12. Amori estivi

Per anni, Joe Bryant era stato affascinato da Julius Erving, al punto da essere quasi invidioso di lui. L’esperienza al fianco di Doctor J gli aveva offerto un’intuizione, che la rapida ascesa di Magic Johnson avrebbe poi confermato. Joe Bryant aveva lasciato la Nba convinto che, per contare davvero qualcosa nel basket pro, dovevi essere il faro della squadra, la «bandiera» della franchigia. Dovevi possedere una giusta combinazione di abilità e arroganza, e dare a tutti l’impressione di essere l’elemento dominante nel gruppo. Jellybean lo aveva visto con i suoi occhi. L’uomo squadra riceveva sempre un trattamento diverso da quello riservato agli altri.

A Jellybean non era mai mancato il talento e, come molti altri grandi atleti, aveva anche una personalità spiccata. Ma i migliori in assoluto, le stelle come Erving e Johnson, erano riusciti in qualche modo a piegare le squadre, e i dirigenti, alla loro volontà e al loro talento. A quel punto, il collettivo era costruito attorno a loro.

Jellybean non era mai stato abbastanza forte, o abbastanza determinato, per diventare la bandiera di una squadra Nba. Ma questo argomento confluì nel mantra che il padre cominciò a trasmettere al figlio. Almeno finché Joe fosse stato nei paraggi, la sicurezza del figlio non doveva mai vacillare, come invece era capitato a lui. Il tempo avrebbe poi rivelato che l’istinto dominante di Kobe Bean, evidente in ogni fase e aspetto della sua vita, dal basket al rap, andava ben oltre quelli che potevano essere gli insegnamenti del padre.

Infatti, a ogni livello e in qualsiasi gruppo, Kobe Bean voleva sempre e solo dominare, voleva essere «the man», il numero uno, come avrebbe ripetuto lui stesso più e più volte. Se si trovava in una situazione in cui non poteva dominare, lui e la famiglia cercavano subito una soluzione diversa.

Gregg Downer aveva già visto emergere questo processo nella sua squadra di high school. All’inizio, il coach era preoccupato che Bryant potesse andarsene in una scuola più grande, ma capì presto che non sarebbe mai accaduto perché Bryant aveva già trovato la squadra in cui dominare, ed era la Lower Merion.

Forte di quella stessa consapevolezza, già alla fine della prima stagione Bryant cominciò a parlare di voler condurre la sua piccola scuola dei sobborghi a un traguardo impensabile: conquistare il titolo dello Stato. Quell’anno gli Aces fecero un grosso salto in avanti, vincendo sedici partite e perdendone solo sei, mentre Bryant riuscì a tenere una media di 22 punti e 10 rimbalzi, numeri ragguardevoli se si considera che le partite di high school duravano appena trentadue minuti.

Malgrado questi successi, la crescita cestistica di Kobe Bryant era avvenuta soprattutto altrove, lontano dalla Lower Merion e dal basket scolastico. Dall’inizio degli anni Novanta, lo sviluppo dei tornei estivi, dovuto in particolare alle iniziative della Aau, la Amateur Athletic Union, aveva cominciato a svolgere un ruolo importante nel monitorare e scoprire i nuovi talenti, e quel ruolo era destinato a crescere ancora di più negli anni successivi.

Il fenomeno non era circoscritto ai tornei della Aau, ma si allargava a una serie di manifestazioni di alto livello in cui si davano battaglia i migliori giocatori del paese. Sam Rines, coach della squadra Aau di Bryant, denominata Sam Rines All Stars, ha spiegato in un’intervista del 2015 che ogni anno poteva allenare Kobe da marzo a ottobre, mentre Downer lo aveva a disposizione per un periodo relativamente più breve, da fine ottobre ai primi di marzo.

Pur avendo rivestito un ruolo considerevole nella formazione del ragazzo, Sam Rines non riusciva a capire perché, nel corso degli anni, non fosse mai stato intervistato da un giornalista interessato a comprendere quel fenomeno globale chiamato Kobe Bryant.

Il ragazzo avrebbe potuto giocare con parecchie altre squadre della Aau più forti e blasonate, spiegava Rines, ma aveva scelto la sua squadra, meno conosciuta e meno ambiziosa, perché sarebbe stato senza ombra di dubbio il giocatore di riferimento della formazione.

