SOTTO IL VENTO DEL NORD

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Allora si assise sul trono, ma Era al solo vederlo

comprese che con lui aveva diviso consigli

Teti dal piede d’argento, figlia del Vecchio del Mare

e subito con aspre parole si rivolse al figlio di Crono:

“Quale dio ha tramato con te, maestro d’inganni?

Sempre tu hai caro in segreto da me

decidere nascondendo il pensiero, mai e poi mai

hai il coraggio di dirmi una parola di quello che pensi”.

E a lei rispose il padre degli dèi e degli uomini:

“Era, non sperare di conoscere tutti i miei piani

sono molto difficili, sebbene tu mi sia legittima sposa.

Quello che è conveniente si sappia, nessuno mai

degli dèi o degli uomini lo conoscerà prima di te,

ma quello che voglio meditare da solo, senza altri dèi

tu non chiedermelo e non fare ricerche”.

E gli rispose la venerabile Era occhi di giovenca:

“Potentissimo Cronide, quale parola tu hai detto?

Anche troppo in passato non ho fatto domande o ricerche,

tu a tuo talento mediti tutto quello che vuoi.

Ma io ora temo molto dentro il mio cuore che ti svii

Teti dai piedi d’argento, figlia del Vecchio del Mare.

All’alba si è seduta vicina e ti ha abbracciato i ginocchi

e a lei penso tu abbia promesso col capo che Achille

onorerai, e sterminerai molti Achei accanto alle navi”.

E a lei rispondendo parlò Zeus adunatore di nubi:

“Sciagurata, sempre mi spii, in nulla ti sfuggo!

Ma non potrai fare nulla e mi sarai più lontana

dal cuore, questo ti farà ancora più rabbia.

Se le cose stanno così è perché questo mi piace.

Tu siedi in silenzio e obbedisci al comando,

perché non ti saranno d’aiuto tutti gli dèi dell’Olimpo

se ti vengo vicino e allungo su te le mie mani invincibili”.

Disse, e tremò Era veneranda occhi di giovenca,

sedette in silenzio, facendo forza al suo cuore.

Nel palazzo di Zeus fremettero gli dèi celesti

e tra loro Efesto, in ogni arte perfetto, iniziò a dire

consolando sua madre, Era braccio bianco:

“Ah, sarà una cosa tremenda e non sopportabile

se a causa degli uomini voi due litigate così

e destate tumulto in mezzo agli dèi e sarà dissipata

la gioia del banchetto, perché il peggio prevale.

A mia madre, che pure è sapiente, io raccomando

di essere mite con Zeus padre, che non si adiri

il padre e ci rovini il banchetto, e non accada

che il dio fulminatore voglia

gettarti dal trono, perché è molto più forte.

Ma tu rivolgiti a lui con dolci parole

e subito l’Olimpio si placherà nuovamente con noi”.

Disse così, s’alzò e sollevando una coppa a due anse

la pose tra le mani alla madre e le disse:

“Sopporta, madre mia, e accetta anche se afflitta

perché io non ti veda con questi miei occhi percossa,

che mi sei cara, e io non potrò per quanto adirato

aiutarti: sfidare Zeus è terribile.

Già un’altra volta, mentre volevo difenderti,

m’afferrò per un piede e mi gettò dalla soglia del cielo.

Per tutto un giorno precipitai, e al tramonto del sole

caddi a Lemno, e mi restava un soffio di forza,

caduto lì mi raccolse la gente dei Sinti”.

Disse così, sorrise la dea Era braccio bianco

e sorridendo prese la coppa dalle mani del figlio

ed egli facendo il giro da destra agli altri dèi

versò il dolce nettare attingendo al cratere.

Inestinguibile riso sorse tra gli dèi beati

quando videro Efesto affannarsi per la gran sala.

Così banchettarono tutto il giorno sino al tramonto del sole

e nessuno sentì la mancanza della sua parte di cibo

e neppure della splendida cetra, che Apollo suonava

mentre le Muse cantavano a turno con splendida voce.

Ma quando si spense la luminosa vampa del sole

andarono a dormire ciascuno nella sua casa

che il glorioso Efesto, destro con entrambe le mani,

aveva innalzato con la sua mirabile arte.

E Zeus fulminatore s’avviò verso il letto

dove sempre si corica quando il dolce sonno lo prende,

salito si distese, e accanto giaceva Era dal trono d’oro.

