Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze.
I Lestrigoni e i Ciclopi
o la furia di Nettuno non temere,
non sarà questo il genere di incontri
se il pensiero resta alto e un sentimento
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo,
né nell’irato Nettuno incapperai
se non li porti dentro
se l’anima non te li mette contro.
Devi augurarti che la strada sia lunga.
Che i mattini d’estate siano tanti
quando nei porti – finalmente, e con che gioia –
toccherai terra tu per la prima volta:
negli empori fenici indugia e acquista
madreperle coralli ebano e ambre
tutta merce fina, anche profumi
penetranti d’ogni sorta, più profumi
inebrianti che puoi,
va in molte città egizie
impara una quantità di cose dai dotti.
Sempre devi avere in mente Itaca –
raggiungerla sia il pensiero costante.
Soprattutto, non affrettare il viaggio;
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio
metta piede sull’isola, tu, ricco
dei tesori accumulati per strada
senza aspettarti ricchezze da Itaca.
Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
in viaggio: che cos’altro ti aspetti?
E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.
(Constantinos Kavafis, Itaca, tr. it. M. Dalmati e N. Risi)
“Venite a queste sabbie che son d’oro / e prendetevi per mano.” È l’approdo felice dopo una tempesta immaginaria, magica, quella ospitata nel dramma di Shakespeare La Tempesta (II, 1).
C’è chi giura che lo sconquasso senza danni inflitto da Ariel, spirito dell’aria, su comando di Prospero, alla flotta di Antonio e compagni non possa che aver avuto luogo al largo della spiaggia più bella di Corfù, quella di Palaiokastritsa, sul litorale nordoccidentale dell’isola. E poco importa che si tratti solo di una leggenda. Dai tempi in cui sullo stesso lido era naufragato Ulisse, con la nave che doveva portarlo a Itaca ridotta in pezzi dalla furia di Poseidone, Corfù è un rifugio esclusivo di eroi, di aristocratici, di intellettuali, di imperatrici.
L’isola pare da sempre sotto l’incantesimo felice di Prospero e di Alcinoo prima di lui: il signore dei Feaci che nell’Odissea ha ospitato l’eroe del ritorno così a lungo da far pensare che, in fondo, una gran parte del poema trascorra nel racconto, “accanto al focolare”, delle avventure per mare dell’eroe figlio di Laerte, nella pace tranquilla di Corfù, Schieria ai tempi di Omero.
Ulisse approda sull’isola in un giorno di tempesta, quando ormai dispera per il ritorno. L’onda si infrange su quel che resta del grande eroe che nell’Iliade aveva guidato le sorti del conflitto troiano, con la sua intelligenza colorata e multiforme e le sue parole simili a fiocchi di neve d’inverno. Tuttavia, proprio a un passo dall’annegamento, sul filo dell’acqua si manifesta invisibile la dea del mare, Ino Leucotea, che lo avvolge di un velo protettivo luminescente, forse poco più dell’incontro della luce con il salmastro, e lo guida al sicuro sulla spiaggia. Ulisse si nasconde fra gli intrecci di due radici nodose, si ricopre di foglie e sprofonda nel sonno. Un sonno pietoso, inviatogli da Atena, per consentirgli di riposarsi dopo tanto vagare. Lì lo troverà la principessa Nausicaa, la figlia di Alcinoo, esile e flessuosa come una palma di Delo. Nausicaa è giovanissima: ancora si preparano i giorni in cui andrà sposa. La dea Atena le si affaccia in un sogno, prendendo le sembianze di un’amica d’infanzia e la spinge ad alzarsi, non appena l’Aurora si aprirà al giorno, per andare a lavare le vesti bellissime nell’acqua del fiume. In questo scenario palustre, dove si trova il lavatoio dei Feaci, Nausicaa incontra un uomo che pare un leone, più che un re, e che accetterà di presentare al padre, perché questi lo ospiti (Figura 7.1).
Figura 7.1 Anfora con Ulisse, Atena e Nausicaa, da Vulci, 450-440 a.C. ca, Staatliche Antikensammlungen, Monaco.
Quest’incontro ha luogo all’inizio del VI canto dell’Odissea e ci vorranno molti versi per descrivere la bellezza dell’isola: il frutteto, le fontane, il vento Zefiro che attraversa dolce i giardini e i palazzi. Corfù, ai tempi di Omero, non conosce l’inverno né l’estate: gli alberi da frutto continuano a produrre, incessanti, pere, mele, melograni, fichi. Gli olivi crescono rigogliosi e, al di là del perimetro del giardino, una vigna si estende lunga e carica di grappoli. Ai confini della proprietà di Alcinoo c’è persino un orto che trabocca d’ortaggi. Il palazzo di questo Prospero ante litteram è l’esatto corrispettivo del trionfo vegetale in cui sorge, ma non sono state le geometrie raffinate della casa di Alcinoo a sopravvivere allo sfarinarsi del tempo. Lo ha fatto invece quel che, in verità, dovrebbe essere destinato a morire a ogni ciclo di stagione: la natura, che a Corfù, ancor oggi, ti viene incontro ancor prima di sbarcare al porto. Gli agronomi suggeriscono che sia la profondità dello strato di terra a regalare questa fertilità gioiosa che appartiene all’isola fin dai tempi del mito (Figura 7.2). Qualunque sia la ragione e, naturalmente, noi preferiamo pensare che sia il favore degli dèi, solo qui olivi centenari, di altezza impressionante, si alternano ai fichi, agli agrumeti, ai campi di mais, persino alle piante grasse e alle magnolie. Gli olivi, in particolare, hanno chiome così ramificate nell’aria da farci pensare che forse Ulisse si fosse appoggiato proprio a uno di quegli alberi, quando si preparava a fare il suo ingresso nella casa di Alcinoo.
Il re di Schieria, ora Corfù, in verità non è un sovrano assoluto, ma la figura più autorevole all’interno di un consiglio di aristocratici che governano quest’universo felice, in modo non tanto diverso da quello che dovettero fare i signori di Atlantide.
I Feaci sono creature prima di tutto ospitali: famosi per non respingere nessuno, anche quando, com’è il caso di Ulisse, chi getti l’ancora in porto o faccia naufragio si rifiuti ostinatamente di rivelare la propria identità. Un lusso discreto, non esibito, accompagna il soggiorno dell’ospite nel palazzo di Alcinoo: bagni, vesti preziose e regali di pregio; un cantore cieco, Demodoco, a intrattenere gli stranieri di passaggio nelle notti infinite del tempo insulare: un artista così eccelso da spingere alle lacrime anche Ulisse, che per nascondere la commozione si copre il capo con un mantello; e poi giochi, banchetti, sacrifici in onore degli dèi. Il punto forte dei Feaci è, però, la capacità di lasciar andare, di accompagnare alla meta. Gli antichi abitanti di Corfù possiedono navi bellissime, silenziose, senza timoni o timonieri. Basta la forza del pensiero per guidare alla meta gli ospiti raminghi e restituire loro la patria. I Feaci aiutano tutti, anche se, tempo addietro, una terribile profezia li aveva messi in guardia. Si diceva che gli dèi li avrebbero puniti prima o poi, per la troppa neutralità, sfracellando una delle loro navi famose, proprio in vista dell’isola, dopo aver completato l’ennesimo trasporto di uno straniero; avrebbero inoltre ricoperto la città con un’enorme montagna, segnando così la fine di una civiltà pacifista, dotta ed elegante.
