Molti anni prima un albero era caduto ed era finito in acqua, ma non si era lasciato uccidere, bensì era ricresciuto con un grazioso angolo di quarantacinque gradi. Aveva sviluppato una corona cespugliosa e ramificata che adesso sembrava sospesa sul lago.
No, anche Jakob conosceva solo questo. E non sapeva cosa avesse fatto cadere l’albero, una tempesta, un fulmine o una delle ricorrenti siccità che avevano inaridito il terreno nei pressi della riva. La metà superiore dello spesso tronco era fuori dall’acqua da molto tempo e ormai era asciutta e ricoperta di muschio verde pastello. Ci si poteva sedere comodamente, con i piedi nell’acqua. I vicini parlavano tra loro, Jakob li ascoltava distratto. Più tardi rivelò addirittura un paio di dettagli sulla figlia, che era il suo orgoglio, come si sentì dire. Tutto ciò che c’era da dire su di lei suonava purtroppo molto spocchioso: programma Erasmus, borse di studio, America, i diplomi. Ma si preoccupava della sua irrequietezza, perché secondo lui con gli studi si poteva anche esagerare, che non bisognava sempre studiare ma con ciò che si era imparato si doveva anche realizzare qualcosa – a chi avrebbe potuto raccontarlo? La figlia non si fermava mai in nessun posto, traslocava di continuo, ogni tanto veniva a trovarlo per trascorrere insieme un paio di giornate spensierate, ma Jakob non riusciva ad avvicinarsi davvero, ormai da parecchio tempo. Lo teneva a cortese distanza e lui sospettava che dietro questo atteggiamento ci fosse Anna. Di un marito o di un amante non si era mai parlato e, va be’, neanche di una compagna. Mia figlia è in fuga, pensò all’improvviso, con i piedi nell’acqua dolce, di fronte a quella coppia che aveva un’età simile, ma erano in due appunto, avevano preso una decisione, il matrimonio e una vecchia casa, il lavoro che questo comportava, la responsabilità. Potevano essere decisioni sbagliate, ma erano meglio che nessuna.
Il vino rosso era pesante e gli fece venire sonno. Negli ultimi tempi non dormiva più bene. Il vantaggio di svegliarsi presto era sentire l’attacco dell’orchestra degli uccelli. Jakob, che non credeva a niente, avrebbe accettato come prova dell’esistenza di Dio solo l’orchestra degli uccelli. Dove mai avevano imparato quale fosse il momento per cominciare tutti assieme quel giubilo vivace, quella celebrazione della vita, come avrebbero detto i credenti. E sarebbe sempre stato così, ogni mattina quel canto potente, ancora tra centinaia di migliaia di anni, quando di loro non sarebbe rimasta traccia nemmeno delle protesi dentarie.
Si era perso l’inizio della storia di Rebecca. Pareva che parlasse del primo fidanzato. Studiava medicina, diligente come tutti gli altri. Studiava per settimane, mesi, per l’esame di anatomia, l’esame d’igiene, quello di otorinolaringoiatria. Rebecca frequentava ancora il liceo. Lo aiutava a ripetere, reprimeva il ribrezzo per certe illustrazioni, soprattutto quelle delle malattie della pelle e veneree. Fino a quando un giorno aveva scoperto che lui non faceva un esame da molto tempo. La prima volta, nel bel mezzo di una prova scritta, si era alzato, aveva appallottolato il foglio ed era fuggito. Le volte dopo era rimasto fuori fino a quando le porte si erano richiuse. Poi tornava nell’appartamento che divideva con altri studenti e quando gli chiedevano com’era andata rispondeva sempre la stessa cosa: era stato difficile, ma sperava di averlo superato. Un paio di settimane dopo s’inventava un voto qualsiasi, sempre tra venti e ventiquattro.