(Omero, Iliade, canto I, vv. 531-611, tr. it. G. Guidorizzi)

SAMOTRACIA, L’ISOLA DEI GRANDI DÈI

Si chiama swoosh: milioni di persone corrono esibendo il logo delle Nike (generalmente pronunciato all’inglese, nàiki) che è la raffigurazione stilizzata dell’ala della Nike di Samotracia, una delle statue simbolo del Louvre (Figura 2.1). Sembra davvero che debba spiccare il volo, per chi la guarda mentre sale l’elegante scala Daru, in cima alla quale la Nike accoglie i visitatori al secondo piano, ed è giusto che sia così, perché la statua era stata concepita per essere guardata dal basso.

Figura 2.1 Nike di Samotracia, 200-180 a.C., Musée du Louvre, Parigi.

Figura 2.1 Nike di Samotracia, 200-180 a.C., Musée du Louvre, Parigi.

In realtà, la Nike si sta posando sulla prua di una nave. Le ali si stanno dispiegando, frementi di movimento, il panneggio lieve come un velo fa vedere, più che coprire, la gamba sinistra che si posa leggera avanzando in punta di piedi; l’altra è scoperta, ed è la gamba tornita e bella di una giovane donna; il velo lascia vedere una torsione del busto che dà un’idea di forza, di energia. Era immaginata come una polena di nave, ma in marmo di Paro. La testa e le braccia mancano, però questo conferisce persino più slancio al corpo. È la statua di Nike, la Vittoria, che stava sull’acroterio del tempio dei Grandi Dèi di Samotracia. Fu scolpita attorno al 180 a.C. da un artista di Rodi, Pitocrito; gli abitanti di Samotracia la vollero collocare sul punto più alto del loro famoso santuario dei Cabiri per commemorare la vittoria della flotta di Rodi contro quella del re Antioco di Siria che era comandata nientemeno che da Annibale.

Giacque per secoli, frantumata, tra le rovine del santuario, sinché nel 1863 fu ritrovata da Charles Champoiseau, viceconsole francese a Edirne (l’antica Adrianopoli); fu acquistata e collocata al Louvre come altri capolavori greci, a gran gloria della Francia. Filippo Tommaso Marinetti non l’amava: il fondatore del Futurismo proclamava che “un’automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bella della Vittoria di Samotracia”. Eppure, se c’è un’opera che esprime movimento, che anzi è fatta di movimento non meno di una scultura di Boccioni, questa è la Nike di Samotracia. Del resto, anche i quadri dei futuristi ora sono nei musei, che Marinetti tanto aborriva. Destino delle opere d’arte, prima o poi.

Samotracia, poco più che uno scoglio davanti alle coste della Tracia, si può definire la cima di un monte emergente dal mare; quella montagna, nota anche come Saos, ha il bel nome di Fengari (“luna”) ed è alta più di 1600 metri. L’isola non ha nulla della solarità egea. Boschi, cascate, ruscelli, sorgenti termali, la cima del monte spesso circondata da nubi: Samotracia si difende così, con la sua natura scontrosa ma vergine, dall’invasione del turismo di massa (Figura 2.2).

Figura 2.2 Veduta della natura dell’isola.

Figura 2.2 Veduta della natura dell’isola.

È un’isola misteriosa senza spiagge memorabili che attirano i bagnanti, senza grandi strutture alberghiere; chi va in questo posto fuori mano incontra una terra in cui si percepisce ancora la presenza del sacro, e di un sacro arcano, segreto. Samotracia era infatti uno dei luoghi più venerati del Mediterraneo, sede, lungo tutta l’epoca antica, del culto misterico dei Cabiri: tra i luoghi in cui si praticavano culti misterici fu secondo in importanza solo a Eleusi (Figura 2.3). Tra gli iniziati, nel V secolo a.C. vi fu anche lo storico Erodoto, che fa un breve cenno alle misteriose cerimonie che avvenivano laggiù: “Chi è iniziato ai misteri dei Cabiri che gli abitanti di Samotracia celebrano, avendoli ricevuti dai Pelasgi, sa ciò che io voglio dire. In effetti i Pelasgi che di recente sono venuti a vivere in Attica presso gli Ateniesi abitavano un tempo Samotracia e da loro i Samotraci hanno imparato e conservano i misteri”.

Figura 2.3 Frammento di bassorilievo con iniziazione di Agamennone al culto dei Cabiri, 560 a.C. ca, Musée du Louvre, Parigi.

Figura 2.3 Frammento di bassorilievo con iniziazione di Agamennone al culto dei Cabiri, 560 a.C. ca, Musée du Louvre, Parigi.