Il timore della fine non ferma, tuttavia, i Feaci nemmeno il giorno in cui tocca riportare Ulisse a casa e, anzi, questi si affrettano a stivare nell’imbarcazione un tesoro di doni ospitali perché l’eroe non abbia a lamentarsi dell’accoglienza ricevuta. Si è ormai levato l’astro di Venere, nunzio dell’Aurora, quando la nave si ferma davanti al porto di Itaca, lì dove due promontori gemelli digradano a formare una conca che protegge dal vento e dai marosi. L’eroe, avvolto nel lino e in una coperta preziosa, viene dolcemente adagiato nel punto in cui si apriva, antichissima, una grotta delle Naiadi. Al suo interno crateri e anfore di pietra e due ingressi, uno per gli uomini e uno per gli dèi. I doni preziosi ricevuti dai nobili feaci vengono ammonticchiati di fronte all’olivo solitario che si erge a baluardo del porto; i marinai se ne vanno in silenzio per non turbare il sonno di Ulisse.
Solo a un passo dalla meta, da Corfù, gli dèi, e Poseidone in particolare, decideranno di dare compimento alla profezia: le città dei Feaci non verranno seppellite da un’immensa montagna, ma sarà “solo” la nave a cambiare la propria natura, prendendo quella di una pietra, perché possa rimanere lì in vista, subito fuori dal porto, come monito per chi avesse avuto di nuovo l’ardire di riprendere il mare, seguendo l’istinto ospitale.
In realtà, i Feaci hanno scelto di non imparare dai propri errori e di continuare, imperterriti, a tracciare rotte fantastiche per riportare a casa gli eroi raminghi o, anche, semplicemente, di ospitarne la sosta. Alcinoo aveva scelto di dare asilo anche alla straniera Medea e al suo innamorato Giasone, di passaggio a Corfù nella loro fuga dalla Colchide, sul Mar Nero, dove gli Argonauti erano approdati per recuperare il vello d’oro dell’ariete fatato: lo stesso che aveva portato in salvo Frisso e Elle, figli di Zeus, e Nefele, la Nuvola, volando per un lungo tratto sopra il mare.
I miti che descrivono il soggiorno di Medea e Giasone alla corte di Alcinoo sono molti e diversi i protagonisti delle storie. Sappiamo che i due amanti fuggivano dalla vendetta di Eeta, padre di Medea e figlio del Sole, Elios, e che talvolta sulle loro tracce si era spinto anche il fratello di lei, Absirto, alla guida di una spedizione punitiva. Secondo alcuni, a Corfù Absirto era caduto in un’imboscata tesagli proprio da Medea e Giasone. La sorella gli aveva proposto un rendez-vous segreto, con la scusa di volergli consegnare un magnifico dono: il mantello che Ipsipile, la regina di Lemno, aveva donato a Giasone, dopo essersene innamorata.
Ora, in origine, il manufatto era appartenuto al dio Dioniso che vi si era avvolto in una notte d’amore indimenticabile con Arianna. Per questo, il tessuto tratteneva ancora il sentore dell’amore, del vino e del desiderio. Un oggetto straordinario che, tuttavia, non era mai stato consegnato a Absirto: Giasone l’aveva atteso nell’ombra e gli era saltato addosso, spada sguainata, passandolo a fil di lama e, una volta ucciso, ne aveva tagliato le estremità in una procedura macabra e antichissima, che in greco si chiama maschalismós. Un rituale magico e terribile che voleva privare il morto della capacità di perseguitare in forma di fantasma il suo assassino e lo trasformava, anche, in una vittima sacrificale per le ombre infernali, perché nel sacrificio antico proprio le estremità del corpo animale restano fuori dal pasto sacrificale. Del resto, l’eroe della spedizione argonautica si era accostato al fratello di Medea proprio come fa il “macellaio” che si prepari al sacrificio di un toro e poi, dopo aver eseguito questa pratica barbara di amputazione, aveva anche leccato e bevuto, per tre volte, il sangue del nemico, risputandolo da ultimo in un gesto di magia arcaica e sulfurea.
Secondo un’altra tradizione del mito, Absirto era stato sì fatto a pezzi, ma non a Corfù, bensì a Tomi, una località che corrisponde all’odierna Costanza, in Romania, sulle rive del Mar Nero e che era tristemente famosa per aver ospitato l’esilio del poeta latino Ovidio: temno, tagliare è del resto il verbo greco da cui si origina la parola Tomi, a dimostrazione che anche lì, lontano dalla felice Corfù, l’ombra di una morte cruenta e sanguinosa aveva perseguitato lo sfortunato fratello della maga della Colchide.
Sembra che anche Eeta si fosse messo sulle tracce di quella figlia ribelle che aveva scelto di seguire in patria un eroe straniero e gli aveva sottratto il vello d’oro. Capita quindi alla corte di Alcinoo e ne assaggia l’ospitalità squisita. Vuole, però, Medea indietro e così il signore dei Feaci, dopo una lunga meditazione, decide con grande saggezza di restituirla al padre, ma solo se l’unione con Giasone non si fosse già consumata. In caso contrario, a quella ragazza risoluta che sembrava pronta a lasciare il suo mondo per amore di un uomo non sarebbe rimasto che il matrimonio con Giasone. Arete, la sposa di Alcinoo, che aveva osato, lei donna, interrogare per primo Ulisse sulla sua identità, organizza in fretta e furia un’alcova segreta in una grotta bellissima a picco sul mare; predispone un gran letto e sopra, come coperta, fa gettare il vello d’oro dell’ariete fatato. Così l’Argonauta e la maga possono amarsi per una notte intera e risvegliarsi sposi. Le pretese di Eeta cadono e al re della Colchide non resta che tornarsene in patria.
La grotta di cui ci parla il poeta ellenistico Apollonio Rodio nelle sue Argonautiche sembra appartenesse a Macride, figlia dell’apicultore Aristeo: colui che aveva provocato, senza volerlo, la morte di Euridice, perché l’aveva inseguita nei prati e lei, cercando di fuggirgli, aveva pestato una serpe velenosa che l’aveva morsa, senza rimedio. Sembra che Macride avesse allevato il piccolo Dioniso, nutrendolo con il miele delle api del padre, quando il figlio di Zeus bambino si nascondeva in Eubea. Era, tuttavia, che regnava sull’isola, aveva cacciato il dio perché questi rappresentava l’ennesima prova del tradimento dello sposo. E Dioniso si era rifugiato proprio a Corfù, nella grotta a due ingressi in cui poi Giasone e Medea avrebbero consumato il loro amore.
Del resto, anticamente persino l’isola portava il nome di una fanciulla: Kerkyra, una ninfa figlia del fiume Asopo che Poseidone aveva rapito e portato sull’isola. Dall’unione fra i due era nato Feace, il capostipite del popolo di Alcinoo.
Venendo dall’Italia, dal tacco dello Stivale, Corfù è una porta al confine fra la Grecia e l’Albania: è un’isola di spiagge dolci, molto frequentate, ma anche di grotte. Si può, quindi, andare in cerca del punto in cui per la prima volta Ulisse e Nausicaa si sono incontrati, della grotta in cui Giasone e Medea si sono amati e Dioniso è stato nutrito con il miele dolce delle api. Si può andare a caccia di fonti nei boschi di olivi e fichi, ma difficilmente troveremo traccia delle ninfe e delle giovani principesse che hanno abitato Kerkyra-Corfù nell’antichità del mito.
