Non riesco a capire la rissa dei venti.
Un’onda si gonfia di qui, l’altra di là:
nel mezzo noi siamo portati
con la nera nave
molto percossi dalla gran tempesta.
L’acqua giunge alla base dell’albero
la vela è tutta fradicia,
pende giù in grandi brandelli,
gli stralli sono allentati, il timone
[…]
restano salde le due scotte
assicurate bene alle funi.
Tutto il carico è andato perduto
(Alceo, fr. 208 Voigt, tr. it. G. Guidorizzi)
Mirina, regina delle Amazzoni, era partita con trentamila fanti e tremila cavalieri, con scudi fatti di pelle di serpenti giganteschi e poi spade, lance e archi. Aveva assoggettato le genti che vivevano sul monte Atlante, collocato vicino all’Etiopia, dove il mondo finisce e ha inizio la corrente di Oceano, un fiume che circonda tutto l’universo conosciuto dai Greci. Lì aveva passato gli uomini a fil di spada, fatto prigionieri donne e bambini, fronteggiato le temibili Gorgoni che solo Perseo avrebbe da ultimo sconfitto, nei giorni in cui questo popolo di donne sanguinarie e selvagge aveva come capo Medusa (Figura 4.1).
Figura 4.1 Interno di kýlix attica a figure rosse con Amazzone, 500 a.C. ca, Staatliche Antikensammlungen, Berlino.
Erano quelli i tempi in cui mito e leggenda si confondevano e non avresti saputo dire se avesse ragione chi faceva delle Gorgoni e, in particolare, di Medusa dei mostri dal capo irto di serpenti oppure, semplicemente, un esercito terrificante di donne fuori dagli schemi.
In ogni caso, solo Ercole, preso dall’istinto ingordo di civilizzare la terra, avrebbe alla fine annientato Gorgoni e Amazzoni in un sol colpo, quando se n’era andato a piantare le sue colonne a presidio dei confini del mondo conosciuto: non sia mai, racconta lo storico Diodoro Siculo a cui dobbiamo questa lunga narrazione, che possano sopravvivere piccole risacche di barbarie, in cui le donne comandino al posto degli uomini.
Mirina poi era si era spostata in Egitto, dove aveva stretto un trattato con Oro, figlio di Iside; aveva combattuto con gli Arabi, sottomesso la Siria. Attraverso la grande Frigia si era poi spinta fin sul mare e si era data alla fondazione di città che avrebbero portato tutte i nomi delle capitane del suo esercito.
E poi era giunta a Lesbo, che aveva conquistato in un battibaleno, dove aveva fondato la città di Mitilene, in onore di sua sorella, anche lei combattente valorosa.
Mitilene è un bel kastro sul mare con una grande spiaggia che guarda l’Anatolia, non la Grecia. Potrebbe essere l’emblema di quel che Lesbo è sempre stata: un’isola greca a tutti gli effetti, ma affacciata sull’Oriente. Una volta l’aveva governata un tiranno filosofo, saggio e giusto, Pittaco di Mitilene (640-570 a.C.), che veniva annoverato fra i sette sapienti; sua è una celebre massima scolpita presso l’oracolo di Delfi: “Riconosci il giusto momento” (Figura 4.2).
Figura 4.2 Statuetta in terracotta di filosofo identificato con Pittaco di Mitilene, I sec. a.C., Museo archeologico nazionale di Napoli.
Mitilene è un meticciato di tradizioni e di storia, ma di certo, nell’antichità del mito, quando le Amazzoni fondavano città, l’isola aveva Troia, all’orizzonte. Gli eroi achei si erano persino fermati a Lesbo, nel loro viaggio dal golfo a mezzaluna dell’Aulide fino alle terre di Priamo: avevano devastato villaggi, ammazzato abitanti e portato via le ragazze come preda di guerra. Del resto, le fanciulle di Lesbo avevano la fama di essere bellissime e la loro compagnia assai ricercata: Achille si era scelto la più incantevole, Briseide, anche se poi aveva dovuto cederla a Agamennone (Figura 4.3).
Figura 4.3 Affresco con Achille costretto a cedere Briseide a Agamennone, Museo archeologico nazionale di Napoli.
Toccherà aspettare la guerra contro i Persiani per vedere finalmente l’isola volgersi verso Occidente e dichiararsi greca a tutti gli effetti. E, del resto, Lesbo non aveva mai avuto alcun bisogno di andare in cerca di un’identità precisa, di stringersi idealmente alla terraferma per trovare il suo centro.