I culti praticati a Samotracia erano certamente pregreci; anche Erodoto sapeva che erano stati celebrati in origine da una popolazione remota, i Pelasgi (così venivano chiamate generalmente le genti pregreche, di cui i Greci conservavano memoria). Forse gli antichi abitanti di Samotracia si chiamavano Saoi; parole non greche, come formule magiche, rimasero incastonate nei rituali, anche dopo l’arrivo dei Greci, circa nel VII secolo a.C. Un’isola strana, in cui il deforme e l’eccessivo suscitavano uno speciale interesse: oltre allo zoppo Efesto, e al fallico Ermes, le ceramiche trovate in quantità nel santuario mostrano figure grottesche, dipinte in uno stile inconfondibile, con caricature di pigmei, di neri dal volto mostruoso, falli penzolanti, nani dal ventre immenso.

Era un’isola piena di antiche vicende. Si diceva che Zeus si fosse innamorato di una delle Pleiadi, figlie del titano Atlante, Elettra, che viveva a Samotracia. Da lei ebbe tre figli: Dardano, Iasione e Armonia. Armonia sposò Cadmo, fondatore di Tebe, che passava di lì; i loro nomi erano ricordati nei riti misterici dell’isola. A Iasione toccò una sorte altrettanto gloriosa ma tragica: Demetra, la grande dea delle messi, durante il banchetto nuziale di Cadmo e Armonia, si innamorò follemente di lui. Dimenticando la sua naturale compostezza, la dea delle messi, senza neppure aspettare che finisse il banchetto, prese per mano Iasione e lo condusse fuori dalla sala; lì, invasa dalla passione come un’adolescente, si unì con lui sulla terra, sopra un maggese tre volte arato. Da quell’amplesso furtivo nacque Pluto, il demone della ricchezza, ma Zeus, adirato per l’ardire di Iasione, lo fulminò. L’ultimo dei figli, Dardano, all’epoca del Diluvio Universale, il terzo di cui si avesse memoria, raggiunse le coste dell’Asia sopra una zattera e andò a incagliarsi sulle vette del monte Ida, in Troade. Dai suoi discendenti sarebbe stata poi fondata Troia.

Il santuario di Samotracia, o meglio il santuario dei Grandi Dèi di Samotracia, come era chiamato, conteneva un vasto complesso di edifici il cui fulcro era la Sala delle iniziazioni o Anaktoron; il complesso fu costruito e ingrandito in varie epoche, dall’età classica a quella imperiale (Figura 2.4). Sorgeva appena fuori dalla città, ed era uno spazio sacro autonomo dalle autorità cittadine. L’insieme delle rovine, che sembrano intrecciate tra loro quasi disordinatamente, mostra porticati, aree templari, un grande edificio rotondo o thólos che serviva per incontri ufficiali; il tutto disposto su tre stretti terrazzamenti, separati tra loro da due torrenti, sino ad arrivare al più alto dove appunto dominava la Nike.

Figura 2.4 Resti dello Hieron.

Figura 2.4 Resti dello Hieron.

Gli dèi venerati in quel luogo erano detti Cabiri oppure Grandi Dèi: divinità arcane, estranee al pantheon greco. Un mito (testimoniato dal logografo Acusilao di Argo, del V secolo a.C.) raccontava che il capostipite delle divinità venerate sull’isola era stato Efesto, il quale aveva generato Cadmilo, da cui erano successivamente nati tre figli e tre figlie, i Cabiri. Altri però parlavano di sette Cabiri oppure anche di quattro. Un’altra leggenda diceva che i Cabiri, creature antichissime, avevano assistito alla nascita di Zeus dall’alto della rocca di Pergamo: in questo caso, erano identificati con demoni seguaci della dea Rea, madre di Zeus. Appartengono dunque alla fase titanica della religione greca, o meglio entrano nella religione greca da altri ambiti religiosi, di origine tracia. I Cabiri erano creature antichissime, dotati di poteri magici, divinità del fuoco e lavoratori di metalli (il che spiega la loro parentela con Efesto), figure nebulose e misteriose come altri esseri primordiali che vissero sulle sponde del Mare Egeo, quali i Telchini di Rodi o i Cureti di Creta.