Una ragazza è sopravvissuta in verità, a memoria dei giorni in cui gli dèi abitavano l’isola. Per incontrarla si deve progettare una visita al museo archeologico, che si trova sul lungomare, leggermente arretrato, lungo la strada che va dalla città vecchia di Kerkyra o Corfù verso sud. Qui, del tutto inaspettata, si nasconde un’altra fanciulla rapita e violentata da Poseidone, Medusa, la Gorgone. E a vederla così, trasformata nel frontone di un antico tempio, il viso sfigurato dal ghigno del mostro, la testa enorme su un corpo primordiale, raffigurato nella posa di chi sta correndo via nel vento, mai crederesti che fosse stata una delle ragazze più belle del suo tempo, che avesse avuto una chioma di riccioli splendenti e che Poseidone l’avesse afferrata un giorno mentre passeggiava ignara, prendendo le sembianze di un uccello rapace. L’aveva portata proprio a Corfù e lì, forse, le aveva fatto violenza nel tempio di Atena. Per questa ragione era stata punita e mutata in un mostro capace di pietrificare con un solo sguardo maligno. Perseo l’aveva alla fine sconfitta, volgendole contro il suo scudo riflettente come uno specchio, e lei si era mutata definitivamente in quella creatura di sasso e, poi, di terracotta che in infinite repliche era andata ad abitare i frontoni dei templi, le fibbie, gli scudi, i portici delle case, persino uno speciale tipo di vaso, la kýlix, che i Greci usavano durante il banchetto e che aveva al suo centro un ocello in cui era rappresentata proprio lei, in forma di Gorgone. Serviva a ricordare a chi avesse portato la coppa alle labbra per bere il vino che la vita è breve, che l’ubriacatura è la soglia del sonno e questo può esserlo della morte. Aggrappata ai frontoni e sugli scudi faceva paura: ai nemici, ma anche agli spiriti invisibili che minacciavano la serenità di mortali e immortali.
Un po’ ironicamente, questa ragazza trasformata in mostro e poi in materia inerte, decorava a Corfù il frontone di un tempio, presumibilmente in ordine dorico, dedicato alla dea Artemide (Figura 7.3): la divinità che proteggeva le giovani donne e il momento di vulnerabilità legato al passaggio dall’infanzia alla giovinezza. Loro si rifugiavano fra le colonne del suo tempio, per sfuggire ai rapimenti e, anche, alla violenza. Nel caso di Medusa, purtroppo, Artemide aveva distolto lo sguardo e lei si era ritrovata mutata nel più spaventoso dei mostri.
Gli abitanti di Corfù avevano costruito il tempio per Artemide probabilmente nel VI secolo a.C. in un periodo di grande prosperità: quando avevano iniziato a battere moneta ed erano usciti vincitori, nel 665 a.C., dalla prima battaglia navale del mondo greco, di cui ci parla Tucidide, contro i Corinzi, che pure negli anni che precedono la battaglia erano stati gli artefici di un piccolo Rinascimento artistico e culturale sull’isola. La terra di Alcinoo era, in ogni caso, rimasta ricca e felice a lungo e sembra che, nel corso della guerra contro i Persiani, Corfù avesse una flotta seconda per potenza solo a Atene: aveva mandato a Salamina sessanta navi, apparentemente con lo scopo di offrire un contributo determinante alla vittoria, nella battaglia navale del 480 a.C. in cui si era decisa la sorte del conflitto: le navi, però, non erano mai arrivate e gli Ateniesi non gliel’avevano mai perdonata.
Alla fine del III secolo a.C., i Romani liberano l’isola dai pirati illiri che ne avevano fatto una loro base e vi stanziavano la flotta: Corfù torna a essere l’approdo urbano ed elegante, il ricamo di spiagge e frutteti che già si era rivelato ai tempi del mito. La visitano gli imperatori Ottaviano, Tiberio, Nerone e, ancora, Catone, Cicerone, Marcantonio; il bel mondo di Roma si ritrova lì in estate.
A Corfù capita un giorno anche Riccardo Cuor di Leone, la sua nave distrutta da una tempesta mentre cercava di guadagnare la rotta di casa, dopo aver firmato con il Saladino il trattato di pace che poneva ufficialmente fine alla terza Crociata, il 2 settembre del 1192. L’isola era a quei tempi sotto il controllo di Bisanzio e l’imperatore, Isacco II Comneno, aveva mal tollerato la presenza di Riccardo la cui politica aggressiva nei confronti di Cipro, anch’essa dominio bizantino (Figura 7.4), non era stata accettata di buon grado dall’imperatore. Così l’isola vien meno alla sua fama leggendaria di ospitalità e a Riccardo non resta che fuggire, travestendosi da templare, prendendo in affitto una nave pirata che lo avrebbe portato con i suoi su una rotta perigliosa lungo le coste della Dalmazia, per lasciarli a Aquileia, dopo l’ennesimo naufragio.
A Bisanzio succedono, per circa un secolo a partire dal 1259, gli Angioini fino a quando, nel 1386, i discendenti dei Feaci, al declino della dinastia e dopo infiniti assalti dei pirati, chiedono ai Veneziani di assumere il controllo dell’isola, cosa che faranno fino al 1797, momento in cui a Corfù sbarca l’armata napoleonica. Al dominio veneziano si deve di fatto il disegno architettonico di Corfù e, in particolare, della città Kerkyra o Corfù, luogo in cui venne costruita la fortezza vecchia, un luogo di presidio e rifugio per gli intellettuali e gli artisti che approdavano a Corfù in fuga dalla dominazione dei Turchi ottomani. Nel 1716 l’avamposto sul mare in cui sorge la fortezza vecchia, trasformato in una vera e propria isola dalla creazione di un fosso (Contrafossa), resiste indomito all’ultimo tentativo di assedio degli Ottomani che, l’11 di agosto, abbandonano improvvisamente l’isola, quando appare l’immagine spaventosa di san Spiridione, patrono di Corfù e una terribile tempesta, letta come il segno dell’ira del santo, si abbatte sulla costa. Una chiesa del Seicento, con un bel campanile, nella città vecchia, custodisce le ossa di Spiridione, nato a Cipro circa alla metà del III secolo, che era stato un pastore nella sua prima vita e poi, dopo la morte della moglie, si era dedicato alla religione.
Proseguendo un po’ più a sud da Kerkyra verso l’aeroporto, sulla litoranea, in prossimità del villaggio di Gastouri, una villa neoclassica con accenti pompeiani si leva su una piccola altura, circondata da un bellissimo giardino all’italiana (Figura 7.5). È il buen retiro di Elisabetta di Wittelsbach, prima duchessa di Baviera e poi imperatrice d’Austria, dopo il matrimonio con Francesco Giuseppe; la Sissi della trilogia cinematografica, immortalata da una luminosa Romy Schneider. In verità Elisabetta non fu mai Sissi, piuttosto Lisi o Sisi, alla corte viennese. Sposata, nel 1854, a sedici anni, con l’imperatore d’Austria che ne aveva ventiquattro, è stata molto presto abitata dalla sua leggenda: bella, vitale, ma anche molto infelice a fianco di un marito freddo e distante. Appassionata, colta, viaggiatrice inquieta, mai infedele, ma ugualmente capace di lunghe assenze e di grandi silenzi. Nel 1889 compra a Corfù la villa in cui aveva soggiornato in un viaggio di molti anni prima e ne commissiona un restauro radicale, affidato agli architetti italiani Raffaello Carito e Antonio Landi. Il risultato sarà un tributo all’antichità classica del mito e della letteratura, a partire dalla scelta del nuovo nome “Achilleion”, in omaggio all’eroe omerico che Elisabetta preferiva; una statua di Achille sul punto di morire, colto dall’artista berlinese Ernst Herter mentre tenta inutilmente di estrarre dal tallone la freccia che gli sarà fatale (ora la statua è sotto il sole della terrazza principale) fa ben capire come non fosse il furor guerriero a interessare l’imperatrice quanto piuttosto il lato dolente e caduco dell’eroismo (Figura 7.6).