Quando i Bryant si misero a cercare una squadra nella Aau, Sam Rines era un coach alle prime armi che allenava la squadra fondata nel 1992 dal padre, che si chiamava anche lui Sam Rines. Negli anni Settanta, Rines sr aveva vinto un titolo a livello di high school sulla panchina di una squadra della Pennsylvania, per poi trascorrere una dozzina d’anni come assistente alla La Salle University, lasciando l’incarico nel 1992.

Prima che Kobe iniziasse a giocare per Rines, Joe volle assicurarsi che sarebbe stato il giocatore di punta della squadra. In un certo senso, quello status si poteva misurare in modo semplice: con il numero di tiri che Kobe era autorizzato a prendersi nell’oretta che durava una partita di Aau. Più tiri aveva a disposizione, maggiori erano le opportunità di crescere.

«Joe e mio padre si fecero una chiacchierata preliminare, per accertarsi che si trattava di una situazione favorevole a Kobe» ha spiegato il giovane Rines. «C’è una bella differenza fra prendersi venti tiri, e prendersene solo cinque».

Kobe aveva bisogno di quei quindici tiri in più per sviluppare il proprio gioco. Allenatori e compagni dovevano comprendere che Kobe sarebbe stato al vertice della gerarchia di squadra.

Rines imparò presto che Kobe detestava uscire dal campo, come era già successo alla Lower Merion. Il coach ricorda che Bryant reagiva in modo così violento alle sostituzioni che la squadra decise di portare solo nove giocatori, per evitare le discussioni. Anche così, però, le occasioni di conflitto non mancavano.

«Di solito portavamo nove giocatori per non essere costretti a far uscire Kobe» ha ammesso Rines nell’intervista del 2015. «Era molto attaccato ai suoi minuti, e lo sapevamo bene. Sapevamo di non poter sostituire tutto il quintetto come facevamo di solito, perché Kobe non voleva uscire. Kobe era Kobe. Kobe era uno showman. Quando era in campo, era il ragazzino più concentrato che avessi mai visto. Non scherzava mai, era sempre molto serio. Non sorrideva a nessuno. Uccideva gli avversari dal fischio d’inizio alla sirena finale. Nessuna pietà. Non guardava in faccia nessuno».

«Era un maschio alfa fatto e finito» continuava Rines. «Se mai c’è stato un giocatore di basket degno di essere definito maschio alfa, quello era Kobe, ogni volta che metteva piede in campo. Era così a tredici, quattordici e quindici anni, e non è mai cambiato».

Se possibile, la pretesa di Bryant di restare in campo per tutta la partita era ancora più grave, perfino irrazionale, in una squadra della Aau, che era di fatto una selezione dei migliori giocatori provenienti da diverse scuole superiori, che non nella squadra di una piccola scuola come la Lower Merion. L’arrivo di Kobe Bryant, però, fece crescere il programma di coach Rines in modo esponenziale. Quello che era cominciato come un «clinic» rivolto al miglioramento individuale, da svolgersi nei fine settimana, era diventato ora molto di più.

«Cominciammo a prendere un ragazzino qua e uno là per migliorare la squadra,» ha spiegato Rines «e una volta che eravamo rinforzati, riuscimmo a prendere altri ragazzi grazie all’arrivo di giocatori come Kobe. Kobe fu un’aggiunta formidabile. A quei tempi eravamo nuovi per il basket di vertice, perché non avevamo mai avuto giocatori di quel livello. Eravamo considerati una squadra di seconda fascia, perché avevamo giusto due o tre ragazzi che giocavano in squadre di secondo piano di Division I. C’erano parecchie opportunità, quando arrivò Kobe. La Aau iniziava a diventare molto popolare, e spuntavano dappertutto nuovi tornei interessanti. Kobe continuava a chiederci di partecipare a più tornei».

La Aau aveva la reputazione di una lega in cui si dava poca importanza alla tecnica e ai fondamentali, ma Rines sr voleva aiutare i giovani più promettenti a migliorare concentrandosi sugli elementi di base, disputando soprattutto tornei di carattere regionale. Il format consentiva inoltre a suo figlio di fare esperienza come capoallenatore, mentre il padre dava il suo contributo come assistente esperto.

Kobe rispettava il vecchio Rines, ma si trovò presto in contrasto con il giovane coach.

«Eravamo sopra di 25 punti» ha raccontato Rines jr, ricordando una delle prime partite in cui aveva allenato Kobe. «E lui pensava di non aver giocato abbastanza bene per uscire. Voleva subito tornare in campo, e ci fu un battibecco».