Bastavano la sua posizione strategica di terra di mezzo fra un mondo e l’altro, la sua inclinazione all’accoglienza. Agamennone e Menelao per esempio si erano ritrovati un giorno proprio a Lesbo, per sacrificare a Era, dopo aver perduto la rotta verso casa, e la dea li aveva soccorsi spingendo forte il vento nelle vele e consentendo loro di allontanarsi definitivamente da quella città in fiamme, Troia, che avevano sì conquistato, ma in cui avevano perso dieci anni di vita e molti compagni.
Ancor oggi, sul lato nordoccidentale dell’incantevole golfo di Kalloni sorgono le rovine di quello che pare sia stato un tempio dedicato proprio a Era (a Mesa o Messon): a Lesbo la si venerava come una grande signora, accanto a Zeus e, forse, a Dioniso, ma era a lei soprattutto che ci si rivolgeva perché i marinai navigassero senza pericoli e le persone amate facessero ritorno.
Tutto questo ce lo racconta Saffo di Lesbo nei suoi frammenti, la poetessa più grande di ogni tempo, la Decima Musa, come pare la chiamasse Platone. Che stagione straordinaria sarà stata quella fra il VII e il VI secolo a.C., periodo in cui, fra una lotta intestina e un’altra, si potevano incontrare per strada, a Mitilene o in un’altra città dell’isola, Saffo e il suo contemporaneo Alceo o Pittaco il Sapiente.
Di certo i due poeti si conoscevano: Alceo parla di Saffo elogiando la sua chioma di viola e la dolcezza del suo sorriso (fr. 384 Voigt); c’è chi ha pensato che si ritrovassero anche in occasione delle celebrazioni religiose che, probabilmente, avevano luogo in quel santuario “di mezzo”, questo è il significato di Mesa o Messon, vicino al golfo di Kalloni (Saffo fr. 17 Voigt; Alceo fr. 129 Voigt) (Figura 4.4).
Saffo sembra fosse nata a Ereso, sul lato opposto dell’isola rispetto a Mitilene e possiamo immaginare che il tempio di cui ancora restano le rovine fosse un luogo di ritrovo per tutti gli abitanti dell’isola, proprio per la sua posizione centrale.
E forse la poetessa in compagnia di Alceo si sarà anche incamminata per i sentieri impervi che conducono alla cima del monte Lepetimno, a nord dell’isola, che con la sua cima più alta, Profitis Ilias (quasi mille metri), è il punto più elevato dell’isola. Sul monte sorgeva un santuario dedicato a Apollo e sulle sue balze sembra che Achille e Aiace avessero un giorno sepolto Palamede, l’eroe che aveva smascherato la falsa pazzia di Ulisse e aveva inventato l’alfabeto. Ulisse si era vendicato di lui accusandolo di tradimento, nei giorni concitati che precedono la presa di Troia, e così un eroe gentile e bello, mite e intelligente era stato lapidato dall’esercito acheo e poi sepolto sulle balze montuose della vicina Lesbo.
C’era stato un giorno antico, a Lesbo, in cui gli abitanti dell’isola avevano assistito a un evento straordinario: quando così, senza parere, in un momento privo di particolare significato, la risacca aveva portato a riva una testa umana. Non proprio umana, a dire il vero, perché, pur avendo le sembianze di un uomo, la testa era ben più grande del normale. Era bastata una piccola verifica dei fatti, per scoprire che quel volto decollato altri non era che il mitico poeta Orfeo (Figura 4.5). Accanto a lui si era anche spiaggiata una lira e le due cose – strumento musicale e dimensioni straordinarie dei resti – avevano permesso di identificarne lo sfortunato possessore.
Figura 4.5 Gustave Moreau, Jeune fille thrace portant la tête d´Orphée (1865), Musée d’Orsay, Parigi.
Sembra che la testa avesse viaggiato parecchio, seguendo una rotta tutta sua; veniva dalla lontana Tracia: la terra in cui un giorno le donne del luogo, stanche per i continui sospiri di Orfeo che piangeva la perdita, senza rimedio, della sua Euridice, l’avevano letteralmente fatto a pezzi, spedendo la testa in mare e lasciandola in balia delle onde.
Così, fra tutti i posti in cui poteva arenarsi, la testa prodigiosa aveva scelto proprio Lesbo e non a caso: i locali l’avevano sistemata in una grotta vicino a Antissa, denominata Orphykia, nel segmento nordoccidentale dell’isola e lì avevano preso a venerarla come si trattasse di un oracolo. Pare che Orfeo, a quel punto, ridotto a semplice testa, avesse per un po’ continuato a comporre versi, contagiando la zona con l’incanto della sua poesia tanto che si diceva che gli usignoli del posto cantassero con una voce straordinariamente dolce. A un certo punto, però, la testa si era stufata di poetare e si era data al mestiere dell’oracolo: venivano da tutta la Grecia per consultarla, fino all’epoca storica, ed era stata proprio lei a rivelare che Troia non poteva essere vinta senza le armi di Filottete.