E poi, portici con statue di Muse, busti di filosofi e poeti e, originariamente, in un tempietto rotondo, una statua di Heinrich Heine, che poi Guglielmo II, imperatore di Germania, farà sostituire con un’immagine della stessa Elisabetta, quando acquistò la villa nel 1905, dopo il tragico assassinio dell’imperatrice per mano di un anarchico, il 10 settembre del 1898. Luigi Lucheni, l’attentatore di Elisabetta, vedeva in lei l’emblema dell’aristocrazia, eppure, e lo mostra anche la passione per il poeta democratico Heine, Elisabetta disprezzava la classe a cui apparteneva e, nei soggiorni a Corfù, si era legata molto agli abitanti del luogo, la cui condizione aveva cercato di migliorare. Di Heine Elisabetta amava anche la passione forte, romantica per la vita e quella per un paganesimo segreto, destinato a sopravvivere nelle rovine, in una certa declinazione selvatica della natura.
L’Achilleion è stato, durante il primo e il secondo conflitto mondiale, un ospedale militare e, poi, un casinò, fino a quando è passato in carico, nel 1993, all’Ente del turismo ellenico ed è ora aperto al pubblico.
Il periodo che precede lo scoppio della Seconda guerra mondiale coincide anche con l’età dell’oro della moderna Corfù, descritta da Gerald Durrell, “Gerry”, in La mia famiglia e altri animali, un romanzo divertente e luminoso che racconta il soggiorno della famiglia Durrell sull’isola, dal 1935 fino al 1939, quando i venti di guerra li costringono a lasciare per sempre il loro paradiso.
A Corfù, i Durrell erano approdati spinti dal richiamo di Omero e dei Feaci, su impulso del fratello maggiore di Gerry, Lawrence Durrell, scrittore a sua volta (è il celebre autore del Quartetto di Alessandria), grande conoscitore della Grecia e della sua letteratura che, con uno spirito decisamente bohémien, aveva spinto l’intera famiglia sulle orme di Ulisse, per dimenticare la durezza del clima inglese e nella speranza che l’aria dell’isola potesse curare le sofferenze della madre Louisa, sempre più addolorata, dopo la morte improvvisa del marito, un ingegnere angloindiano che l’aveva lasciata vedova molto giovane, in India, con quattro figli da crescere, nel 1928.
Questa famiglia inglese, che veniva dalla fredda Bornemouth, poco convenzionale e allegra, capace di scandalizzare gli abitanti dell’isola, ma anche di creare una profonda rete d’affetti è stata in grado, forse più della malinconica imperatrice, di Riccardo Cuor di Leone, di Lord Byron, che pure amava moltissimo Corfù, di intercettare quello spirito gentile dell’isola che già la abitava nei giorni di Ulisse, Medea e Giasone. Così leggere i libri dei fratelli Durrell, preferibilmente camminando per le vie veneziane di Kerkyra o per i sentieri che si snodano tra fichi e olivi millenari, significa intercettare, sì, una memoria familiare, ma anche ritrovare la tonalità esatta del cielo e il sentore di macchia che avevano avvolto il re di Itaca al suo arrivo nel regno di Alcinoo.
È a Corfù, del resto, che inizia il Blu di Grecia, come scriveva Lawrence Durrell nel suo La grotta di Prospero.
Apollonio Rodio, Argonautiche, IV.
Omero, Odissea, canti V-XIII.
Tucidide, Guerra del Peloponneso, I, 13.
G. Durrell, La mia famiglia e altri animali (1956). Tr. it. Adelphi, Milano 1977.
L. Durrell, La grotta di Prospero (1945). Tr. it. Giunti, Firenze 1992.
I Durrell, la mia famiglia e altri animali, serie tv trasmessa prima in Gran Bretagna da ITV (2016) e poi in Italia da LaEffe.
“Bianca”, questo il significato del toponimo Leucade che, per gli antichi, non era neppure un’isola, ma solo un frammento di promontorio diviso dalla regione dell’Acarnania, che le sta di fronte, teso verso Cefalonia e Itaca. Erano stati i Corinzi, di cui Leucade era colonia, a fare di quella penisola una terra insulare, separandola dalla costa con uno stretto.
Lì si era combattuta, il 2 settembre del 31 a.C., la battaglia navale di Azio: siamo in Grecia, sulle coste dell’Acarnania, ma lo scenario è quello in cui la stella di Marco Antonio si avvia al suo definitivo declino, nei giorni di guerra civile contro Ottaviano. Sembra che gli spazi stretti di manovra e il fondale molto basso di quell’area lagunare avessero contribuito non poco a indebolire la strategia bellica di Cleopatra che aveva immaginato di potersi guadagnare la vittoria grazie alle sue navi, di cui andava molto orgogliosa: numerose ma pesanti e difficili da manovrare. Augusto, al contrario, contava su una flotta più contenuta nei numeri e, tuttavia, decisamente più governabile perché composta da imbarcazioni piccole e leggere che si muovevano con facilità in quel braccio di mare dal fondale basso. L’asso nella manica del futuro imperatore era, in verità, il suo ammiraglio, Marco Vipsanio Agrippa, la cui strategia bellica si sarebbe rapidamente rivelata vincente, grazie anche alla decisione improvvisa di Cleopatra di approfittare di un varco nello schieramento delle navi nemiche per fuggirsene via, in Egitto, abbandonando la battaglia e il suo amante, Antonio, che, in preda al panico, la seguirà subito dopo, lasciando i suoi alla mercé di Ottaviano, delle sue navi e del suo esercito. La notizia secondo cui Antonio avrebbe raggiunto Cleopatra in mare aperto e lei si sarebbe limitata a tirare dritto, senza neppure dar segno di riconoscerlo, colora di farsa una battaglia affrontata da Antonio sin dall’inizio con un po’ di velleitarismo e di naïveté sentimentale.
Tutto si gioca intorno a Leucade: in un tratto di costa che pare più una laguna che mare aperto. In effetti, la terraferma è a un passo: ormai basta un ponte per arrivare alle spiagge bianchissime di Leucade, ancora relativamente poco frequentate dai turisti.
A cercarne le tracce nel mito un po’ ci si perde: forse il suo nome deriva da un eroe, figlio di Icario e, quindi, fratello di Penelope. C’è chi ritiene che proprio l’isola bianca fosse l’Itaca omerica, come l’archeologo tedesco Wilhelm Dörpfeld che identificava l’intera area lagunare allungata fra Leucade e Itaca con l’antico regno di Ulisse; ne era talmente certo da farsi seppellire a Leucade, nel 1940, in compagnia di quegli antichi basileís, le cui tombe aveva contribuito a portare alla luce.
Molto presto, in ogni caso, qualunque re o eroe del mito avesse dominato Leucade in origine, questo sperone bianco ha cessato di essere un luogo con una sua topografia reale ed è diventato lo scenario di un tuffo in mare, quello di Saffo.
Da quel momento, le spiagge, la laguna, la vegetazione e gli antichi villaggi, Leucade tutta, si sono trasformati in un’unica scogliera che “sbianca di lontano”, quella di cui canta nel VI secolo a.C. Anacreonte in un bellissimo frammento di una sua poesia:
Ed ecco mi alzo in volo dalla rupe
di Leucade e mi tuffo nel mare bianco, ubriaco d’amore
(PMG 37608, 94 Gentili)
Come Saffo sia approdata a Leucade non è dato saperlo: di certo, prima di lei, quel nitore accecante aveva attratto a sé, dall’antichità senza tempo del mito, divinità, eroi e semplici mortali, in cerca di consolazione per una pena d’amore. Secondo il più importante dei commentatori di Virgilio, Servio, ci si tuffava dalla rupe anche spinti dal desiderio di ritrovare i propri genitori defunti (Commento alla Bucolica VIII, v. 59). Il bianco, fra l’altro, per i Greci, non è unicamente il colore delle rocce affacciate sul mare, ma anche la tonalità della morte, perché bianchi erano i vasi che facevano parte dei corredi funebri, privo di colori il regno delle tenebre.