Rebecca lo aveva lasciato. Era inquietante che qualcuno riuscisse a mentire in quel modo, disse. Adesso però si vergognava. Di non essersi accorta delle difficoltà, dei disperati tentativi di riuscire almeno a entrare nell’aula degli esami. Allora le interessava solo l’offesa ricevuta.
Non me lo hai mai raccontato, disse il marito.
Non so nemmeno io perché mi sia tornato in mente adesso, disse Rebecca.
Ho visto i diplomi di mia figlia con i miei occhi, disse Jakob, forse non tutti, ma quasi.
Per l’amor del cielo, esclamò Rebecca, non è questo che intendevo dire!
Il marito rise e disse, le coincidenze non esistono.
Ci sono catene di associazioni, lo apostrofò Rebecca che si era infiammata per l’imbarazzo, in questo caso forse ho pensato proprio il contrario…
Va tutto bene, la tranquillizzò Jakob, me ne vado a letto. Ma la ragazza, che sembrava alticcia, lo impietosì. Non riusciva a convincerla che non lo aveva offeso. Per questo rimase ancora un po’ in piedi sulla riva, raccontò questo e quello sulla vita di lì, un paio di storielle di paese e alla fine si dettero davvero appuntamento per fare una gita in città, dove Jakob le avrebbe mostrato il negozio di mobili balinesi.
Il giorno della gita splendeva un bel sole e tutti gli imbarazzi e i malintesi erano dimenticati. Rebecca indossava qualcosa giallo senape, a quanto pareva il suo colore preferito che, in ogni caso, non si abbinava male ai capelli biondo cenere. Se fosse un oggetto, sarebbe una classica lampada di carta di riso, traslucida, con le bacchette delicate, la luce tenue e che si sgualcisce subito. Presero il furgoncino perché speravano di trovare delle cose per la casa.
Di tanto in tanto, Jakob se lo confessò, era anche bello lasciare i paesani, soprattutto le paesane, e il loro insaziabile desiderio di tingersi i capelli del colore del pelo dei levrieri afgani e di indossare top luccicanti su pance sformate. Quel giorno lo splendore inizio secolo dell’intonaco bianco o color crema di alcune file di case aveva qualcosa di consolatorio, sembrava proteggere le fragilità umane meglio delle loro ottimistiche case nel bosco, dove le cime degli alberi, quando infuriava la tempesta, venivano sferzate senza pietà. Marciapiedi curati, puliti. Sui balconi con le ringhiere in stile liberty, una gran quantità di fiori colorati, forse delle varietà ordinate da Manufactum. I gerani erano di nuovo chic. La grande città aveva così tante facce. Ci si poteva trovare il fermento di Istanbul, le dure banlieue, la tristezza sovietica. Ma anche un po’ di laccato splendore imperiale. Jakob disse alla ragazza che ormai considerava quelle mille maschere un perfido disegno. Servivano soltanto a non far notare che la città non aveva un centro, né cuore, né carattere.
Adesso però la smetta con il suo cattivo umore, disse Rebecca ridendo, è una giornata così bella!
Jakob sospirò. Aveva preso un appuntamento dal dentista per non tornare insieme a lei dopo il giro al negozio di mobili. Nel frattempo se ne era pentito. Avrebbe potuto prendere quella giornata come veniva, invece di temerla, pranzare con Rebecca, andare in un negozio di bricolage, a quei due mancavano ancora così tante cose.
Davanti al negozio, gli attaccapanni con borse di pelle italiana, nelle vetrine, i foulard di seta, i cuscini kilim, i bicchieri di vetro soffiato e i vasi di coccio. Tutte le cose più inutili del mondo, disse Jakob, e Rebecca rispose: le cose belle sono spesso inutili, e viceversa.
Il negozio era quasi vuoto. Tre donne erano intorno a un tavolo al centro, due di loro avevano dei fogli in mano, forse una lista di consegne che confrontavano. Jakob accompagnò un po’ in giro la ragazza, qui dietro ci sono le sedie e i tavoli, e qui ogni genere di stoffe. Se ha bisogno di bicchieri e vasi, allora…
Le tre donne ammutolirono. Sussurrarono qualcosa e abbassarono i fogli.