Poi si era zittita e, alla fine, era letteralmente sparita: ancora i poeti e gli scrittori ne vanno in cerca in quel villaggio lontano da tutto che corrisponde alla odierna Antissa, ma Orfeo se n’è andato e non ha fatto più ritorno.
Pare che la sua lira spiaggiata fosse stata raccolta da un’al-tra gloria locale, il poeta Terpandro di Antissa, a cui dobbiamo l’aggiunta di qualche corda allo strumento originale di Orfeo che era passato quindi da tre a sette corde. Anche Terpandro doveva essere un tipo originale: era fuggito da Lesbo, sembra perché si era reso colpevole di un omicidio e, dopo aver viaggiato in lungo e in largo per la Grecia, mietendo successi di pubblico in ogni dove, si era strozzato con un fico ed era morto così, un po’ ingloriosamente.
Grande viaggiatore e poeta era anche Arione di Metimna, un’altra cittadina di Lesbo posta sul lato settentrionale dell’isola: leggendario, al pari di Terpandro e, come lui, malato di esterofilia, si lega alla corte di Periandro, signore di Corinto. Di ritorno da una tournée a Taranto, prende un passaggio da una nave corinzia che si rivela governata da una ciurma di malintenzionati, sostanzialmente pirati. Questi, vedendo la ricchezza dell’abbigliamento di Arione e del suo bagaglio, decidono di derubarlo e gettarlo a mare, ma il poeta, vista la malparata, chiede di poter cantare un’ultima volta sul ponte della nave. I delfini, richiamati dal dolce suono della poesia, lo stanno ad ascoltare estasiati fino al momento in cui i marinai corinzi gettano il povero Arione a mare. Un delfino a quel punto recupera il suo corpo prima dell’annegamento e lo porta al sicuro a Corinto: Arione si salverà, il delfino purtroppo non sopravvivrà alla fatica e allo spiaggiamento (Figura 4.6).
Nel 344 a.C., il filosofo Aristotele sbarca a Mitilene per fondarvi una scuola filosofica, su invito del suo allievo, Teofrasto, che era nato a Ereso, come Saffo. Rimarrà a Lesbo solo un paio d’anni perché, nel 342, Filippo II di Macedonia lo chiamerà alla corte di Pella perché diventi il precettore di Alessandro Magno. In quel poco tempo passato a Lesbo, non potrà fare a meno di annotare i boschi di cipressi, gli olivi, ma soprattutto la ricchezza della fauna. A Lesbo del resto ci si recava, già nell’antichità, per cacciare le lepri e andare in cerca di specie preistoriche come la salamandra gigante.
Ancor oggi, le miniere di sale, a Kalloni, sono il rifugio degli aironi; le foche abitano le grotte intorno a Skala Eressou, una delle spiagge più belle dell’isola a pochi chilometri dal villaggio che ha dato i natali a Saffo. Il monastero di Limonas, sopra il golfo di Kalloni, è un’oasi per uccelli selvatici.
Lesbo è un’isola vulcanica, puntuta di montagne, e molte località famose nell’antichità sono state erose dal mare, come Pirra: un piccolo villaggio di pescatori nel golfo di Kalloni, in cui sembra che Alceo avesse passato un periodo in esilio, per allontanarsi dal clima di scontri di Mitilene.
Un po’ rifugio, un po’ esilio, Lesbo lo è stata sempre: dopo Aristotele era sbarcato san Paolo, in uno dei suoi viaggi, diretto verso la Terra Santa e aveva sconfitto, pare, un enorme serpente dragone che infestava la zona intorno all’antico santuario di Era, a Mesa. Poi erano arrivati uomini politici da Roma, come Pompeo che aveva portato a Lesbo la famiglia e lì si era rifugiato per un po’ dopo la sconfitta di Farsalo. Augusto, nella stagione in cui inaugura la sua politica dell’esilio e inizia a spedire le donne della sua famiglia al confino su un’isola, i poeti più o meno dissidenti, come Ovidio, sulle rive di mari lontani, sceglierà Lesbo come uno dei luoghi d’elezione, per liberarsi delle figure scomode che gli ruotavano intorno. Toccherà all’imperatore Tiberio, che pure nel 26 d.C. si era ritirato su un’isola, a Capri, realizzare come l’esilio nella terra di Saffo non potesse certo definirsi la peggiore delle condanne, così l’imperatore aveva costretto un malcapitato a cui era stato comminato il confino a Lesbo a far ritorno a Roma per sottoporsi, di nuovo, al giudizio di un tribunale.