E, del resto, proprio una rupe candida si accompagna ai sentieri pieni di muffa, alle correnti di Oceano, alle porte del Sole, al paese dei Sogni e al prato di asfodelo, lungo l’itinerario fantastico attraverso cui il dio Ermes, nel suo ruolo di guida delle anime, conduce quelle dei Proci all’Oltretomba, dopo la mattanza di Ulisse, nel XXIV canto dell’Odissea.
In greco antico, il gesto di staccarsi in volo per precipitare nel blu salmastro ha un nome preciso, tecnico. Si chiama katapontismós, alla lettera: “giù nel mare” ed è un termine neutro. Non si parla di amore o del desiderio di morte, ma, unicamente del disegno di un volo (Figura 7.7).
Figura 7.7 Tomba etrusca della caccia e della pesca, necropoli di Monterozzi, Tarquinia, VI sec. a.C.
Alcuni dicono che Saffo desiderava morire, lì, su quel promontorio, per liberarsi della sofferenza derivata da un amore non corrisposto per il barcaiolo Faone, conosciuto nei giorni di Lesbo.
Faone, in verità, doveva essere un uomo da nulla: alcuni non gli concedono nemmeno il privilegio della giovinezza; era stato fortunato, questo sì, perché aveva incontrato un giorno la dea Afrodite, sulla banchina del porto di Mitilene, a Lesbo, dove la dea aspettava, sotto le mentite spoglie di una vecchina, qualcuno che la trasportasse in giro sul mare, per un po’.
Faone pare aver preso il suo compito molto sul serio e così, dopo una giornata passata a remare nel golfo di Mitilene, Afrodite aveva deciso di compensare il barcaiolo a modo suo, visto che non voleva nulla in cambio per il servizio compiuto. Gli aveva regalato un’ampollina in cui era racchiuso un unguento magico, in grado di trasformare anche il più misero dei traghettatori in un ragazzo bellissimo.
Saffo era arrivata dopo, quando Faone, in preda all’entusiasmo, si era generosamente strofinato il corpo con il regalo di Afrodite e si era mutato in un uomo dal fascino irresistibile. Se n’era così invaghita, ma, respinta con poche moine dal barcaiolo, che non sembrava affatto colpito dalla celebrità della sua corteggiatrice, si era ritrovata poco dopo a Leucade, come spinta da un sogno, e aveva deciso di gettarsi giù dalla rupe bianca per quietare il dolore di quell’amore infelice.
In verità, la poetessa non fa mai cenno nei suoi versi a questo grande amore né, tantomeno, al suo proposito di suicidio dalla rupe. Il primo a parlarne a lungo è il poeta Ovidio che immagina una lettera scritta dalla povera Saffo a Faone, contenuta nella sua raccolta di false epistole, dedicate dalle eroine del mito antico ai loro innamorati (sono le Eroidi). A dire il vero, una lettera falsa non è forse la prova più convincente per poter dire che sì, Saffo effettivamente si era ritrovata lì, in cima a quella scogliera di Leucade, a sud dell’isola, dove ora c’è un faro bello che illumina il mare per gran tratto (Figura 7.8).
E se anche così fosse: se anche la poetessa avesse deciso di fare il gran tuffo – sono 72 metri dalla scogliera al pelo dell’onda – è difficile immaginare che avesse voluto sul serio togliersi la vita. Persino nella finta lettera contenuta nella raccolta ovidiana, in realtà Saffo si butta nel vuoto con la certezza di sopravvivere: grazie alla protezione di Apollo, che mai avrebbe permesso la morte di un poeta, del sostegno dell’aria, della tenerezza complice di Eros, l’Amore.
Il tuffo in mare, del resto, per gli antichi è anche un’ordalia: una prova che serve a rivelare quanto il tuffatore sia amato dagli dèi, quanto sia giusto, puro o colpevole e, quindi, destinato a morire. Sulla stessa altissima scogliera da cui Saffo si è buttata, pochi speroni di roccia più in là, nella località di Akri Doukato, sopravvivono i resti di un tempio in onore di Apollo: sembra che lì il dio avesse preso la tonalità bianchissima della roccia su cui si ergeva il suo santuario; Apollo Leúkos, infatti, si chiamava, Apollo il Bianco. I rituali in suo onore erano famosi in tutta la Grecia: dai paesi dell’isola e della costa di fronte venivano trascinati in cima al precipizio i malcapitati che erano stati accusati di aver offeso gli dèi e poi venivano gettati giù nel mare con il corpo grottescamente ricoperto di piume e di uccelli vivi che sbattevano le ali in preda al terrore, senza curarsi del poveretto a cui erano legati. Precipitavano così, con un tonfo, nel mare; solo alcuni di loro riuscivano a riemergere in superficie, e, a quel punto, venivano soccorsi dalle barchette che stazionavano sotto la roccia, in attesa di salvare chi fosse sopravvissuto. Per alcuni, del resto, gli dèi avevano reso l’aria più densa così che la caduta in mare risultasse meno rovinosa; altri, forse, venivano riportati a galla dalle braccia pietose di una Nereide. L’abisso salato poteva però diventare, anche, la tomba di coloro a cui la divinità aveva negato il favore e così, davvero, il bianco accecante della rupe di Leucade si rivelava la porta d’accesso al mondo dei morti.
A guardare alla bellissima serie di dipinti che Gustave Moreau ha dedicato a Saffo (1870-1893) (Figura 7.9) e alle infinite riprese letterarie e artistiche del momento che precede il tuffo, sembra che la poetessa sia stata, a un certo punto, intrappolata in una moviola ossessiva in cui lo stesso gesto, la stessa movenza si ripete all’infinito: a volte lei guarda il mare, a volte si gira verso l’interno, come presa dalla paura (per esempio in Moreau), a volte è bellissima o brutta, patetica, come accade nella divertentissima rilettura dell’episodio raccontata da una litografia del 1843 di Honoré Daumier in cui una Saffo non più nel fiore degli anni viene spinta a forza giù dalla rupe da un insofferente Amorino (Figura 7.10). Alcuni la ritraggono mentre si tuffa, pochi già cadavere a riva.
In tutti i casi la roccia è lì, a colonizzare per sempre l’immaginario della cultura occidentale e, anche, il nostro di viaggiatori. Si va a Leucade, infatti, anche soltanto per prendere un barchino dall’incantevole villaggio di Vassiliki e starsene per un po’ con il naso all’insù, come facevano i pescatori dell’antico rituale, aspettando di vederla cadere, ancora.
La carambola sfortunata di Saffo ha cancellato tutto il resto: eppure in cima alla rupe, lì dove ora c’è il faro, sembra che anche Zeus un giorno si fosse fermato nei giorni in cui spasimava d’amore per Era che si rifiutava di concedergli la mano. Afrodite si era buttata giù nello stesso mare, quando l’amore per Adone, da poco ucciso dalla zanna di un cinghiale, l’aveva spinta a sperare l’impossibile: che anche gli dèi potessero morire, se solo l’avessero fortemente voluto. Anche Deucalione, figlio di Prometeo, sopravvissuto al diluvio con la sposa Pirra, si era tuffato nello stesso punto, per curare il dolore provocatogli dalla morte di lei.
Niente da fare: localmente quella falesia da cui erano passati uomini e dèi ha preso il nome definitivo di “salto di Saffo”; solo il tuffo immaginario di una poetessa di Lesbo finisce per divenire eterno, così come eterna è la sua poesia.