«Rimettimi dentro» gli disse Kobe.

«No» rispose Rines. «Non torni dentro perché non puoi rivolgerti a me in questo modo».

«Avevamo le nostre divergenze d’opinione» ricorda Rines. «Ci furono un paio di momenti un po’ tesi, qualche discussione».

E Jellybean era sempre pronto ad appoggiare le richieste del figlio.

«Joe e io ci scontrammo, qualche volta» aggiunge Rines. «Aveva il tipico atteggiamento da genitore».

Capitava spesso che i genitori aggredissero verbalmente gli allenatori per via del minutaggio dei figli. A quei tempi le partite di Aau erano una vetrina che i giocatori di talento usavano per mettersi in mostra davanti agli allenatori di college. Per mettersi in mostra, però, dovevano essere in campo. In più, giocare in quelle squadre aveva un costo, e i genitori esigevano un’adeguata contropartita per il denaro che investivano. «Quando discutevo con Kobe, Joe gli parlava in italiano» racconta ancora Rines. «In questo modo nessuno capiva che cosa gli stesse dicendo, e a un certo punto Kobe si scrollava tutto di dosso. Ma sai, la rabbia di Kobe era di un altro livello».

Buona parte di quella rabbia rimaneva inspiegabile, ma in parte era dovuta senz’altro al fatto che il ragazzo doveva ancora migliorare nel trattamento di palla. Anche a quello stadio di sviluppo, però, erano moltissimi gli aspetti del suo gioco che incuriosivano gli allenatori, appena lo vedevano giocare. Rines ricorda la prima volta che vide Bryant in un torneo di alto livello.

«Eravamo giù in Delaware» racconta il coach. «Lo osservai bene, non sapevo chi fosse. Stavo lì a guardare questo ragazzino che sarà stato un metro e novantaquattro, un metro e novantacinque, e tirava in sospensione. Era fantastico, soprattutto se pensiamo che era un ragazzino di prima superiore che giocava contro ragazzi almeno tre anni più grandi di lui. Ovviamente non aveva ancora la forza fisica per avvicinarsi di più a canestro, ma era molto atletico, e aveva un buon tiro».

Quel giorno, tuttavia, Rines non notò niente di particolare che potesse fargli pensare a un futuro nella Nba. «Si vedeva però che era uno dei migliori freshmen per via della statura e dell’atletismo».

La sua conclusione, quella volta, fu che Bryant poteva diventare un ottimo giocatore di high school.

«Era molto giovane e già bravissimo» spiega Rines. «Difettava nel trattamento di palla ma, pur dovendo ancora migliorare su alcuni fondamentali, sapeva lavorare con grande intensità e alzare il livello del proprio gioco. Lo capii da come si allenava».

Più tempo passava ad allenare Bryant, più Rines scopriva che quel teenager dedicava al basket letteralmente ogni minuto che aveva a disposizione. «La sua mattina cominciava al Bellevue Hotel, lavorando con i professionisti» afferma Rines. «I pomeriggi li passava alla St Joe’s University correndo in pista con un paracadute e lavorando sul trattamento di palla. La sera andava ad allenarsi per conto suo alla Jewish Y».

I tornei estivi divennero il laboratorio in cui provare tutto il suo repertorio. Siccome nell’ambiente cominciavano a girare soldi veri, gli allenatori riuscivano ad accaparrarsi giocatori in gamba, il che attirava altri giocatori di buon livello oltre all’interesse delle aziende di scarpe e di altri potenziali investitori. Nella squadra di Rines si raggiunse presto il tacito accordo secondo cui Kobe sarebbe stato l’attrazione principale.

«Se Kobe si prendeva un brutto tiro,» racconta Rines «anche l’errore faceva parte del processo di apprendimento, il cui fine ultimo era portare Kobe allo stadio successivo. Dovevamo accettare chi era e che cosa voleva. Sapevamo qual era il suo obiettivo, ovvero salire continuamente di livello».

«Kobe attraversò dunque una fase di totale egocentrismo tecnico» aggiunge Rines. «Poi una fase in cui voleva a tutti i costi imparare a palleggiare e cambiare direzione incrociando, al punto che a volte calciava la palla fuori sette o otto volte di fila pur di imparare quel movimento. Come si fa ad allenare così? Se si metteva in testa di imparare qualcosa di nuovo, lo faceva e basta. Finché poi dovevo gridargli: “Che cavolo! Possiamo cercare di vincere la partita? Prima portiamo a casa la partita e poi puoi lavorare su tutti i movimenti che vuoi”. Perché capitava che all’improvviso ci trovassimo sotto di 12, 14, 16 punti, e lui cercava ancora di imparare il cambio di mano incrociato nel bel mezzo dell’azione».