Nel santuario di Samotracia si venerava un insieme un po’ confuso, per noi, di figure divine, frutto di un incontro sincretistico di vari culti. La divinità centrale era una dea femminile, una Grande Madre raffigurata seduta in trono con accanto un leone. Questa dea aveva un nome “segreto”, noto solo agli iniziati, che era forse il suo nome originale: Axieros. Per i Greci però era equivalente a Demetra, anche se i suoi caratteri la avvicinano all’anatolica Cibele, madre di tutti gli animali, anch’essa raffigurata tra leoni e belve feroci. Per gli iniziati di Samotracia, questa dea era anche signora dei minerali e in particolare del ferro: i fedeli infatti, dopo essere stati iniziati, dovevano indossare un anello di ferro per tutta la vita. Ne sono stati ritrovati in gran numero, evidentemente offerte votive, durante gli scavi del santuario. Accanto alla Grande Madre sedeva un paredro divino, che portava il nome di Kadmylos ed era assimilato a Ermes; si trattava di un dio della fertilità, come suggerisce la sua natura itifallica (di cui parla Erodoto). Nel santuario si onoravano altre divinità femminili, come la dea Ecate, Afrodite e una coppia di divinità sotterranee chiamate con i nomi sacri di Axiokersos e Axiokersa, corrispondente alla coppia greca infera, Ade e Persefone. Accanto a queste divinità, ricevevano onori i Cabiri, che erano considerati gli eroi fondatori del santuario. Due statue di Cabiri sorgevano ai lati della porta della sala iniziatica. I Greci raccontavano che erano immagini di Ermes: il quale aveva scorto all’interno Persefone e si era esaltato al punto da mostrare chiaramente il segno della sua eccitazione, raffigurato nelle statue.

Il santuario di Samotracia accoglieva coloro che volevano iniziarsi alle verità segrete di questi Grandi Dèi. La festa annuale, per la quale affluivano pellegrini da tutto il mondo mediterraneo, si teneva nel cuore dell’estate. Come avveniva nei misteri eleusini, il rito dei Grandi Dèi comportava una sacra rappresentazione, di cui poco sappiamo, dato che era vietato diffondere notizie sui riti misterici ai profani; in una fase piuttosto recente del culto (IV secolo a.C.) il rituale comprendeva il racconto di una vergine scomparsa nelle viscere della terra e del suo matrimonio, qualcosa di simile al mito di Ade e Persefone: ma gli sposi erano identificati con Cadmo e Armonia. Qualsiasi visitatore poteva essere iniziato ai misteri, senza distinzione di sesso, età o condizione sociale: a compiere il rito erano i sacerdoti del santuario che rivelavano agli iniziandi storie segrete e mostravano loro oggetti sacri. Di questi riti conosciamo solo alcuni dettagli. Vi erano due fasi dell’iniziazione, e la seconda doveva avvenire almeno un anno dopo la prima, come una sorta di richiamo vaccinale. Il sacerdote esigeva dall’iniziando una specie di confessione, chiedendogli di rivelare pubblicamente quale fosse la cosa peggiore che aveva fatto in vita sua, come premessa per creare un vincolo psicologico di solidarietà con gli altri fedeli; poi gli iniziandi si svestivano e si legavano attorno alla vita una fascia purpurea e si infilavano al dito anelli di ferro, che avrebbero portato per tutta la vita. L’iniziato riceveva la promessa di una vita più felice sulla terra – in particolare, la protezione nella navigazione – e forse anche nell’oltretomba (anche se questa parte della dottrina misterica non è ben chiara). Agli iniziati di ultimo grado il sacerdote comunicava dottrine segrete all’iniziando nella grotta sacra durante un’impressionante processione notturna, che si svolgeva al lume delle fiaccole. Il santuario di Samotracia era molto antico, ma attraversò un periodo di particolare fulgore durante il periodo ellenistico; era il complesso cultuale favorito della dinastia macedone, a partire dal padre di Alessandro Magno, Filippo II, che andò a Samotracia per farsi iniziare e lì conobbe la bellissima e un po’ selvaggia Olimpia, che sarebbe diventata la madre di Alessandro il Grande. I sovrani macedoni e anche gli altri re ellenistici, in particolare i Tolomei, fecero a gara per ornarlo con edifici, offerte e statue di culto; proprio a Samotracia cercò rifugio l’ultimo discendente di Alessandro Magno, Perseo re di Macedonia, che dopo essere stato sconfitto dai Romani, nel 168 a.C., pensò bene di trovare asilo presso il santuario dei Cabiri, ma fu arrestato e portato a Roma dove venne trascinato prigioniero nel trionfo del condottiero romano Emilio Paolo.

Le fortune del santuario dei Grandi Dèi proseguirono anche dopo, sino alla fine dell’epoca antica: il culto a Samotracia è documentato almeno sino all’epoca di Costantino (IV secolo d.C.). Ma un certo alone di mistero ancora si può percepire in questa selvaggia, isolata terra che svetta nel cielo con i fianchi del monte Fengari coperti di boschi.