In ogni caso, bisogna visitare il mare sotto la rupe in una giornata di sole perché pare che d’autunno e d’inverno, quando la nebbia si alza dal filo dell’onda si sentano le strida dei gabbiani, mescolate a lamenti che paiono voci umane: forse gli spiriti dei trapassati, le cui ossa giacciono sul fondale salmastro.
Così Charles Baudelaire scriveva nel 1857, nella sua poesia Lesbos, giudicata tanto scandalosa dai suoi contemporanei da dover essere esclusa dalla raccolta I fiori del male.
E da allora, in cima a Lèucada,
sto in vedetta, come una sentinella
dall’occhio acuto e certo; notte e giorno
appostata ad avvistare in lontananza
vaghi profili di tartàne, brick,
e fregàte, ondeggianti contro il cielo;
da allora sto in vedetta, in cima a Lèucada;
per sapere se buono ed indulgente
è il mare, e se fra gli echi di singhiozzi
di cui suona la roccia, verso Lesbo,
che perdona, riporterà una sera
l’adorato cadavere di Saffo,
lei che partì per sapere se il mare
è buono ed indulgente!
(traduzione di L. de Nardis)
A volte sì, sotto quella rupe candida, nei giorni senza sole, si possono sentire echi di singhiozzi.
Ovidio, Eroidi, XV.
Strabone, Geografia, X, 2, 9-10.
Svetonio, Vita di Augusto.
Charles Baudelaire, Lesbos.
Per sette anni Ulisse visse nell’isola di Calipso, ai confini del mondo. Ogni mattina usciva dalla grotta della dea con cui aveva passato la notte, cercava uno scoglio proiettato sul mare, guardava verso l’orizzonte vuoto e piangeva. Osservava lo sciacquio delle onde contro la roccia coperta di alghe, su e giù, con il moto alterno del riflusso, e immaginava di vedere il fumo levarsi dalle case della sua Itaca; pensava alla moglie, al figlio, ai genitori, forse anche al suo vecchio cane, cercava di ricordare il profumo della sua terra. Calipso non riusciva a capire: “Tu – gli diceva – vivi in un posto incantato, con prati trapunti di fiori e uccelli colorati, senza mai né pioggia né vento, hai l’amore di una dea e potresti averlo per sempre, potresti diventare immortale come me, ma non vuoi”.
“Anch’io – le rispondeva ogni volta Ulisse – so che tu sei molto più bella di Penelope: lei è una donna mortale che invecchia e muore come tutte le altre, e tu sei immortale. Ma anche così io voglio tornare nella mia terra, tra gente come me, gente effimera che un giorno sparirà come sparirò io; sono disposto ad affrontare di nuovo il mare e le tempeste, e anche morire, per questo.”
Pensava alla sua Itaca. Per Ulisse, però, Itaca non era solo la sua patria, ma il Luogo: quello in cui, per motivi misteriosi che nemmeno ci si riesce a spiegare, prima o poi l’anima di ognuno sogna di tornare, a qualunque costo, se può. Forse perché quella è la terra della giovinezza, la prima che ti ha accolto quando sei venuto al mondo, o quella che ti fa dimenticare il tempo che passa, la terra in cui vorresti stare per sempre; così, anche se Itaca è povera e oscura, Ulisse la vuole.
“Io – dice al suo ospite Alcinoo, nel nono canto dell’Odissea, quando gli svela il suo nome – sono Ulisse figlio di Laerte, famoso per gli inganni, e la mia fama sale al cielo. Abito Itaca, la luminosa. In essa si leva un monte, che si può vedere da lontano, il Nerito coperto di alberi. Attorno ci sono molte isole, vicine tra loro: Dulichio e Same e la boscosa Zacinto. Itaca è bassa, l’ultima nel mare, verso l’ombra, le altre volgono verso l’aurora e il sole. È pietrosa, ma buona nutrice di uomini, e io non conosco sulla terra niente che sia più dolce di lei. Calipso, splendida dea, mi voleva trattenere, desiderando che le fossi marito, e così mi tratteneva pure nella sua casa di Eea Circe, l’ingannevole, ma non riuscì mai a smuovermi il cuore nel petto, perché non c’è niente di più dolce della patria e dei genitori, anche se qualcuno vive in una dimora ricchissima ma in terra straniera, lontano dai suoi.”
In realtà Itaca non è l’ultima a occidente, nell’arcipelago delle sette isole ionie; e neppure è bassa, ma piuttosto collinosa, come del resto tutte le isole greche. Per questo nell’antichità taluni dubitavano che fosse davvero quella la terra di Ulisse, e qualcuno in tempi moderni ha rinnovato questa supposizione; l’archeologo Wilhelm Dörpfeld, assistente di Heinrich Schliemann, aveva deciso che l’antica Itaca era Leucade, e si era fatto costruire una villa, dono del Kaiser, sopra un promontorio, davanti alle sue coste e in vista dell’isola privata di Skorpios, che in seguito sarebbe stata di proprietà di Onassis.
Ma è un’ipotesi molto debole. Il geografo Strabone diceva che in realtà Omero non intendeva dire “bassa”, ma “affacciata verso la terraferma”, e che ombra e luce indicavano in realtà il luogo della notte, cioè il nord e il sud. Del resto, un poeta non è un geografo. Nella fantasia di Omero, Itaca deve essere distanziata dalle altre, perché è unica, luminosa per chi la guarda con gli occhi di Ulisse e nello stesso tempo ombreggiata dal sole che tramonta. Da quando esiste memoria Itaca è stata sempre la terra che con questo nome ancora oggi accoglie chi la visita sbarcando nella profonda baia di Vathy, la capitale, con le sue tipiche casette in stile greco-veneziano. Possedimento veneziano sin dal XIII secolo, Itaca al pari delle altre isole ioniche, fu l’unico lembo di terra greca a non conoscere mai la dura dominazione dei Turchi.
Itaca fu un’isola importante, nell’età del bronzo, non un luogo appartato e anche un po’ sonnolento come ora compare ai nostri occhi. Le più antiche tracce di civiltà risalgono a circa il 2500 a.C., ma fu specialmente in età micenea che questa terra fiorì: era un posto ricco e famoso, attorno al 1200 a.C., quando, come racconta il mito, il suo re Ulisse condusse dodici navi piene di guerrieri a combattere contro Troia. Quali siano state le sue imprese tutti lo sanno: e infine Troia fu conquistata grazie a una sua astuzia.
Storicamente, Itaca era in quei secoli un posto strategico: abbastanza vicina alla terraferma per praticare commerci ravvicinati – la famiglia di Ulisse, per esempio, aveva terre e parentele con le popolazioni dell’Epiro – ma anche abbastanza lontana per essere protetta da incursioni improvvise. Itaca e le isole vicine, nell’età del bronzo, erano il ponte dei Micenei verso occidente, una tappa necessaria per le navi cha dall’Italia univano la Grecia continentale: non è un caso che in Italia la figura del grande navigatore fosse molto popolare sin da epoche assai antiche e che sulle coste dell’Italia siano ambientate alcune delle sue avventure più famose, la sfida con il Ciclope, l’isola di Circe, gli scogli delle Sirene (Figura 7.11). Fu un’epoca d’oro, per questa terra. Poi, progressivamente, l’importanza di Itaca decadde, ma continuò a essere una terra famosa grazie al suo eroe. Mantenne però una qualche importanza. Aristotele scrisse una Costituzione degli Itacesi (perduta) che parlava delle sue istituzioni politiche; si celebravano anche dei giochi atletici abbastanza noti per cui arrivavano concorrenti da altre città, e che naturalmente si chiamavano gli Odysseia.
Figura 7.11 Testa di Ulisse che uccide Polifemo, I sec. d.C., Museo archeologico nazionale di Sperlonga.