Con quello sguardo trasognato che Jakob aveva già notato al supermercato, Rebecca si era fermata davanti a uno scaffale di cuscini e stoffe.
Mi scusi, disse una delle donne, e la voce volò attraverso la stanza come una freccia di fuoco, avrei una domanda!
Jakob si voltò. La donna aveva i capelli tagliati in un caschetto perfetto, biondo platino, e un naso appuntito. L’equivalente ottico della voce. Per un momento Jakob pensò di doversi gettare tra quella donna e la sua magra e vulnerabile vicina.
– Lei non è l’uomo che di recente ha comprato il tavolino orientale?
Sono io, disse Jakob, e quel tavolino è tanto piaciuto a questa mia conoscente che noi…
La donna gli troncò la parola in bocca: quello che ha comprato il tavolino e inoltre ha preso con sé un bicchiere di onice?
Le commesse lo guardarono impassibili. Era un interrogatorio.
La giovane vicina di casa si passò la mano tra i capelli come una bambina che non sa cosa fare.
Jakob fu pervaso da una scossa. Intende dire, chiese a sua volta, che avrei rubato il bicchiere? E allora entrerei qui così, in pieno giorno e…
Non ho detto rubato, lo interruppe la donna per la seconda volta: ho detto preso con sé.
Con la coda dell’occhio Jakob notò il viso allarmato di Rebecca. La commessa me lo ha regalato, cominciò Jakob tranquillo, le avevo chiesto uno sconto – il tavolo era un pezzo di esposizione, era stato a lungo in vetrina – e lei mi ha detto che senza la direttrice…
La direttrice sono io, disse la donna, e la mia commessa ha vissuto la scena in modo molto diverso!
Jakob la fissò. Gli passarono per la testa molte risposte possibili, da fredde a intimidatorie, ma soprattutto vide un grande recipiente verdastro, di onice, un vaso, che aveva gli stessi contorni del suo corpo, le spalle cascanti e un’antiestetica pancia al centro, vide il vaso traboccare di un liquido bollente rosso chiaro. Anna non avrebbe mai optato per un simile taglio di capelli che pareva disegnato con il compasso, o un colore così aggressivo, ma qualcosa nella determinazione di quella donna… si può vederla anche in modo diverso… anche chi non fa niente, fa pur qualcosa… non c’è nessuno a cui accade sempre solo… in una separazione si è sempre in due.
Jakob si voltò e disse, venga, andiamo.
– Ma…
Andiamo, gridò, e Rebecca trasalì. Una volta fuori ripercorsero in silenzio e in fretta la strada, passarono accanto all’auto e continuarono dritti. Il cuore di Jakob rimbombava, come se fosse solo là dentro, nella cavità della cassa toracica. Un caffè con gente allegra seduta fuori ai tavoli. Attraverso un parco. Poi di nuovo lungo una strada, meno elegante. Kebab, negozi di telefonia, di manicure asiatici. Dopo un po’ Rebecca gli domandò quanto era costato il tavolo. Jakob glielo disse.
E il bicchiere?
Non lo so, forse quindici euro.
Rebecca si fermò. Ammettiamo che il bicchiere sia costato trentacinque euro, disse. Allora sarebbe sempre meno di un decimo.
Che cosa cambia, domandò Jakob.
Dobbiamo tornare indietro e dire a quelle donne che hanno torto marcio, esclamò Rebecca, e il collo bianco si riempì di nuovo di macchie rosse: non è affatto necessario chiarire il malinteso che, a quanto pare, c’è stato tra lei e la commessa, come pensavo all’inizio, perché il valore di quel bicchiere da solo prova che…
Jakob la guardò. Se lo scordi, non ci metterò più piede.