Invito al viaggio

W. Burkert, Antichi culti misterici. Tr. it. Laterza, Roma-Bari 1989.

LEMNO, LA REPUBBLICA DELLE DONNE

Che cosa accadde quel giorno, lo racconta lui in persona, il dio Efesto, nel primo canto dell’Iliade. Fu scagliato giù dall’Olimpo e volò, volò nell’abisso del cielo, sinché cadde su un’isola fuori mano, Lemno, dove fu raccolto dalla gente primitiva che la abitava allora, i Sinti, i quali non parlavano neppure il greco. Cadendo si spezzò le gambe e rimase zoppo per sempre. Ma se le gambe gli cedevano, con le mani era capace di forgiare qualsiasi cosa, gioielli, armi, sculture: perciò divenne il fabbro degli dèi e il patrono di ogni arte manuale.

Sulle ragioni di questo volo involontario correvano diverse leggende. Omero diceva che a gettarlo giù dal cielo fu il suo padre divino, Zeus, infuriato con lui perché aveva cercato di difendere sua madre Era dalla rabbia dello sposo. Una lite di famiglia. L’altra raccontava che era stata proprio sua madre Era a gettarlo via: alla nascita, infatti, Efesto era bruttissimo, il più brutto dei bambini; perciò, per non vederselo più davanti, sua madre l’aveva afferrato per un piedino e l’aveva scagliato dall’Olimpo; Efesto cadde in mare e fu raccolto dall’oceanina Teti che lo allevò. In un caso o nell’altro, dunque, Efesto fu un bambino maltrattato dai suoi genitori. Ma quando divenne adulto tornò in mezzo agli dèi, e costruì le loro meravigliose dimore sull’Olimpo; anzi, come premio ebbe in sposa la stessa dea dell’amore, Afrodite.

Lo zoppo irsuto e sempre sudato nella sua fucina, e la più bella tra le dee: una coppia sbagliata. Infatti Afrodite lo tradiva con il gagliardo Ares, il dio della guerra. A Lemno Efesto aveva costruito la sua fucina e ogni giorno scendeva nella terra dei suoi amati Sinti a lavorare; quello era il momento in cui Ares andava di nascosto a trovare la sua amante, entrando nel letto ancora caldo del corpo dello sposo. Ma un giorno il Sole fece la spia e così il povero fabbro, scoppiando di rabbia, decise di vendicarsi; ma come fare? Ares era troppo più forte di lui. Però Efesto era più astuto di quel rivale atletico ma un po’ stupido. Costruì invisibili catene magiche sopra il letto coniugale, come un baldacchino; poi finse di andare a Lemno, invece si nascose nelle vicinanze. Ares, certo della sua partenza, si presentò alla casa di Afrodite e le disse: “Tuo marito è sceso a Lemno tra i Sinti che parlano un linguaggio incomprensibile; abbiamo tutto il giorno per noi”. Si distesero sul letto, nudi, ma in quel momento le catene invisibili caddero e li imprigionarono. Non c’era niente da fare: non si potevano sciogliere. Efesto arrivò infuriato con il martello in mano e gridando chiamò gli altri dèi ad assistere alla scena; e li lasciò lì, alla berlina, sinché alla fine li liberò, dopo averli svergognati.

Lemno era dunque l’isola di Efesto; quanto alla sua officina, le leggende la ponevano anche in altri luoghi, sotto l’Etna, nelle Eolie: dovunque vi fosse un vulcano attivo (Figura 2.5). Lemno si presta a essere immaginata come officina del fabbro divino, per le sue sorgenti termali. Nel Medioevo si importava di qui la preziosa “terra lemnia”, un tipo di creta che veniva usata per curare gli stati infiammatori e altre affezioni. È una terra appartata, in mezzo all’Egeo settentrionale, vicino alla costa della Tracia, in faccia ai Dardanelli; dalle sue vette si scorge il sacro promontorio del monte Athos. Al centro dell’isola si apre la grande baia di Moudros, che durante la Prima guerra mondiale formicolava di navi inglesi, pronte a bombardare gli stretti (Figura 2.6). Di qui alla fine del 1914 partì la spedizione contro i Dardanelli, che in pochi giorni avrebbe dovuto sbarcare un esercito a Costantinopoli e porre fine alla guerra in pochi giorni, ma si impantanò in sanguinosi combattimenti tra le trincee di Gallipoli, in un mare di sangue. Così gli alleati dovettero reimbarcarsi, anche se Moudros rimase la loro base sino al termine della guerra, e qui infatti fu firmata la resa dell’impero ottomano nel 1918.

Figura 2.5 Affresco pompeiano con Teti che riceve le armi per Achille da Efesto, Museo archeologico nazionale di Napoli.

Figura 2.5 Affresco pompeiano con Teti che riceve le armi per Achille da Efesto, Museo archeologico nazionale di Napoli.

Figura 2.6 Navi e un dirigibile britannico nella baia di Moudros, 1916.

Figura 2.6 Navi e un dirigibile britannico nella baia di Moudros, 1916.