La totale concentrazione di Bryant sui propri progressi individuali finiva spesso per danneggiare la squadra e per stravolgere lo spirito del basket Aau, per cui le partite dovevano servire a tutti i giocatori per mostrare le proprie qualità agli allenatori di college.

«Per alcuni ragazzi quelle partite erano l’unica occasione di farsi vedere dagli scout» spiega Rines. «Ma se un compagno di Kobe si smarcava per tirare e lui non lo vedeva o perdeva palla, quel ragazzo magari finiva per segnare poco perché la palla non gli arrivava o perché il gioco si era inceppato sul più bello. Questo danneggiava il compagno, ovviamente. Danneggiava Kobe che aveva perso palla, ma anche il tiratore, perché gli scout pensavano: “Quel ragazzo non è male, ma gli manca qualcosa”».

I limiti di Bryant come palleggiatore richiedevano degli adattamenti per le partite più importanti, continua Rines. «Dovevamo mettergli attorno altre guardie per non fargli fare brutta figura. A volte incontrava ragazzi che gli facevano un mazzo così, soprattutto i più bravi».

Un play di qualità come Shaheen Holloway, per esempio, era in grado di smascherare i limiti di Bryant, il che lo rendeva ancora più deciso nel volerli eliminare.

«L’aspetto migliore della faccenda» spiega Rines «è che c’erano ovunque ottimi giocatori. Nessuna delle squadre che incontravamo si poteva definire medicore. La più scarsa aveva almeno sette o otto giocatori di Division I».

Osservando le partite, gli allenatori giunsero a identificare un problema che avrebbe afflitto Bryant in ogni fase della sua vita cestistica. «Molti dei suoi problemi nascono dal fatto che pensa troppo» afferma Rines. «Pensa continuamente, analizza sempre tutto. Joe e io ne avevamo già parlato in precedenza. Joe aveva un atteggiamento molto rilassato. Diceva a Kobe: “Non continuare a pensare, gioca e basta. ’fanculo tutto, ’fanculo vincere, capisci cosa intendo? Gioca e basta. Sei qui per migliorare. Non ti ho portato fin qui per vederti fare i capricci. Stai lì a rimuginare su un’azione quando oggi giocherai altre tre partite”».

Ovviamente Joe era sempre presente, come aveva fatto suo padre con lui, e adesso sfruttava la sua esperienza per guidare Kobe attraverso le dinamiche di ogni diverso livello di gioco, stando sempre attento a stimolare l’autostima del figlio. Di solito, quando un genitore si comporta così provoca dissensi profondi all’interno di un gruppo, ma Joe Bryant sapeva muoversi con discrezione. E Pam Bryant, che a sua volta aveva un bel caratterino, si teneva alla larga dalla Aau. Anche nei confronti della Lower Merion, Pam preferiva rimanere in secondo piano, concentrando la propria attenzione sulla vita quotidiana di Kobe.

Rines era molto giovane e inesperto come coach, così finì col farsi trascinare negli scontri da quel cocciuto adolescente, al punto che spesso si sentiva il ragazzo brontolare: «Perché mi urla sempre dietro? Cosa vuole questo da me?».

Rines ci mise un po’ a convincere Bryant che lo spirito del gioco non era quello di battere tutti in palleggio da solo, come aveva imparato a fare in Italia, e il ragazzo cominciò ad accettare, seppur con una certa riluttanza, alcuni aspetti del gioco di squadra. «Con lui dovevo fare più che altro lo psicologo» racconta il coach. «Gli dicevo: “Kobe, lo sai che prima o poi la palla tornerà nelle tue mani. Perché cerchi di palleggiare in mezzo a tre o quattro avversari quando sai che i tuoi compagni ti ripasseranno comunque la palla?”. Gli ci vollero almeno tre tornei per capire che era lui il nostro punto di riferimento in attacco».

«Andiamo» gridava Rines. «Sta’ tranquillo. Vedrai che la palla torna da te».