Del resto, Lesbo non era soltanto la pesca nel golfo di Kalloni o la caccia delle lepri nelle foreste di pini e abeti, ma anche una terra disseminata di stazioni termali, alcune delle quali sono in funzione ancor oggi, come quella di Thermi, collocata a nord, sulla costa, a undici chilometri da Mitilene.
Forse proprio per questa sua natura strana: prigione, esilio, rifugio, ultimo approdo, Lesbo è rimasta anche un luogo in cui ci si perde, una stazione di posta talvolta definitiva. Nei secoli, e sono stati molti, di dominio di Bisanzio (solo nel 1355 l’isola passa sotto il controllo della famiglia genovese dei Gattilusi), diventa, persino, l’isola in cui termina i suoi giorni Irene, l’unica imperatrice dell’impero bizantino: la donna che aveva ripristinato il culto delle immagini e regnato a lungo con il figlio Costantino VI, non senza incomprensioni. Il 15 agosto del 797, dopo una serie di tentativi vani di uccidere Costantino o renderlo inoffensivo, Irene dà mandato ai congiurati che militavano sul suo fronte di detronizzare il figlio e di accecarlo, così da rendergli impossibile riconquistare il favore popolare nella guerra contro gli Arabi. Costantino muore subito dopo per le ferite traumatiche riportate, mentre il sole si oscura per diciassette giorni, di fronte al carattere inaudito del gesto materno.
Papa Leone III cercherà di disinnescare il pericolo rappresentato da questa donna al potere, incoronando Carlo Magno imperatore, nella famosa notte di Natale dell’800, ma non basterà: svanita un’ipotesi di matrimonio fra Carlo e Irene, sarà necessario esiliarla a Lesbo nell’802. L’imperatrice morirà lì nell’agosto dell’803, ridotta negli ultimi tempi a filare la lana come l’ultima delle sue ancelle, per sopravvivere.
Nel 1462 Lesbo viene conquistata dagli Ottomani, grazie anche al contributo determinante di Yacup Aga, un cavaliere ottomano di origini albanesi, che otterrà come feudo un piccolo villaggio sull’isola, come ricompensa del suo valore di soldato. Nel 1474, dall’unione del cavaliere ottomano e di una ragazza di Mitilene, Katharina, nasce sull’isola il leggendario Aruj (Reis) Barbarossa, corsaro, ammiraglio e governatore d’Algeri.
Solo nel 1912, Lesbo finalmente tornerà greca, conquistandosi l’agognata indipendenza dai Turchi.
A Thermi si andava sin dai tempi dei Romani per curare corpo e anima dalle fatiche del viaggio e del potere, grazie alle virtù terapeutiche delle sue acque calde; poco più in là, in corrispondenza del villaggio di Moria, le rovine di un antico acquedotto romano ricordano alla contemporaneità con quale piacere si arrivasse dall’Urbe per godere del dolce clima di Lesbo, del suo mare, dei suoi boschi millenari e delle sue terme.
È proprio in quel punto esatto della costa che guarda all’Anatolia, alla Turchia, che finisce la civiltà e si spalanca l’orrore: è quello in cui sorge la baraccopoli fortino di Moira, dove si affollano, dal 2015, come animali, migliaia di migranti disperati e senza speranza, vittime del fallimento della politica europea sulla gestione dei rifugiati. La cronaca non aggiorna più il numero delle vittime di questo assieparsi infernale, fra incendi, abusi, assalti e mancanza di igiene.
Così, nonostante l’ospitalità degli abitanti e la bellezza del suo territorio, Lesbo è, ora, anche un’isola prigione, in cui è difficile ritrovare nei vicoli di Mitilene l’eco della poesia di Saffo e di Alceo oppure la voce di Arione che incantava i delfini.
Ci vorrebbe forse la testa di Orfeo e un nuovo oracolo per suggerire la rotta.
Diodoro Siculo, Biblioteca storica, III, 52-55.
Longo Sofista, Dafni e Cloe.
Saffo e Alceo, frammenti.
Charles Baudelaire, Lesbos.
Hilda Doolittle (H.D.), The Wise Sappho, 1916-1918.
Sylvia Plath, Lesbos.
“E poiché sono trasportato da questo mare grande e ho offerto le vele ai venti perché le gonfiassero: non c’è nulla che resista, in tutto il mondo”: sono forse le parole più belle pronunciate da Pitagora (Figura 4.7) in quella cosmogonia grandiosa e fluida con cui Ovidio prende congedo dalle sue Metamorfosi (XV, vv. 176-177). Tutto l’universo, come noi lo conosciamo, è destinato a sfarinarsi, al passare del tempo. Niente di quel che amiamo o detestiamo rimane lo stesso e basta un attimo di forte vento per ritrovarsi su rotte sconosciute. Neppure la morte può considerarsi l’approdo definitivo della vita umana perché, quando smettiamo di esistere in una forma, prendiamo a vivere sotto nuove sembianze; questo continuo fluire ha un nome – metempsicosi – che traduce il moto di migrazione di un’anima da un corpo all’altro, simile a quello degli astri. Pitagora enunciava questa sua teoria con lo sguardo rivolto all’insù, verso la Via Lattea, puntinata di luci, a cui credeva ritornassero le anime dei trapassati, pronte a una nuova discesa dalle stelle e a un nuovo viaggio.