Non si deve nemmeno discuterne allora? Domandò agitata. Non bisognerebbe dire a quella donna che come direttrice è una frana, cosa dico frana, uno scandalo?
È davvero molto gentile da parte sua, disse Jakob, ma mi creda, chi agisce così, vuole essere così.
Nelle settimane seguenti Jakob visse in completo isolamento. Si recò nel capoluogo del distretto per fare tre, quattro grossi rifornimenti, trascurò il giardino e quando una volta vide i vicini venire insieme verso casa sua, rientrò, chiuse la porta, e quando lo chiamarono non rispose, fino a quando non se ne andarono. Lavorava tanto, con il vino rosso fin nel cuore della notte, e così sbrigò una gran quantità di lavoro. Tra le due e le tre di notte beveva una grappa abbondante e si sdraiava sul divano dello studio. Sapeva che quella fase sarebbe passata, che prima o poi avrebbe arieggiato le stanze, si sarebbe lavato e avrebbe pulito il rivestimento del divano e alla fine sarebbe tornato nell’accogliente camera da letto da cui vedeva la punta del lago.
Così finì un lavoro che gli aveva dato parecchi grattacapi. Un hotel in Corea del Sud insisteva nel volere un acquascivolo che Jakob aveva progettato tempo prima, ripido alla follia. Nel frattempo però l’hotel aveva costruito tre vani per gli ascensori nel cortile interno che ostruivano la strada. Fino a quel momento Jakob non aveva voluto sentir ragioni. Chi ristruttura casa in altro modo da quanto concordato non poteva esigere fedeltà contrattuale. Ma adesso trovò una soluzione che lo sorprese. Gli bastò modificare appena l’angolo d’inclinazione e il diametro delle curve, e girare tutta la costruzione di circa venticinque gradi. Così ci sarebbe entrata di nuovo. L’architetto dei giardini, con le sue palme, si sarebbe arrabbiato ma questo non era un problema suo. I capi allo studio erano molto soddisfatti. Non credevano più in una conclusione positiva di quel progetto impossibile. A posteriori Jakob capiva bene qual era stato il motivo del blocco mentale. Dipendeva dalla sua repulsione a cedere.
Quando quel pomeriggio era tornato da Berlino – si era accorto soltanto in treno di aver dimenticato l’appuntamento dal dentista – si era ripromesso di portare a termine tutto quello che continuava a rimandare. Voleva affrontarlo e cercare una soluzione, in fretta e quindi anche diversa. Voleva provare a guardare come un estraneo tutto ciò che aveva ancora in sospeso, un estraneo scaltro, giocherellone, ottimista, uno a cui la vita sembra ancora infinita, uno che non ha paura di fallire perché può ancora permetterselo. Ma tutto quello che non avrebbe trovato una soluzione neanche con questo nuovo sguardo, allora doveva essere abbandonato, subito e per sempre.
In questo modo archiviò l’idea di ristrutturare la camera da letto, cui girava intorno da anni senza decidersi tra due possibilità. Era una bella stanza, aveva sempre soddisfatto il proprio scopo, e dato che non c’era una soluzione ideale sarebbe rimasta com’era. Ma con lo scivolo coreano funzionò. Lo osservò da un altro punto di vista, si rinnovò, soprattutto si sciolse. Per la prima volta dopo tanto tempo fu soddisfatto di come riuscì a concentrarsi durante la realizzazione dei nuovi, impegnativi disegni. Una volta finito avrebbe fatto un passo indietro e avrebbe visto un lavoro riuscito. Forse avrebbe appeso alla parete uno dei rendering a colori, come un tempo, quando era studente. Il giardino poteva aspettare. Negli ultimi anni lo aveva curato con tanta determinazione che un paio di settimane di abbandono lo avrebbero reso solo più bello.