Una volta metabolizzati i concetti basilari del gioco di squadra, Rines fu testimone di un ulteriore passo avanti del ragazzo. Gli altri cominciarono a difendere su Bryant con una box and one, giocando a zona contro i suoi compagni e mettendo un buon difensore a uomo su Bryant. Non era il massimo per una partita della Aau, ma anche gli allenatori avversari volevano vincere. «Quando riuscivamo a passargli la palla, gli avversari si mettevano a box and one. Cercavano di non farlo, ma era dura resistere perché la vittoria faceva gola a tutti. Devo dare atto di una cosa a Kobe. Non gliene fregava nulla di vincere. A lui interessa solo la sua crescita personale, i suoi miglioramenti. Non è che si mettesse a contare quanti punti faceva, ma era sempre consapevole di come stava giocando. Metteva tutti alla prova, era un classico. Alla fine accettò l’idea di dover passare e tagliare, e di giocare senza palla, perché sapeva che comunque l’avrebbe ripresa».

L’individualismo di Bryant era uno spettacolo in sé, ricorda Rines. «Era clamorosamente sopra le righe, ma comunque lo rispettavo perché era un giocatore che produceva moltissimo».

Rimanere concentrati su questo processo richiedeva uno sforzo da parte dei Bryant, ma Joe sapeva che suo figlio aveva ancora molto da imparare. E che piegare la sua volontà al bene superiore di una squadra importante avrebbe recato grossi benefici.

«La cosa pazzesca» continua Rines «è che, una volta arrivati al terzo anno, le cose cominciarono a funzionare. Così adesso quando vedo un giocatore che si adagia, che non migliora quanto dovrebbe, che non arriva a esprimere tutto il potenziale che a mio parere potrebbe raggiungere, io gli sto addosso, non lo mollo. Non me ne frega niente. Che vada a farsi fottere».

Anche allora, Rines non riusciva ancora a vedere in Bryant un futuro professionista, ma col passare dei mesi cominciò a pensare che sarebbe potuto diventare uno dei migliori prospetti per il college. Uno che poteva essere chiamato da una delle università più prestigiose, come North Carolina, per esempio. Il coach cominciò a sentire che tra lui e il suo miglior giocatore si stava sviluppando una specie di rispetto reciproco.

«Credo di essere riuscito ad alzare l’asticella abbastanza da obbligarlo a rispettarmi» afferma Rines. «Lavorava sodo come nessun altro, a qualsiasi livello, pro, college o high school. Era probabilmente il giocatore che lavorava più duro in assoluto. Voleva arrivare a tutti i costi, più di quanto lo desiderasse chiunque altro».

Questo atteggiamento finì per far nascere altri problemi. Le persone vicine a Joe Bryant, compresa la moglie, avevano sempre pensato che Joe fosse troppo preso dal basket, perché non pensava ad altro. Ora la dedizione del figlio superava di gran lunga quella del padre.

«Quando parlavamo di basket, tra di noi andava tutto a gonfie vele» racconta Rines, riflettendo sul rapporto che aveva instaurato con Kobe. «Ma per quanto tempo puoi continuare a parlare di basket? Tutta la sua vita ruotava attorno a quello, ma io, pur essendo un giovane allenatore, potevo dargli corda solo fino a un certo punto, poi dovevo cambiare argomento perché il mio interesse oltre un certo limite veniva meno».

La maggior parte delle persone che avevano a che fare con Bryant sul campo non sapevano niente del suo interesse per la musica rap. Osservando il modo in cui si allenava, è legittimo chiedersi dove trovasse il tempo anche solo per pensare di poter fare musica. Durante i primi anni con i Lakers, un giornalista chiese a Bryant cosa facesse nella vita oltre a giocare a basket, e la sua risposta fu: «Gioco a basket. Non esiste nient’altro».

Per qualcuno meno ossessionato dalla perfezione, in qualsiasi campo, una risposta simile potrebbe sembrare ridicola, e un approccio del genere potrebbe suggerire uno stile di vita piuttosto arido. In effetti, chi ha osservato da vicino la giovineza di Bryant ritiene che, sotto molti aspetti, Kobe non abbia mai vissuto una vita vera.

Rines si interrogava spesso su questo punto, e su quegli accessi di rabbia all’apparenza inspiegabili.

«Tutto nasceva» è la risposta del coach «dal fatto che da un lato aspirava alla grandezza, ma dall’altro non tollerava che qualcuno potesse aiutarlo in qualche modo. Kobe è sempre stato molto difficile da allenare perché non permetteva a nessuno di dargli una mano. Aveva un modo tutto suo di fare le cose, un suo stile, una sua filosofia».