La sua antica capitale, in seguito chiamata Alalcomene, sorgeva sull’istmo di Aietòs che collega le due metà dell’isola, in posizione dominante. Lì sono stati trovati pezzi di mura imponenti, ceramiche di epoca arcaica e di foggia particolare, reperti ellenistici, monete con inciso Ulisse. Ma il palazzo di Ulisse sorgeva in un luogo isolato, non nel centro dell’abitato: lo si dice appunto nell’Odissea e l’archeologia di Itaca, per quel poco che possiamo ricostruire, sembra confermarlo.
A Itaca sbarcò, nel 1867, un dilettante entusiasta che di lì a qualche anno sarebbe diventato famoso in tutto il mondo: Heinrich Schliemann, che arrivava con l’Odissea in mano per cercare la reggia di Ulisse. Non la trovò: in compenso, pochi anni più tardi avrebbe scoperto Troia e poi Micene orientandosi sull’Iliade. L’ultimo tassello che gli mancò, per ricostruire la sua archeologia omerica, rimase appunto Itaca.
Della casa di Ulisse non riuscì a scoprire nulla, anche se pensava di avere identificato il luogo e persino l’olivo sul quale l’eroe si era intagliato il letto nuziale, come racconta Ulisse stesso, quando Penelope per metterlo alla prova vuole fargli preparare il letto nella sala. “Donna, che cos’hai detto?” le risponde Ulisse, appunto per darle la prova. “C’è un segreto in quel letto, che ho fabbricato io stesso. Dentro il cortile cresceva un olivo fiorente, largo come una colonna. Intorno a quell’olivo ho costruito il mio, con pietre fittamente connesse, e vi feci una solida porta. Poi recisi la chioma dell’olivo dalle sottili foglie, sgrossai il tronco alla base, lo piallai tutto intorno, e levigai lì sopra il letto, ornandolo con oro e avorio. All’interno tesi cinghie di porpora. Ecco, questo è il segreto del letto.”
Mentre Troia e Micene sono luoghi che si affacciano nel paesaggio con evidenza possente, e mostrano mura massicce, e tra le loro rovine nascondevano tesori meravigliosi, Itaca non ha nulla di tutto questo: è un luogo sfuggente, misterioso come il suo antico re. È costellata di rovine micenee. Di un’acropoli si vedono i resti nei pressi del villaggio dal nome tutt’altro che omerico di Stavròs (“Croce”) nella parte settentrionale dell’isola, vicino alla piccola baia che porta il significativo nome di Polis; nei dintorni sorgono ruderi che gli abitanti hanno chiamato “scuola di Omero”. Proprio davanti, si scorge l’isolotto di Daskalio, presso il quale i pretendenti ancorarono la loro nave, tendendo un agguato a Telemaco che stava tornando dopo essere andato alla ricerca del padre, ma il ragazzo riuscì a sfuggire grazie all’aiuto di Atena. L’isola di Ulisse nasconde dunque i suoi segreti, come Ulisse nascondeva i suoi disegni nella mente.
A Itaca, peraltro, un “palazzo di Ulisse” potrebbe essere stato trovato, in tempi recenti, da una missione archeologica dell’Università di Ioannina; si trova nella località di Agios Athanasios, vicino a Stavròs, dove su due terrazze rivolte verso la costa sono state ritrovate le tracce di due insediamenti: uno dell’età del bronzo (dunque, coevo all’Ulisse omerico), l’altro molto più tardo. Al primo palazzo risale anche una fontana monumentale: possiamo spingerci a immaginare quella a cui la nutrice Euriclea attinse l’acqua con cui lavò i piedi a Ulisse travestito da mendicante. Il palazzo miceneo aveva sette locali e una grande sala centrale, il mégaron, come quella in cui Ulisse si vendicò uccidendo, uno dopo l’altro, i corteggiatori di sua moglie (Figura 7.12).
Figura 7.12 Cratere a figure rosse con strage dei Proci da parte di Ulisse, Telemaco e Eumeo, Musée du Louvre, Parigi.
Tornando a Itaca, Ulisse trovò un mondo infinitamente meno eroico di quello che aveva accompagnato la sua giovinezza durante la guerra di Troia, e il decrepito padre Laerte che per il dolore del figlio scomparso si è rifugiato in un podere dove coltiva viti e alberi da frutta, zappando come un contadino, vestito di stracci e assistito soltanto da una vecchia serva (Figura 7.13). L’Odissea finisce trasportandoci in una società di pastori, porcai, ancelle, caprai: un riflesso non dello splendido mondo miceneo, ma della modesta società contadina che si formò dopo il suo crollo. La grandezza dell’Itaca micenea nell’Odissea sembra scomparsa; Ulisse è l’ultimo dei navigatori, gli altri sono pastori o contadini o nobilotti terrieri. E Ulisse, infatti, è anche l’ultimo degli eroi: con un piede sta nel mondo fantastico del mito, con l’altro nell’oscura realtà del presente di una società impoverita.
Uno dei momenti più emozionanti del poema è quello in cui finalmente l’eroe tocca la sua isola; ma per una scelta letteraria geniale di Omero, non lo fa in piena coscienza. Quando la veloce nave dei Feaci lo sta trasportando verso Itaca, gli dèi fanno precipitare Ulisse in un sonno profondissimo. Neppure mentre la chiglia si ferma contro la riva l’eroe si risveglia. Il luogo, Omero lo identifica con precisione: è la baia di Forco, consacrata al Vecchio del Mare (un’antichissima figura mitica dell’acqua), che corrisponde probabilmente a quella in cui sorge l’attuale porto di Itaca, Vathy. L’Odissea la descrive minuziosamente: due promontori si protendono, e scendono digradando verso il porto, tenendo lontane le onde grandi che i venti impetuosi sollevano; dentro le navi possono stare senza bisogno d’ormeggio, quando hanno gettato l’ancora. All’imboccatura del porto si alza un grande olivo dalle foglie lucenti, e accanto vi è una grotta bellissima, ombreggiata, sacra alle ninfe Naiadi. All’interno – dice Omero – stanno vasi e anfore di pietra, dove le api distillano miele, e grandi telai pure di pietra dove le ninfe tessono mantelli purpurei. Vi sgorgano fonti di acque perenni e la grotta ha due entrate, quella per i mortali è rivolta a occidente, l’altra a oriente, per gli dèi. Di lì gli uomini non possono entrare, perché è riservata agli immortali.
I marinai feaci conoscono bene questa baia; nessuno li sta guardando. La nave giunge sino a riva e striscia sulla sabbia. Ulisse dorme sempre. Allora i suoi traghettatori, delicatamente, lo prendono avvolto nelle coperte e lo lasciano là. Sbarcano tutti i suoi beni allineandoli sotto un olivo e poi se ne vanno. In poco tempo la loro nave, volando sulle onde, è scomparsa.
Ulisse infine si sveglia, ma come preso da un’amnesia angosciosa non riconosce il luogo; teme di essere stato ingannato e che i suoi traghettatori lo abbiano sbarcato su un’altra isola. Eppure i doni sono lì, tripodi e altri oggetti splendidi che i Feaci gli hanno offerto. Ed ecco, improvvisamente gli compare una figura solitaria, seduta sotto un albero d’olivo che cresce subito oltre la spiaggia. È un pastorello. Lo sta guardando tranquillo, sembra amichevole, ma è uno strano pastorello, con un aspetto delicato, avvolto da uno splendido mantello, sembra un principe. “Ragazzo – gli dice Ulisse – dimmi, in quale paese sono arrivato? Quali uomini vivono qui?”