Tuttavia quando consegnò il progetto e ricevette le congratulazioni telefoniche del capufficio, non si sentì del tutto sollevato. Non toccò nemmeno le bottiglie di champagne che gli avevano mandato. Le mise in frigorifero e ammirò le etichette, tutto quel verde e giallo splendente, ma non volle aprirle. Aveva dimenticato qualcosa, c’era ancora qualcosa da sbrigare che stava sotto o dietro ma di cui non riusciva neanche a sfiorare la punta. Che però lo tormentava e per questo doveva trovarlo.
Cominciò a riordinare lo studio. S’imbatté in pile di documenti, schizzi di progetti e ritagli di giornale di cui si ricordava appena, come anche del motivo per cui li aveva conservati così a lungo. Aveva sempre pensato di essere una persona capace di buttare via le cose. In un attacco di euforia aprì la finestra e gettò fuori i documenti. Era un giorno senza vento. Più tardi sarebbe sceso, li avrebbe raccolti e portati al cassonetto della carta. Dietro uno scaffale della libreria scovò un grosso pezzo di cartone grigio, sul quale qualcuno aveva incollato i disegni della figlia. Una foto da neonata, alcune di quando era piccola, cominciando in alto a sinistra, la metà inferiore era vuota. Rifletté un momento e arrivò alla conclusione che doveva trattarsi di una successione d’immagini ordinate in base all’età, o per lo meno l’inizio. Ogni anno, all’incirca nello stesso periodo, i genitori fanno fare un ritratto da un fotografo, per incollarlo in un album in successione cronologica o per appenderlo. Il progetto diventa tanto più affascinante quante più foto si accumulano. Un falso paradosso: con il passare degli anni acquista forza espressiva e al contempo diventa più imprevedibile. Ci sono molti più sbalzi improvvisi di quello che si pensa.
Forse barando un po’, Jakob avrebbe potuto completare il quadro. Fino alla maturità doveva avere foto a sufficienza. Negli anni successivi la figlia aveva di sicuro fatto delle fototessere per tutti i moduli di iscrizione e i documenti di identità. Avrebbe potuto chiedergliele e dirle che era una sorpresa. Ne avrebbe fatto uno per sé e uno per lei. In forma di libro o di quadro. Un libro che cominciava con una doppia pagina panoramica, piena di minuscole foto, in cui si poteva osservare come da una testa carina veniva fuori una persona intelligente. Che da allora vagava di diploma in diploma, di continente in continente.
Signor Karner, va tutto bene? Sentì gridare dalla finestra.
Jakob si affacciò e si mise a ridere. Tutto benissimo, rispose guardando la timida ragazza dai capelli biondo cenere, sto mettendo in ordine! Venga su!
E così d’un tratto la magra Rebecca era seduta con lui tra le carte. Guardò le foto della figlia e come una complice gettò dalla finestra delle vecchie riviste d’informatica. Si rese conto che le foto della figlia bambina le parlavano in modo diverso rispetto a lui. Jakob confrontò le due giovani donne, ma Rebecca pensava ai bambini. Se anche lei ne voleva uno e quando.
Le assomiglia molto, disse Rebecca, anche se non so che aspetto avesse sua moglie.
Somiglia più alla madre che a me, rispose Jakob, ma nel complesso è più tranquilla. Ha il mio carattere.
Dopo averlo detto non fu più sicuro che fosse vero. Quando la figlia veniva a trovarlo, Jakob trovava piacevole il suo riserbo. Non era ingombrante come Anna con quella lingua tagliente, che parlava, rideva, faceva battute e alla quale piaceva specchiarsi in quella pura voglia di esprimersi. Che viveva di questo, diceva, coglieva con le parole quello che vedeva e provava. Ma era possibile che anche quando era da Anna, la figlia si adattasse alla situazione. Che con lei fosse diversa, più chiassosa, sempre con la battuta pronta. Jakob non sapeva se si vedevano spesso. Supponeva altrettanto di rado. Ma perché mai? Non sapeva niente di Anna, né se stava insieme a quell’uomo, né di preciso dove e come vivesse. Non aveva mai chiesto niente alla figlia. Per anni aveva fatto finta che la madre fosse morta.