Figura 4.7 Raffaello Sanzio, Pitagora, particolare della Scuola di Atene, 1510-1511, Stanza della Segnatura, Musei Vaticani.
Un circolo perenne, senza respiro, che il filosofo e matematico aveva percorso, sembra, non una ma venti volte: era stato Etalide, figlio del dio Ermes, e dal padre aveva ricevuto in dono la capacità di ricordarsi delle vite precedenti; aveva combattuto a Troia, nelle vesti di Euforbo, ed era stato poi ucciso da Menelao (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VIII, 4). Di queste esistenze passate portava una memoria cristallina e così, quando si era alla fine reincarnato a Samo, nella prima parte del VI secolo a.C., non si può dire che l’avesse fatto per caso.
Dall’isola che l’aveva visto nascere se n’era poi andato con destinazione l’Egitto, dove aveva in mente di imparare dai sacerdoti i segreti della sapienza arcana di cui erano depositari. Sembra ci fosse approdato con un salvacondotto stilato dal tiranno Policrate, la cui ascesa politica va collocata intorno al 535 a.C. Il filosofo e il signore di Samo erano probabilmente amici e, del resto, la figura di Pitagora, il suo genio e la grande cultura corrispondevano bene all’ideale di governo di Policrate che immaginava per la sua isola un vero e proprio Rinascimento.
Poi gli equilibri fra Policrate e l’Egitto erano mutati e Pitagora si ritrova prigioniero a Babilonia; tornerà a Samo solo il tempo di partirsene per il Sud Italia, in particolare Crotone, dove fonderà la sua scuola filosofica, cercando, senza successo, di rimanere estraneo alla vita politica; a Samo non farà mai più ritorno.
Tutta l’isola porta memoria di questo geniale filosofo, inventore di teoremi, cosmologie e teorie sul fluire del tempo, ben più di quanto sia accaduto al suo conterraneo Epicuro, nato a Samo nel IV secolo a.C. e fondatore, a sua volta, di una celebre corrente filosofica, quella dell’epicureismo.
Nel 1955, la palma della vittoria per la celebrità locale è stata vinta da Pitagora, quando un bel villaggio turistico nella zona sudorientale dell’isola ha preso il suo nome, Pythagoreio: una meta indispensabile quando si soggiorna a Samo, non solo per il legame con il filosofo, a cui è stata dedicata una statua commemorativa all’ingresso del porto, ma perché l’odierno abitato, e in particolare il molo, sorgono sulla città antica voluta da Policrate.
Dalla cima del castello dei Logoteti, nel centro della cittadina, le coste della Turchia sembrano davvero a un passo, con capo Micale, lì dove si è consumata, nel 479 a.C., la sconfitta definitiva dell’impero persiano, forse nello stesso giorno della battaglia di Platea. Allora i Persiani controllavano Samo e lì tenevano quel che restava della loro flotta. Quando i Greci decidono di sferrare l’ultima offensiva, il comandante dell’impero che era stato di Dario e, poi, di Serse muove verso la costa turca, con il proposito, disperato, di nascondere le ultime navi dall’assalto nemico. Non servirà e Micale non sarà neppure lo scenario di una vera e propria battaglia, ma di una semplice resa.
Si dice che negli anni in cui Policrate intratteneva ottimi rapporti con l’Egitto, il faraone Amasi, preoccupato per la troppa fortuna dell’alleato, gli avesse suggerito di liberarsi della cosa più preziosa in suo possesso, per tentare di compensare l’eccesso di buona sorte che aveva portato, in pochi anni, Policrate alla guida di un piccolo impero marittimo. Giudicando che il faraone lo avesse ben consigliato, il tiranno di Samo prende il largo su una nave, in una mattinata di sole e, sotto lo sguardo dei suoi marinai, getta in mare un prezioso anello d’oro con sigillo, un castone di smeraldo, che portava sempre al dito.
Rinfrancato dal dolore provato per una perdita ai suoi occhi assai significativa, se ne torna a palazzo, sicuro che, da quel momento in poi, la vita sarebbe stata un equilibrio perfetto di ascese e di cadute: l’unico modo, per gli antichi, di essere davvero felici, ottemperando a quella regola della “via di mezzo” che, sola, poteva preservare la vita dei mortali dall’invidia degli dèi per la loro buona sorte, lo phthónos tòn theón.