Chi erano i Sinti che accolsero Efesto? Gente non greca, certamente: i Greci arrivarono poi, nell’età arcaica, alla fine del VI secolo a.C. Da dove venissero e che lingua parlassero i primi abitanti è un mistero; già gli antichi raccontavano di popolazioni originarie che chiamavano Pelasgi, i quali sarebbero stati i primi abitanti della terra di Grecia. Tucidide invece parla di Tirreni (vale a dire Etruschi). Qualcuno infatti li avvicina agli Etruschi: secondo un’antica tradizione, questi venivano dall’Oriente. Della lingua dei Sinti abbiamo alcune iscrizioni: la più importante, del VII secolo a.C., fu trovata nel borgo di Kaminia, incorporata nel muro di una chiesa. Vi è rozzamente incisa la testa di un uomo con lancia e scudo e intorno un’iscrizione in caratteri greci, con andamento bustrofedico (cioè da destra a sinistra e poi da sinistra a destra) che contiene certamente notizie sul morto, di cui è la stele tombale: da trentatré a quaranta parole ma per noi è assolutamente illeggibile perché proviene da un linguaggio sconosciuto (Figura 2.7). Il morto era uno dei Sinti “dal rozzo linguaggio”, come dice Omero.

Figura 2.7 Stele di Lemno, Museo archeologico di Atene.

Figura 2.7 Stele di Lemno, Museo archeologico di Atene.

Sappiamo che alcuni avventurieri ateniesi, alla fine del VI secolo a.C. si trasferirono in Tracia e strinsero alleanza con l’aristocrazia del luogo; uno di essi si chiamava Milziade e guidò l’esercito ateniese nella battaglia di Maratona contro i Persiani, nel 490 a.C. Un elmo di Milziade fu dedicato al tempio di Zeus a Olimpia e ora è visibile nel museo archeologico di quel sito (Figura 2.8). La moglie di Milziade apparteneva all’aristocrazia locale del Chersoneso tracico; fu probabilmente lei a portare in dote l’isola di Lemno a Milziade, o a favorire il suo insediamento.

Figura 2.8 Elmo di Milziade, Museo di Olimpia.

Figura 2.8 Elmo di Milziade, Museo di Olimpia.

Comunque fosse, Milziade promosse l’arrivo di coloni ateniesi, e quest’isola fuori mano, dove Efesto aveva costruito la sua officina appartata, entrò a far parte della sfera d’influenza ateniese. Lemno, infatti, anche nei miti appare una terra un po’ strana e in fondo greca a metà; una terra d’esilio, si direbbe, e di retrovia, in cui accadono cose insolite. La stessa impressione di lontananza rispetto al mondo abbagliante dell’Egeo la prova, in fondo, anche il visitatore moderno.

Ma Lemno conobbe le vicissitudini di un altro zoppo, dopo Efesto: si chiamava Filottete, ed era un eroe. All’epoca della guerra di Troia la flotta di Agamennone aveva fatto tappa a Tenedo. Qui, i guerrieri si radunarono attorno all’altare di Atena per compiere un sacrificio; improvvisamente, da sotto, sgusciò un serpente velenoso che morse la caviglia di uno di loro, Filottete. La piaga andò in cancrena; Filottete era tormentato da dolori lancinanti, e un puzzo orribile emanava dalla ferita. I suoi compagni erano spaventati: evidentemente, questo era un segno infausto. Filottete continuava a gridare giorno e notte, e l’olezzo della sua piaga impestava l’accampamento. Così, su consiglio di Ulisse, approfittando del fatto che il malato era caduto in coma, lo trasportarono a Lemno e lo lasciarono lì, insieme al suo arco (Figura 2.9).

Figura 2.9 Stámnos con Filottete, 460 a.C. ca, Musée du Louvre, Parigi.

Figura 2.9 Stámnos con Filottete, 460 a.C. ca, Musée du Louvre, Parigi.

Questo arco aveva una storia particolare: era nientemeno che l’arco di Eracle. Quando infatti Eracle, straziato dal dolore della veste avvelenata dal sangue del centauro Nesso, alzò una gran pira sul monte Eeta deciso ad ardersi vivo, nessuno aveva l’animo di accenderla. Solo Filottete, che allora era un giovane pastore, si dichiarò pronto a farlo. Eracle gli impose di non dire a nessuno il luogo dove era stata alzata la pira; in cambio gli regalò il suo arco. Filottete mantenne il giuramento di tacere, ma pressato dalle domande degli amici non riuscì più a conservare il suo segreto e impresse l’orma del suo piede sul luogo della pira, segnalandolo a tutti. Perciò, per contrappasso, fu morsicato a quel piede.