Quando Jakob alzò lo sguardo, si accorse che tutto questo non lo aveva solo pensato. Rebecca che era seduta sul pavimento tra i talloni, lo guardava, non era scioccata, né disgustata, né infastidita per l’imbarazzo. Il viso come una graziosa lampada di carta di riso. Sentì un reflusso di vergogna come fosse acidità di stomaco, ma quando espirò, lo buttò fuori senza lasciare traccia. Aveva superato il proprio blocco mentale. Ci sono persone che possono vedere e sapere più di altre. Julia Marrot, suo fratello, che viveva in Inghilterra, e adesso questa ragazza. Non era da solo a lottare contro il mondo. La linea del fronte non era così assoluta.
Le propose di uscire in giardino con una birra anche se era ancora presto. Doveva farsi un’idea del lavoro che lo aspettava e Rebecca aveva sempre voluto vedere il giardino, il gazebo e la siepe di bosso che incorniciava in un semicerchio un piccolo stagno per i pesci rossi più in fondo. I pesci non c’erano più, il luccichio nell’acqua piatta aveva attirato i predatori. Ma il gazebo era carino anche se un po’ fuori posto. Un arredo da giardino principesco in uno spoglio bosco di pini. Rebecca ammirò il gazebo, lo stagno, la malvarosa rigogliosa. E il prato così verde. Gli domandò se poteva insegnarle a formare delle figure con i bossi, non sapeva ancora cosa, forse degli animali o delle forme geometriche. Si entusiasmò all’idea che lì dietro, nel bosco, ci fossero segrete opere d’arte da giardino, in cui si potevano imbattere i rari passeggiatori che si sarebbero chiesti che cosa significavano.
No, la pergola non l’aveva costruita per la moglie, rispose dopo un po’. La vicina doveva aver pensato che avesse fatto finta di non sentire la domanda. Invece Jakob aveva solo riflettuto su quale fosse la risposta più sincera. Anna aveva desiderato a lungo il gazebo, e uno stagno per i pesci o una ninfa di pietra arenaria. Quella zona era molto meno aggraziata del Salzkammergut, dove era cresciuta. Questo in segreto lo faceva arrabbiare. Voleva che Anna accettasse il paesaggio così come era. Non si doveva cambiarlo, farlo sembrare più idilliaco di quello che era. In ogni caso aveva sempre trovato delle scuse per non occuparsene. Prima il bosso non ne voleva sapere di crescere, poi aveva avuto le sue difficoltà professionali e la realizzazione dello stagno sarebbe stata troppo per lui.
Nella prima estate dopo che Anna se ne era andata, Jakob aveva cominciato a scavare. All’inizio aveva dovuto vedersela solo con una radice di pino. I pini hanno fittoni lunghi molti metri, è per questo che resistono alle tempeste. Sono lunghi e sottili e sembrano molto delicati, ma sono difficili da eliminare. Quando muoiono è per altri motivi: parassiti, poca luce. E quando un pino cade, si può al massimo tagliare il troncone, perché sradicarlo non è possibile. Cioè, si può scavare sempre più in profondità e continuare a segare e a piallare nel buco, ma non si arriva mai alla fine del fittone. Non si può estrarlo come un dente. La figlia un tempo diceva che l’estremità spuntava in Australia. Come i ragazzini s’immaginano volentieri, la parte opposta della terra.
Jakob aveva continuato a scavare. Voleva togliere il più possibile del troncone pur sapendo che non era possibile arrivare alla fine. Poi aveva allargato il buco per poterci stare dentro meglio. Alla fine aveva capito che si prendeva in giro da solo e che stava realizzando post festum quello stramaledetto stagno. Ma quando aveva finito, si era sorpreso a trovare l’insieme carino. A parte il dramma dei pesci rossi, disse e la vicina rise.