Qualche giorno dopo, un pescatore di Samo si ritrova nelle reti un pesce grande e decide di portarlo alla corte del suo signore, per fargliene omaggio. Policrate, compiaciuto per questo gesto di devozione, accoglie benevolo il pescatore, accetta il dono e lo invita anche a pranzo. Il pesce viene portato nelle cucine e affidato ai servi che, aprendone la pancia, trovano l’anello con il castone di smeraldo.
È lo storico Erodoto a raccontarci questa novella, concludendo come, a quel punto, Amasi, appresa la notizia, avesse deciso di rompere il patto di alleanza con Samo, presagendo le grandi sciagure che sarebbero derivate dall’amicizia con un uomo all’apparenza fortunato, ma in realtà incamminato verso la rovina.
Tutte le Storie di Erodoto si snodano come se cercassero la sintonia con un metronomo silenzioso che distingue quel che è bene da quel che è male, la vita felice da quella sventurata. Si tratta, però, sempre di un gioco fino di equilibri, un galleggiamento virtuoso fra il troppo e il poco, la ricchezza e la povertà. Poi, c’è un punto in cui l’equilibrio si rompe e si intuisce subito, come nel caso di Policrate, quale sarà il prosieguo della storia.
E dire che il tiranno si era comportato come un sovrano illuminato per gli abitanti di Samo, costruendo un porto (dove ora sorge Pythagoreio) ed escogitando con i suoi architetti un geniale sistema di approvvigionamento idrico che consentisse all’isola di sopravvivere anche in caso di attacco nemico: un tunnel che percorreva l’isola da parte a parte, con due bocche, elemento questo straordinario per l’epoca, costruito sulla base di calcoli geometrici accuratissimi. Forava il territorio da nord a sud, mettendo in collegamento le acque della sorgente Agiade con il sistema idrico della città di Samo.
È ancora possibile, partendo da Pythagoreio, visitare questo lungo tunnel, battezzato con il nome del suo costruttore, Eupalino di Megara, e terminato nel 524, solo pochi anni prima della definitiva caduta di Policrate (Figura 4.8).
Eppure non era bastato: l’ascesa troppo veloce, l’eccessiva disinvoltura nella gestione delle proprie alleanze politiche, con frequenti cambi di casacca, il ricorso alla pirateria fanno sì che nel 522 il tiranno venga attirato con l’inganno alla corte persiana dal satrapo Orete, di cui era formalmente alleato, lì torturato e poi crocifisso.
In realtà la celebre “favola” dell’anello, di cui ci parla Erodoto, non è solo una parabola di quanto la fortuna mortale possa rivelarsi effimera. Quel che Policrate chiede al mare e agli dèi che lo governano è qualcosa di più sottile e complesso e ha a che fare con la definizione della sua regalità.
Non a caso, il sovrano sceglie un oggetto che non è semplicemente prezioso, ma rappresenta il suo potere: l’anello con sigillo che fino a un attimo prima portava infilato al dito.
Un’avventura simile capita anche a un altro signore dei mari, Minosse, nei giorni in cui l’eroe Teseo stava arrivando a Creta con la sua compagnia di ragazze e ragazzi ateniesi, per andare incontro al suo destino, nel centro del labirinto.
A un passo dal porto di Cnosso, Minosse fronteggia con la sua nave l’imbarcazione di Teseo che si sta dirigendo spedita verso le coste dell’isola. È questione di un attimo, pieno di colori e di luce: Minosse chiede al padre, Zeus, di dar prova della sua ascendenza divina, di testimoniare la sua regalità; si sfila dal dito l’anello con sigillo e lo getta in mare, spingendo il principe ateniese a tuffarsi fra le onde, per dimostrare così di essere a sua volta figlio di un dio, Poseidone.
È lo scontro fra un sovrano, Minosse, che governa da molti anni un grande impero, e un giovane eroe che sarà presto re, al suo ritorno a Atene; e questa partita si gioca proprio a iniziare da quell’anello d’oro che carambola in mare. Teseo si tufferà e riemergerà sulla superficie dell’onda completamente asciutto. Con sé non avrà il sigillo di Minosse, ma un mantello purpureo e una corona, altri chiari simboli di regalità e questo dettaglio in verità poco importa, perché non sono gli oggetti i protagonisti della storia, ma la posta in palio: il trono.
Il mare è l’universo liquido in cui due mondi – quello umano e quello divino – entrano in contatto. Sta al mondo altro, quello degli dèi, decidere se un dono può essere accettato e, quindi, stabilire se un sovrano sia meritevole di continuare a regnare. Nel caso di Policrate, il messaggio è chiaro: le divinità delle onde rispediscono al mittente il regalo prezioso. Il tiranno non ha il loro favore.