Filottete rimase a Lemno per dieci anni, con la sua piaga che non si rimarginava e il cuore roso dal suo infelice destino, e dall’ingratitudine degli amici, durante il periodo della guerra di Troia. In genere si dice che anch’egli, come un tempo Efesto, fosse curato dagli abitanti dell’isola. Ma quando Sofocle, nel 409 a.C., scrisse il suo Filottete, ebbe un’idea: immaginò che l’isola fosse deserta. In fondo, anche questo prova che all’epoca Lemno era considerata un posto fuori mano. Così Sofocle descrive il povero Filottete solo e stracciato sulla deserta isola di Lemno, dove sopravvive con i suoi mezzi come una sorta di Robinson Crusoe greco. Il destino, però, dopo tante sofferenze gli preparava un riscatto. Un oracolo decretò che solo chi avesse avuto l’arco di Eracle avrebbe potuto conquistare la città. Così Ulisse e Neottolemo andarono da lui a Lemno per chiedergli di tornare sotto le mura di Troia con l’esercito; Filottete odiava Ulisse, a cui attribuiva tutti i suoi mali. Ma Ulisse diede le sue scaltre istruzioni al giovane Neottolemo, figlio di Achille, il quale riuscì a raggirare Filottete e a farsi dare l’arco. Poi si pentì e volle restituirglielo: davanti a lui vedeva un uomo piegato dalla sofferenza e gli pareva infame tradirlo così. Quest’atto di generosità fece riacquistare a Filottete la fiducia nel genere umano; accettò di riunirsi all’esercito. A Troia, i medici riuscirono a guarire le sue ferite (gli dèi lo avevano già punito abbastanza) e con l’aiuto del suo infallibile arco infine Troia fu conquistata.

Per qualificare l’azione più infame che un essere umano possa commettere si usava la definizione “crimine lemnio”. Lemno era stata infatti sede di una tragedia collettiva, in epoca remota, che aveva dato origine a una comunità esclusivamente femminile. Tutti i maschi dell’isola, infatti, erano stati uccisi dalle donne.

Un giorno infatti Afrodite, sposa di Efesto, si era adirata con le donne di Lemno che non le rendevano onore perché si erano schierate dalla parte dello sposo Efesto molte volte tradito, il loro dio tutelare. Afrodite si vendicò nel modo più perfido: instillò in ognuna di loro un odore mefitico che disgustava i mariti. Perciò gli uomini di Lemno disertarono il letto nuziale, sostituendo le spose con giovani concubine fatte venire dalla vicina Tracia.

Le donne di Lemno non tollerarono l’offesa al loro onore e decisero di eliminare qualsiasi maschio vivesse sull’isola. Così fu fatto a tradimento: colti di sorpresa, gli uomini di Lemno non riuscirono a difendersi e morirono tutti. Da allora e per molto tempo l’isola rimase priva di maschi.

Solo Ipsipile, figlia del re dell’isola, Toante, non volle levare la mano sul padre e lo salvò nascondendolo in una cassa che poi spinse in mare; le onde la trasportarono sino all’isola di Sicino oppure a Chio, dove regnava suo fratello Enopione, e così Toante si salvò.

Una storia più pittoresca è raccontata dal poeta latino Valerio Flacco, nelle sue Argonautiche: nel giorno della strage, quando l’isola grondava del sangue degli uomini massacrati, Ipsipile gettò un velo sul capo del padre e lo condusse di nascosto al tempio di Dioniso. Il giorno seguente lo rivestì con i paramenti del dio, edera, tirso e pelli di cerbiatto, spalancò le porte del santuario e lo fece passare in processione per le strade, tra le danze e le musiche sfrenate del baccanale delle donne a cui quella figura parve l’apparizione miracolosa del dio, sinché il finto Dioniso uscì dalla città e trovò rifugio in una foresta, da dove poi fuggì sopra una zattera. Del resto Toante apparteneva a buon diritto alla sfera dionisiaca, in quanto figlio di Dioniso e Arianna.