Alla fine del giro, Rebecca scoprì il tavolo che coronava la catasta di legna, appoggiato su un lato, in posizione accusatoria. A Jakob sembrò che si fosse buttato di fianco, con le tre gambe che restavano tese, con intenzione drammatica. Se quel tavolo fosse stato una persona, sarebbe stato una soubrette.
E lei butta via un oggetto così carino? Gli domandò Rebecca in tono di rimprovero. E poi lo volle avere.
La gamba, gli manca una gamba, si difese Jakob.
Ma è lì vicino, disse Rebecca e la raccolse. Senza dubbio: quel tavolo infame l’aveva fatta rotolare fuori dal mucchio, Jakob era sicuro di averla gettata dietro, quel giorno di molte settimane o mesi prima.
Non se ne parla, disse Jakob con espressione severa. Di sicuro non le permetterò di prendere niente dalla mia spazzatura – dopo tutto quello che abbiamo passato insieme.
Rebecca lo guardò senza capire.
Sorpresa! Esclamò Jakob come se fosse a una festa di compleanno di bambini, se me lo permette le porterò la sorpresa stasera. E così le fece capire che doveva andarsene.
Il tavolino di Anna si arrese senza opporre resistenza. Probabilmente era già quasi marcito durante le settimane passate all’aperto, in ogni caso bastarono un paio colpi d’ascia ben assestati e non rimasero che un paio di indefinibili pezzi di legno. Spaccò in due le corte zampe secondo la lunghezza, formando così dei ceppi precisi. Le prime sere fresche non si sarebbero fatte aspettare ancora a lungo, qualche volta l’afa si rompeva già alla metà di agosto. E allora i resti del tavolino sarebbero finiti nel fuoco.
Fino al momento in cui raccolse la carta, era stato un giorno di strepitosi successi. Jakob era accucciato sul prato di fronte alla casa e afferrava i vecchi giornali. A un tratto cadde all’indietro e si ritrovò seduto sul ghiaino. Gli faceva male la schiena, gli faceva male tutto. Guardò le cartelline e i documenti sparsi intorno a lui, alzò la testa, guardò la finestra da sotto, come un nano. Si alzò frenetico e raccolse il resto con la massima fretta. Imprecò quando un paio di fogli gli caddero di mano. Per fare più veloce, ammucchiò tutto con i piedi. Dovette fare la strada tre volte, l’ultima di corsa, e alla fine la carta era così tanta che il coperchio del cassonetto non si chiuse al primo colpo. Jakob dovette riaprirlo e premere i rifiuti con le braccia e i gomiti. Il bidone infine si chiuse, Jakob non sapeva cosa avrebbe potuto fare di più. Arrampicarsi e pestare la carta con i piedi? Bruciare tutto?
Salì in studio. Almeno lì c’era una gioia che lo aspettava: ordine e cambiamento. Purtroppo inoltre una gran quantità di polvere e sporcizia. Era impensabile telefonare alla figlia della farmacista con così poco preavviso. Jakob andò a prendere l’aspirapolvere, con dita sciolte lo attaccò e affrontò lo studio. Il forte ronzio e le vibrazioni lo tranquillizzarono. In realtà questi aspirapolvere sono degli apparecchi davvero efficaci, pensò. Mandano giù tutto alla velocità della luce. Forse in futuro avrebbe dovuto passare da solo l’aspirapolvere, la soddisfazione immediata per il risultato ottenuto era grande quasi quanto quella di verniciare lo steccato del giardino. Pieno di astio nei confronti di se stesso, del mondo e della vita, Jakob annuì tra sé mentre con il fagocitante boccaglio a punta raggiungeva anche l’angolo più remoto.