Policrate, poi, non è il solo ad aver tentato quest’espediente: rivolgersi al mare, all’acqua, per trovare la conferma del proprio diritto a regnare, a vincere. Molti anni dopo, lo stesso espediente sarebbe stato tentato da Serse, in procinto di passare l’Ellesponto e dar così inizio alla seconda fase della guerra contro la Grecia, che si sarebbe rivelata da ultimo un limite invalicabile per l’espansionismo persiano.
Il Gran Re aveva costruito un ponte di barche attraverso lo stretto dei Dardanelli, così da rendere possibile il trasferimento del suo esercito. La ragione di una decisione tattica così complessa e dispendiosa non è del tutto chiara; potrebbe essere stata dettata dal desiderio di mostrare al mondo la potenza persiana, con un ingresso scenografico e grandioso in Grecia. In ogni caso, il primo “ponte” va in frantumi immediatamente, anche a causa dei forti venti che imperversavano su quel braccio di mare. L’ira del sovrano è incontenibile: i responsabili del progetto e della sua realizzazione vengono decapitati e il mare stesso viene sottoposto a una punizione “corporale”, frustato trecento volte dai soldati di Serse.
Un secondo tentativo andrà a buon fine e così l’immenso esercito persiano potrà sfilare per sette giorni e sette notti in una processione scenografica da una costa all’altra dello stretto. Prodigi tremendi accompagnano il passaggio: un’eclissi, una cavalla che partorisce una lepre e altri eventi mirabili.
Per placare l’ira dell’Ellesponto, sottoposto a un’inaccettabile punizione, pare che Serse in persona, al levar del sole, avesse versato libagioni in mare da una coppa d’oro, pregando, rivolto verso il globo solare, di poter prevalere sui Greci. Terminata la supplica, aveva gettato in mare la coppa, un cratere aureo e una spada di foggia persiana. È ancora Erodoto, nel settimo libro delle sue Storie, a interpretare l’azione come un tentativo di riconquistare il favore delle potenze acquoree che Serse aveva così pesantemente offeso.
Così era, di certo, ma questo gesto va anche inteso come una vera e propria ordalia: il tentativo cioè di rendere visibile ciò che deve restare nascosto, il legame tra la figura del re e il dio, tra il potere temporale e il potere religioso. Lo storico greco e cittadino romano del II secolo d.C., Arriano (VI, 19, 5), nella sua Anabasi di Alessandro, ci racconta che anche Alessandro Magno, giunto alla foce dell’Indo, si era rivolto al mare e ne aveva chiesto la protezione, immolando delle vittime e gettando in acqua la coppa d’oro con cui aveva fatto le libagioni e diversi crateri d’oro.
Alessandro e la sua campagna vittoriosa nell’orizzonte sterminato e sconosciuto che era stato il regno di Serse rappresentano la nemesi perfetta dei giorni in cui il Gran Re aveva oltraggiosamente offeso i confini liquidi che dividevano il suo mondo dall’Europa. Serse tornerà in patria, dopo la rovinosa sconfitta del 480 a Salamina, ma nella ritirata troverà il suo ponte di barche distrutto: l’Ellesponto non lo aveva perdonato.
Il grandioso piano urbanistico inaugurato da Policrate comprendeva anche un tempio dedicato a Era costruito sulla riva del mare, nella parte meridionale dell’isola, in un’area che fin dall’età del bronzo e per tutto l’impero romano aveva accolto ininterrottamente i fedeli della dea.
Eretto in sostituzione di un edificio più antico, già colossale, allungato su una grande piattaforma a un passo dall’acqua, il tempio policrateo era due volte più grande del Partenone. Ora ci resta una sola colonna, gigantesca, sbiancata e bellissima, a monito di quel che doveva essere il santuario nel VI secolo a.C. (Figura 4.9). Situato su una rotta marittima molto frequentata, l’Heraion di Samo aveva una frequentazione internazionale e un afflusso di doni molto significativo: avori egizi, bronzi fenici e babilonesi, scarabei e molti gioielli d’oro.
Il culto di Era a Samo era, del resto, antichissimo: proveniva forse da Argo, che a tutti gli effetti fin dall’Iliade è la città elettiva della dea, ma poi da Samo si era ramificato tanto che quando, nel VI secolo, coloni provenienti dall’isola fondano in Egitto l’emporio commerciale di Naucrati, dedicano anche un santuario a Era, per ricordare la loro origine.