Così Lemno rimaneva in mani femminili, e certo la vita si sarebbe estinta lì se un giorno la nave degli Argonauti non avesse gettato l’ancora nel suo porto (Figura 2.10). Le donne decisero che il loro esperimento matriarcale era giunto alla fine e aprirono i loro talami ai nuovi arrivati. Ipsipile, la regina, giacque con Giasone, il capo degli Argonauti, ma ogni donna trovò tra gli Argonauti un eroe a cui donare, per pochi giorni, il proprio amore. Gli Argonauti poi partirono per la loro avventura, alla conquista del vello d’oro, ma l’isola condannata alla sterilità cominciò un nuovo ciclo di generazioni. Per ricordare questo eccidio, sull’isola si celebrava un rito particolare, noto come “i fuochi di Lemno”: ogni anno tutti i fuochi sull’isola venivano spenti per nove giorni. Erano giorni di lutto. Mentre tutti erano al freddo e al buio, gli abitanti si nutrivano di cibi non cotti e una lugubre cappa di morte gravava su di loro; non si potevano avere rapporti sessuali e si facevano sacrifici alle anime dei morti. All’inizio di quel ciclo di giorni una nave sacra salpava verso Delo, patria di Apollo, per attingere da lì un nuovo fuoco. Se la nave tornava prima che fossero terminati i sacrifici ai morti, doveva incrociare in mare aperto sino alla fine del tempo rituale. Solo allora, con il fuoco di Delo, si riaccendevano quelli di Lemno. Era un rito di rinnovamento: estinguendo il vecchio fuoco e riaccendendone uno nuovo, gli abitanti di Lemno si purificavano espellendo le forze negative dell’anno vecchio. Ma questa cerimonia era considerata un rito espiatorio in relazione con il crimine ancestrale delle donne di Lemno.

Figura 2.10 Imbarco degli Argonauti (1583-1584), dal ciclo di affreschi con storie di Giasone e Medea dei Carracci, Palazzo Ghisilardi Fava, Bologna.

Figura 2.10 Imbarco degli Argonauti (1583-1584), dal ciclo di affreschi con storie di Giasone e Medea dei Carracci, Palazzo Ghisilardi Fava, Bologna.

Isola antica, con riti e personaggi strani e appartati. Ma l’antichità non è solo nei racconti. Arrivando nella baia di Vroskopo, presso Kaminia, proprio affacciata sulla spiaggia, sta una collinetta sulla quale gli archeologi della scuola archeologica italiana di Atene, guidati da Alessandro della Seta (e poi da Bernabò Brea) hanno scavato a partire dal 1930 uno dei più antichi insediamenti che conosciamo, più antico di Troia e dei palazzi cretesi. Qui, dal 3000 al 1500 a.C. sorgeva una città. Come si chiamasse naturalmente non lo sappiamo, era una città dei Pelasgi o dei Sinti, comunque di un popolo assai diverso rispetto a quello che diede vita alla civiltà cretese. Ora è nota come Poliochni. Molto prima che Troia fosse fondata, esisteva qui un villaggio con capanne ovali, ricostruito più volte: sette strati di capanne uno sopra l’altro. Poi il villaggio divenne una città difesa da una forte cinta di mura, con una larga strada centrale che univa due piazze, e isolati divisi tra loro da vicoli; poi furono costruiti edifici con una grande sala interna (come il mégaron descritto da Omero). Gli abitanti lavoravano il metallo e plasmavano belle ceramiche: tipica di questa città è una specie di fruttiera con il gambo alto, in ceramica nera. Sapevano modellare forme eleganti, che potrebbero essere ideate da un moderno designer: per esempio il porcellino dalla grossa pancia (che però, come il resto, si vede al Museo archeologico di Atene) (Figura 2.11) e oggetti in bronzo. All’epoca, Poliochni era più grande di Troia. Tra l’altro, è stata trovata una struttura a gradoni, adatta per accogliere il pubblico; forse era una specie di parlamento dove si riunivano i notabili (il cosiddetto bouleutérion), che quindi potrebbe essere il più antico parlamento del mondo. La città a un certo punto fu distrutta da un terremoto e poi ricostruita; ma tra le macerie è stato trovato un tesoro di gioielli e oggetti preziosi, secondo solo al tesoro di Priamo (anch’esso si trova a Atene). Allora Lemno era un luogo di passaggio tra i popoli dell’Egeo settentrionale; certamente gli abitanti di questa città avevano rapporti con le popolazioni dell’Anatolia, e con Troia, prima che questa diventasse una grande città. Ma quando Troia era al suo apogeo, la città di Poliochni era già decaduta. Ora si può fare il bagno nei pressi delle rovine (Figura 2.12).

Figura 2.11 Maialino in terracotta di Poliochni, 2500-2300 a.C., Museo archeologico di Atene.

Figura 2.11 Maialino in terracotta di Poliochni, 2500-2300 a.C., Museo archeologico di Atene.

Figura 2.12 Spiaggia di Zematas.

Figura 2.12 Spiaggia di Zematas.

Invito al viaggio

Apollonio Rodio, Argonautiche.

Omero, Iliade, canto I.

Omero, Odissea, canto VIII.

Sofocle, Filottete.

Valerio Flacco, Argonautiche.