Anna non se n’era andata. L’aveva buttata fuori lui. Se ne sarebbe andata comunque, più tardi, dopo le infruttuose consulenze matrimoniali che per giorni lo aveva implorato di fare, tra le lacrime. Ma cosa ne sarebbe emerso. Sarebbe solo servito a mascherare l’alto tradimento. Anna aveva rievocato il loro grande amore, si era seduta su una sedia davanti a lui, con la schiena dritta, come una povera peccatrice nel confessionale. Si era guardata le mani e con voce sommessa aveva snocciolato la confessione, aveva detto che era pentita nell’animo, era rammaricata e non avrebbe mai più rivisto quell’uomo. Ma allo stesso tempo insisteva nel dire che le radici di quella catastrofe dovevano essere nella loro relazione, che anche lui doveva aver contribuito in qualche modo ad allontanarla. E che pertanto potevano salvare il loro matrimonio soltanto insieme.
Adesso è colpa mia se sei andata a letto con un altro, aveva gridato Jakob ed era stato sommerso dalle immagini di loro due che facevano l’amore, sua moglie e quell’uomo senza volto: succede mai qualcosa che non sia per colpa mia?
Anna aveva pianto per ore e tremato, aveva dormito vestita sul divano, la mattina gli aveva portato il caffè, sottomessa, umile. La consapevolezza della colpa, che non le si addiceva affatto, lo aveva irritato ancora di più. Stava a indicare la rottura totale, il sovvertimento di tutte le regole che avevano guidato la loro relazione. Prima Anna non lo aveva mai pregato di niente. Adesso resisteva per diversi giorni in quel ruolo di peccatrice con il capo cosparso di cenere, ma Jakob non riusciva a smettere di rimproverarla, di chiamarla bugiarda, traditrice, impostora. E ne ho tutto il diritto, gridava Jakob e sbatteva le porte. A un certo punto si era arresa. Jakob lo aveva temuto e allo stesso tempo desiderato, che prendesse le sue cose, ma quando Anna aveva cominciato a farlo, allora a Jakob era sembrato che non avvenisse abbastanza in fretta. Aveva aperto le finestre e gettato fuori tutto, vestiti, spazzole, scarpe.
Fuori passavano la farmacista e la figlia adolescente, per la consueta passeggiata domenicale. Allora la ragazzina portava ancora un ridicolo fiocco di velluto in testa che ondeggiava come quello di un cavallo da concorso. Anna, con la faccia rossa e gli occhi gonfi di pianto, correva in giardino avanti e indietro e raccoglieva le sue cose alla rinfusa, qualche oggetto lo prese addirittura al volo. Era tutto sparito, dimenticato. Gli era tornato alla mente solo poco prima quando aveva raccolto le cose che aveva buttato dalla finestra, fetido e rivoltante. Allora gli sarebbe tanto piaciuto prenderla a calci o schiaffeggiarla, tanto si era sentito ferito e umiliato, del tutto fuori di sé, sradicato, senza patria, ingannato e offeso dal tradimento. Che cosa sarebbe successo se avesse accettato la proposta di Anna? Sarebbe mai riuscito a fidarsi di nuovo di lei? Lei sarebbe ancora lì oggi?
Spense l’aspirapolvere. Si fece la doccia e indossò degli abiti puliti. Non aveva considerato che anche il nuovo tavolo balinese era già un po’ sporco. Ma lì, in campagna, non aveva importanza. Prese il tavolo, lo portò fuori e lo mise nella carriola come un bambinone pigro. Mentre andava da Rebecca si rallegrò al pensiero del nuovo vuoto in soggiorno. Non c’era più niente in giro, solo altro spazio.
Quando si avvicinò, Rebecca uscì di casa con movimenti lenti, esitanti. Nel camice giallo senape si fermò sulla porta e lo guardò con gli occhi spalancati, come se avesse un presentimento. Guardi, gli gridò Jakob da lontano, guardi, il tavolo sta già allungando felice le zampe verso di lei!