A Samo pare che la dea fosse pure nata e avesse da ultimo sposato Zeus, presso le correnti dell’Imbraso, in cui la divinità si era bagnata, prima delle nozze. Il fiume, ridotto ora a poco più di un fiumiciattolo, sfociava nell’antichità proprio nel punto in cui era stato costruito, già in epoca geometrica, un tempio che conservava un’immagine primitiva della divinità. Il suo corso era stato poi deviato per permettere la costruzione del grande tempio sulla spianata in riva al mare che aveva preceduto quello policrateo.
A vederlo oggi non parrebbe possibile immaginare che Era e Zeus si fossero amati segretamente, passeggiando lungo le sue rive, per circa cento anni. Quando, finalmente, la dea si era concessa in sposa al signore degli dèi, si era immersa nell’Imbraco per presentarsi a lui ancora parthénos, “vergine”.
Per questa ragione, pare che in origine il fiume si chiamasse proprio Parthenos, e Parthenia l’isola intera, a ricordo di quel processo miracoloso, attraverso cui il corpo immortale aveva ritrovato la sua purezza e la sua inviolabilità.
Non sappiamo poi molto delle fasi di corteggiamento della coppia divina per eccellenza; di certo Era non si era concessa con facilità. Pausania racconta che a un certo punto Era si fosse ritirata in Eubea, adirata con Zeus per qualche motivo. Il figlio di Crono si era allora rivolto a Citerone, il saggio re di Platea, e gli aveva chiesto consiglio: questi gli aveva suggerito di percorrere le vie della città in processione su un carro accompagnato da una statua di legno avvolta in bellissimi abiti nuziali. Avrebbe dovuto dichiarare a tutti che andava a sposarsi con Platea, figlia di Asopo.
Così aveva fatto ma, proprio mentre sfilava il corteo matrimoniale, Era si era presentata furiosa davanti al carro e aveva strappato gli abiti di quella che credeva una rivale. Quando la presunta sposa si era rivelata solo una statua di legno, la dea era scoppiata a ridere e si era riconciliata con Zeus.
Forse, a ben pensarci, Era non aveva tutti i torti a voler posticipare il matrimonio: qualcosa, nel suo cuore di dea, l’avrà fatta esitare. Una volta diventato il suo sposo, infatti, Zeus smette i panni del corteggiatore devoto e si trasforma in un seduttore impenitente. Fra le sue bravate più note c’è la seduzione della bellissima Iò, figlia di un fiume, l’Inaco, e sacerdotessa di Era, a Argo. Zeus se ne innamora e intrattiene con lei una relazione segreta fino al giorno in cui viene scoperto dalla sposa. Lei, in tutta risposta, trasforma Iò in una giovenca e le mette a guardia Argo, il cane dai cento occhi. Solo il potere incantatorio di Ermes e della musica suonata per blandire il mostro permetterà a Zeus di liberare Iò, uccidendo Argo.
Si racconta che Era avesse capito perfettamente le intenzioni dello sposo e così, nottetempo, aveva preso a uno a uno i cento occhi di Argo, per depositarli sulla coda del pavone, salvandoli dalla furia di Zeus. Il pavone è, del resto, uno degli attributi di Era: due pavoni guidano il carro della dea e sembra che proprio a Samo, per la prima volta, questa creatura magnifica sia diventata l’emblema della dea dell’isola (Figura 4.10). Era originaria dell’India e aveva molto vagato per tutto l’Oriente, fino ad arrivare a Samo, nel tempio della signora degli dèi. L’apertura ipnotica della sua coda rappresentava bene il destino da sposa di Zeus: magnifica ma sempre in allerta, con gli occhi spalancati, alla ricerca di una prova dell’ennesimo tradimento del marito.
Policrate dunque aveva ben compreso quanto fosse importante ingraziarsi una divinità così potente: colei che aveva protetto la spedizione achea a Troia e che sorvegliava il buon esito delle spedizioni marittime commerciali. Non era bastato: dal momento in cui il mare, beffardo, aveva restituito l’anello nella pancia di un pesce, ogni tentativo di concludere felicemente una vita fortunata si era rivelato inutile. Non è cosa da poco assecondare il volere degli dèi.
Resta ancora da scoprire in quale corpo abbia deciso di reincarnarsi l’anima di Pitagora; dopo Crotone ne abbiamo perso le tracce, ma, a giudicare dalla bellezza della sua isola, potrebbe essere tornato a casa.
Bacchilide, Ditirambo XVII.
Erodoto, Storie, III, 40-43; VII, 53-58.
Pausania, Descrizione della Grecia, IX, 3, 1-8.
L. Gernet, L’antropologia della Grecia antica. Tr. it. Mondadori, Milano 1983.
V. Pirenne-Delforge, G. Pironti, L’Héra de Zeus. Ennemie intime, épouse définitive. Les Belles Lettres, Paris 2016.