“Sei un pazzo, straniero – gli risponde la figura – o vieni ben da lontano se mi chiedi che terra è questa. Quest’isola la conoscono in tanti, anche se non è grande. È pietrosa, non adatta ai cavalli ma buona per gli olivi e la vite, ricca d’acqua, coperta di alberi. Il nome di Itaca è arrivato sino a Troia, dicono.”
Una gioia infinita afferra Ulisse. È proprio questa, sì, la sua isola. Vent’anni sono passati, tutta una vita, ma ora è arrivato. Però ancora una volta è prudente, nasconde i suoi sentimenti, finge. Prima di rivelarsi deve osservare ogni cosa e capire. Sempre bugiardo, inventa una storia complicata. Dice di essere un cretese, un reduce da Troia fuggito dalla patria per avere ucciso un uomo. Racconta di avere chiesto un passaggio a una nave fenicia portando con sé i suoi beni, quei tripodi allineati sopra la spiaggia. Racconta – la sola cosa vera – di essersi addormentato e di essere stato sbarcato su quella spiaggia nel sonno.
Mentre parla, Ulisse scruta il viso del pastorello. Ha raccontato una bella storia, delle sue, piena di invenzioni. Il pastorello continua a sorridere come se avesse ascoltato una favola. Poi il ragazzo in un istante diventa una donna bellissima, e sempre sorridendo gli parla: “Bugiardo e imbroglione che sei, come sempre! Quale uomo riuscirà a ingannarti? Ma io ti ho ingannato, non mi hai riconosciuta”. È Atena, la sua dea. “Signora – le risponde Ulisse – tu mi hai sempre soccorso, quando ero a Troia. Ma poi sei scomparsa: sono anni che non sento la tua voce.”
“Un altro – gli dice ancora Atena – tornando dopo tanti anni, sarebbe corso a casa, dalla moglie, dai figli. Ma tu no, tu vuoi sapere, mettere alla prova, agire con cautela. Io ti ho sempre protetto da lontano, in questi anni. Ora guarda: questa è la spiaggia di Forco, e là c’è la Grotta delle ninfe dove tu spesso hai offerto loro dei sacrifici.”
Così dicendo, gli dissolve la nebbia dagli occhi e Ulisse riconosce tutto: allora si china verso la sua terra e la bacia. Poi porta nella grotta tutti i suoi doni, i tripodi e le vesti che gli hanno regalato i Feaci, e Atena suggella l’ingresso con una roccia. E i due, l’eroe che ha molto viaggiato e la dea luminosa, si siedono sotto l’olivo, come amici, e cominciano a discutere i piani per sterminare i pretendenti.
Così, con questa stupefacente scena di intimità tra una dea immortale e un uomo effimero, avviene l’arrivo di Ulisse in patria, nel tredicesimo canto dell’Odissea. Uccisi i pretendenti, si sa, Ulisse partì di nuovo, e poi tornò e ripartì. Era vecchio quando gli riferirono che una nave straniera era sbarcata: forse, pirati. Ulisse rivestì l’armatura e corse sul posto, e accanto a lui stava Telemaco, ormai uomo fatto. A capo degli stranieri c’era un giovane dall’aspetto ardito; quando vide accorrere gli Itacesi, scagliò subito la lancia contro il loro capo e lo colpì. Era una ferita da poco: ma la punta della lancia era la spina velenosa di una razza di mare; subito Ulisse venne meno e morì, senza nemmeno rendersene conto.
Immediatamente dopo si scoprì la verità: quegli uomini non erano pirati, ma marinai comandati da Telegono, il figlio che Ulisse aveva avuto da Circe, e non lo sapeva. Telegono era andato alla ricerca del padre, e nemmeno lui sapeva che l’uomo che lo stava affrontando era proprio Ulisse. Un parricidio involontario (o inconscio, per uno psicoanalista che eventualmente volesse parlare di un “complesso di Telegono”). Così si compì, sulla sua isola, il destino dell’uomo che aveva molto viaggiato. Quando era sceso nell’Ade per interrogare le ombre, molti anni prima, il fantasma del profeta Tiresia glielo aveva annunciato: “Morirai vecchio di una morte dolce che viene dal mare” (Figura 7.14).
Una spiaggia, una grotta, dei tripodi di bronzo. Una Grotta delle ninfe si trova a poca distanza dal porto di Vathy e dalla spiaggia di Dexca (Figura 7.15). È una bella grotta con due ingressi (proprio come dice Omero) chiamata Marmarospilia piena di stallattiti in cui sono state trovate iscrizioni che documentano un culto alle ninfe e a Pan (Figura 7.16). È uno dei luoghi più noti dell’isola; l’altro è la fonte Arethusa dove secondo la leggenda locale il fido porcaio Eumeo portava la sua mandria ad abbeverarsi.
Ma in quest’isola misteriosa le grotte delle ninfe sono in realtà due. Bisogna spostarsi nel piccolo golfo di Polis, nella parte settentrionale di Itaca, nei pressi appunto del presunto “palazzo di Ulisse”. Quando Schliemann visitò l’isola, arrivò anche qui. Vide una grotta, e gli scavi di qualcuno che aveva fatto lavori di recente. Non cercò oltre: per una volta il suo meraviglioso istinto di archeologo non lo soccorse. L’ingresso era sommerso e ostruito da frane.
Nel 1934 una spedizione della scuola archeologica inglese di Atene, guidata da Sylvia Benton, tornò in questo luogo, e si fece una scoperta sorprendente: quella grotta era stato un luogo di culto; si trovarono, in stato più o meno buono di conservazione, tredici tripodi di bronzo, di età antichissima (IX-VIII secolo a.C., l’epoca in cui furono composti i poemi omerici) e altro materiale: dediche a Atena, a Artemide, alle ninfe e anche una maschera frammentaria di un viso con l’iscrizione “invocazione a Ulisse”. Dunque in quella grotta si praticava il culto dell’eroe: infatti anche Aristotele, in un frammento della Costituzione degli Itacesi, dice che ogni anno gli abitanti di Itaca facevano sacrifici annuali a Ulisse offrendo miele, vino, orzo, e può darsi che i sacrifici fossero fatti proprio nella grotta di Polis.
È misterioso il significato di questo luogo: perché quelle offerte tanto antiche, chi le mise lì a un certo punto, perché si veneravano in una grotta divinità come Artemide e Atena e insieme a loro l’eroe Ulisse? Tredici tripodi sono stati trovati: tanti quanti Ulisse portò con sé dopo averli ricevuti dai Feaci. Si potrebbe dire che il ritorno di Ulisse sia stato celebrato da qualcuno ponendo nella grotta i bei doni che i marinai feaci avevano deposto sulla spiaggia, e che per gli abitanti di Itaca quello fosse stato il luogo del suo approdo. La grotta mostra lavori di sistemazione sino al II secolo a.C. (epoca a cui all’incirca risale la maschera dedicata a Ulisse). Poi un crollo seppellì l’ingresso ed ecco il motivo per cui ancora li conserviamo. Luogo di culto sin dall’epoca del primo arcaismo? O una specie di Disneyland itacense, che gli abitanti avevano adornato e che i visitatori andavano a vedere per esplorare il luogo in cui Ulisse era sbarcato dopo vent’anni di peripezie?
Anche in questo Itaca è misteriosa. Certo nasconde altri segreti. Sarebbe bello sognare, come fece Schliemann, che un giorno si troveranno i resti del letto di Ulisse fabbricato nel tronco di un ulivo, dove lui e Penelope si riabbracciarono infine.
Omero, Odissea, canti XIII-XXIV.
Porfirio, L’antro delle ninfe. Tr. it. Adelphi, Milano 1986.
I. Malkin, I ritorni di Odisseo. Colonizzazione e identità etnica nella Grecia antica. Tr. it. Carocci, Roma 2004.