In questo senso, conclude il coach, la sua abitudine ossessiva di studiare i filmati dei grandi del passato aveva creato una specie di barriera. Se studi nei dettagli le immagini di Magic Johnson o Michael Jordan, o di altri campioni d’altri tempi, e pensi che i tuoi maestri siano loro, oppure tuo padre, un ex professionista, cosa potrà mai insegnarti di utile un semplice allenatore di high school o della Aau? Altri pensavano invece che, mettendo sul piatto anche la difficoltà dell’impresa, Joe Bryant stesse facendo un lavoro fantastico nel tenere sotto controllo quel ragazzo, che era dotato di una volontà a dir poco terrificante.

«Avremmo potuto vivere certi momenti meglio di come abbiamo fatto» afferma Rines, ripensando a quelle prime estati trascorse cercando di trovare un accordo con la stella nascente. «Ma dovevamo lasciare briglia sciolta a Kobe».

LA FAMIGLIA

Jermaine Griffin avrebbe sorriso, anni dopo, nel sentirsi raccontare gli sforzi compiuti da Bryant per adattarsi al basket di vertice. Dopo aver visto il suo nuovo amico cimentarsi nel rap e nel basket di high school, Griffin aveva imparato ad apprezzare la raffinata intelligenza sperimentale di Kobe, che portava il ragazzo a cercare strade nuove in qualunque campo, non soltanto nei fondamentali del palleggio, ma anche con rime e strofe.

«Essere dei grandi significa questo, sperimentare» afferma Griffin. «Se tutti facessero le cose nello stesso identico modo e arrivassero alle stesse identiche risposte, saremmo tutti allo stesso livello. La differenza c’è quando tutti fanno le cose in un certo modo, poi arrivo io e dico: “Ascoltatemi, da oggi si fa in un modo diverso”. Ora, capita a tutti di scegliere una strada e sbagliare. È un processo necessario per arrivare alla perfezione, alla vera grandezza. Non puoi accettare le cose come stanno. Devi essere in grado di manipolare le situazioni, di cambiare le cose, altrimenti saremmo solo dei robot».

Sperimentare, naturalmente, implicava poi di mettersi alla prova. Per Kobe, il primo test importante era sempre suo padre, con cui si era misurato nel corso degli anni attraverso innumerevoli sfide uno contro uno, ogni giorno più fisiche e combattute.

«Una volta Joe mi raccontò di queste battaglie nel cortile di casa» ricorda Gregg Downer. «Volavano gomitate, si tiravano certi colpi in bocca, e intanto Kobe migliorava a vista d’occhio. Le partite cominciarono a diventare sempre più intense, ma Joe rimaneva imbattuto. Poi però, intorno ai quattordici anni, Kobe iniziò ad accorciare le distanze, si avvicinò ancora di più a quindici, e all’improvviso, un giorno, riuscì a battere suo padre. Fu come se si fosse laureato. “Quella era la fine” mi rivelò poi Joe. “Da allora non ho più giocato con lui, perché sapevo che non avrei potuto più batterlo”».

«È stato quello il punto di svolta, quando è riuscito a battere suo padre uno contro uno» ricorda Jermaine Griffin, testimone privilegiato di quelle sfide. Griffin aveva notato come padre e figlio si provocassero a vicenda, e che le sfide erano estremamente fisiche. Agli occhi di Griffin quello era il modello perfetto, o quasi, di relazione padre-figlio. «Suo padre aveva giocato in Italia, e anche nella Nba, e per Kobe era un idolo» racconta Griffin. «Perciò quando è riuscito a scalare la montagna, e a dire “ce l’ho fatta”, per lui è stato un giorno meraviglioso. Suo padre era molto competitivo, sai. Non gli concedeva neanche un millimetro. Non aveva nessuna intenzione di lasciarlo vincere, nemmeno per scherzo. Se Kobe voleva arrivarci, doveva sudarsela».

Griffin si accorgeva anche che Joe accompagnava sempre Kobe agli allenamenti, e gli insegnava tutto quello che sapeva sul gioco.

Il programma Abc che aveva trapiantato Griffin dal Queens alla Lower Merion mirava ad aiutarlo a cambiare la propria percezione del mondo, compresi i rapporti all’interno della famiglia, e i Bryant furono per lui un esempio di dinamiche familiari positive. «Il signor Bryant è stato una delle persone che mi ha aiutato in quel passaggio difficile» spiega Griffin. «Era un leader, e mi ha sempre ispirato».

Joe offrì un modello genitoriale a cui ispirarsi anche in seguito, quando Griffin diventò padre a sua volta. «Ho imparato molto osservando quello che faceva con Kobe, il modo in cui seguiva i suoi progressi, l’attenzione con cui sceglieva le persone da mettere attorno a Kobe» afferma Griffin. «Il modo in cui lavorava con suo figlio e lo incitava nel gioco, parlandogli in italiano, spiegandogli quello che doveva fare. È senza dubbio una delle persone che mi ha guidato di più, sia come padre di famiglia che come uomo in generale».

Griffin poteva osservare da una posizione ravvicinata l’amore tra padre e figlio, imperfetto per molti aspetti eppure così essenziale: un dono trasmesso di generazione in generazione, da un Joe Bryant a quello successivo, per arrivare alla fine a quel ragazzino prodigio.

«Già per me il signor Bryant era una persona straordinaria» aggiunge Griffin. «Figuriamoci cosa poteva rappresentare per Kobe, che era il figlio».

In quegli anni, Griffin era un invitato regolare di casa Bryant, e aveva la possibilità di osservare ancora più da vicino il potere dell’amore familiare. «Me n’ero accorto fin dalle superiori, quando andavo da loro e spesso mi fermavo anche a dormire» racconta. «Kobe adorava suo padre, lo rispettava sotto ogni punto di vista. Da quello che vedevo, suo padre era tutto per lui, come del resto sua madre. Erano tutto il suo mondo. Ho moltissimi ricordi. Erano come una seconda famiglia per me. Avevo amici nella casa-residenza della Abc, e ovviamente i miei genitori affidatari, ma al di fuori del programma, i Bryant erano la mia famiglia in Pennsylvania. Ero una delle poche persone che avevano accolto nella loro vita. Andavo spesso da loro, negli anni della scuola».

Oltre ad avere un rapporto stretto con Joe, era chiaro che, screzi occasionali a parte, Kobe era molto affezionato alle sorelle, così come al cugino John Cox IV, di qualche anno più giovane, che per Kobe era come un fratello, ricorda Griffin.

Pam Bryant era un mix di dolcezza, durezza e attenzione. La sua natura manipolatrice era palese, per più di un motivo. Teneva un profilo basso ma era sempre molto vigile.

Non tutti comprendevano l’atteggiamento di Pam Bryant, ma Griffin era convinto di capirla. «La spiegazione è semplice. Per sopravvivere ci vuole una volontà di ferro. Bisogna saper stare al mondo. Non è necessario comportarsi sempre da duri, in alcuni momenti puoi essere dolce, gentile e sorridente. In altre situazioni, però, non ti puoi permettere la gentilezza, non puoi sorridere sempre. Devi sapere quando mettere una certa durezza nel tono, quando alzare un po’ la voce. Quando accade, alcune persone sanno accettare quel tipo di reazione, altre invece reagiscono male perché capiscono di non poterti cambiare come vogliono loro. Capiscono che tu non glielo permetterai».

Pam Bryant poteva essere la persona più dolce del mondo, ma di sicuro non si faceva mettere i piedi in testa. Sorvegliava di continuo l’ambiente in cui cresceva il figlio per tenere alla larga le cattive compagnie, e non tollerava passi falsi nel rendimento scolastico. Come sottolinea un altro amico di famiglia, Jeremy Treatman, il mondo dei Bryant stava cambiando in fretta, man mano che Kobe si faceva strada nel basket: Pam Bryant non aveva altra scelta se non quella di tenere gli occhi aperti.

«Sai che ti dico?» conclude Griffin. «Le madri devono proteggere i figli. In qualsiasi specie animale, sono le madri a proteggere i cuccioli. Ed è esattamente questo che faceva Pam. Proteggeva suo figlio nel modo migliore possibile. Era una gran donna. E poi sapeva anche cucinare. Nel weekend andavo da loro al mattino e facevamo colazione. La cucina era il suo regno. Preparava uova e bacon, biscotti, un sacco di roba buona».

Tutta quell’esperienza mostrò a Griffin cosa significava vivere in una famiglia, e avrebbe custodito quel ricordo nel suo cuore negli anni a venire.

«Per me,» dice «era come essere a casa».