Di sicuro a Kobe Bryant piaceva da matti attirare l’attenzione su di sé, solo che poi non gli passava neanche per la testa di restituirla.
La sua prestazione all’Abcd Camp scatenò un fuoco di fila di telefonate e tentativi di reclutamento da parte di numerosi allenatori di college, all’inizio del suo ultimo anno di high school. A molti di loro, però, Bryant non rispose nemmeno.
Robby Schwartz, suo compagno di squadra alla Lower Merion, si ricorda che Kobe passò a ritirare le lettere di invito presso la segreteria della scuola, per poi liquidarle con un’aria di disprezzo. «Ci disse: “Guardate qui”. Gettò le lettere sul tavolo, venivano da Duke, North Carolina, Georgetown. Le raccolsi io. Ci saranno state una cinquantina di lettere di reclutamento».
Gli avevano fissato un appuntamento in Kentucky, con coach Rick Pitino. «Dovetti andarci da solo, in Kentucky» ricorda il suo coach delle superiori, Gregg Downer. «Lui non venne. Dal momento che provavo grande rispetto per Pitino, ci andai io. Credo che Pitino si augurasse che fossi il gancio per arrivare a Kobe, e gli sarà sembrato strano che Kobe non era con me».
Il suo preferito continuava a essere l’allenatore di Duke, Mike Krzyzewski, che aveva vinto due titoli consecutivi nel 1991 e 1992. Bryant era rimasto colpito dal lavoro che il coach dei Blue Devils aveva fatto su Grant Hill. Ogni volta che Coach K lo chiamava, parlavano poco di basket e molto di tutto il resto, specialmente dell’Italia. Krzyzewski sapeva che Joe avrebbe tentato di portare Kobe a La Salle, così conservò un approccio leggero e gradevole, perché comprendeva bene le pressioni a cui era sottoposto Bryant. Grazie alla sua innata capacità di immaginazione, ogni tanto Bryant si metteva a fantasticare su come sarebbe stato giocare al Cameron Indoor Stadium di Duke, davanti alla sua famigerata tifoseria di pazzi scatenati.
Anche Villanova lo intrigava. Kerry Kittles e Eric Ebertz erano in uscita, il che voleva dire che Bryant avrebbe avuto la squadra praticamente a sua disposizione. Inoltre, era in ottimi rapporti con il viceallenatore di Villanova, Paul Hewitt. Tim Thomas stava valutando la possibilità di andarci a giocare, e insieme avrebbero formato una bella accoppiata.
Un altro assistente allenatore da cui era favorevolmente colpito era Scott Perry di Michigan, che aveva seguito molto da vicino i suoi progressi estivi. Kevin Garnett, che aveva sollevato molte perplessità quella primavera passando direttamente dalla high school alla Nba, per timore di non riuscire a superare l’esame di ammissione al college, aveva detto che la sua preferita sarebbe stata Michigan, e Bryant comprendeva le sue motivazioni.
A Bryant piaceva anche la University of Arizona, perché aveva fatto amicizia con Stephen Jackson al McDonald’s All-American Game, e Jackson aveva scelto di andare proprio là, come del resto Mike Bibby. Bryant una volta accennò al fatto che gli sarebbe piaciuto diventare un Wildcat.
«Sì, come no» aveva risposto Bibby.
Il tentativo di reclutamento più pressante però se lo trovava ogni giorno a casa, anche se avveniva di rado in modo esplicito. Suo padre era stato assunto da La Salle per aiutare coach Speedy Morris a migliorare il tasso di talento della squadra. Morris era riuscito a vincere la conference e a guadagnarsi l’ammissione al torneo finale della Ncaa per diverse stagioni consecutive, ma negli ultimi anni le vittorie stentavano un po’ ad arrivare.
Durante l’anno da junior di Kobe alla Lower Merion, Joe stava cercando di reclutare il lungo della Roman Catholic High, Lari Ketner. Organizzava dunque diverse partite improvvisate coinvolgendo Ketner, Kobe e alcuni ragazzi che già giocavano a La Salle. Kobe si divertiva a lanciare lob a Ketner e a battere i titolari della squadra universitaria, e i ragazzi di La Salle sembravano genuinamente eccitati all’idea di aggiungere al roster sia Ketner che Kobe.
Kobe però aveva assistito a diverse partite di La Salle nel corso delle ultime stagioni e non gli piaceva per niente il modo di allenare di Speedy Morris, che gli sembrava la versione di Philadelphia di Bobby Knight. A Bryant sembrava che urlasse troppo.
Alla fine Kobe disse a suo padre: «Tu non c’entri niente. È che non mi piace il modo di allenare di Speedy Morris».
Suo padre rispose che non aveva problemi e rispettava la sua decisione. Da quel momento, però, cominciò a cercare il modo di farsi assumere come capoallenatore la stagione successiva, dando per scontato che Morris sarebbe stato esonerato dopo l’ennesima stagione deludente. In seguito lo confessò apertamente sia a Sonny Vaccaro che al vecchio amico Vontez Simpson.
Qualsiasi consigliere assennato avrebbe fatto notare a Joe che Morris aveva vinto più di seicento partite di college in carriera, e che il suo bilancio complessivo a La Salle era comunque un ottimo 177-95. Le ultime tre formazioni si erano tenute attorno al 50% di vittorie, ma in precedenza Morris aveva superato le venti vittorie per sei stagioni consecutive.
In risposta al corteggiamento pressante di Joe, Ketner aveva dichiarato che si sarebbe aggregato ufficialmente agli Explorers non appena Kobe avesse fatto altrettanto.
Il progetto di Joe era che, una volta diventato capoallenatore, grazie alla presenza di Kobe avrebbe attirato nella sua rete anche Tim Thomas, Jermaine O’Neal, Lester Earl, Richard Hamilton, Shaheen Holloway e Donnie Carr, tutti giocatori con cui la famiglia Bryant era in ottimi rapporti. Questo avrebbe trasformato La Salle in un programma di altissimo livello. Kobe pensava che avrebbero potuto essere addirittura meglio dei famosi Fab Five di Michigan. A quanto pare, la scuola prese davvero in considerazione l’idea di ingaggiare Joe nel corso della stagione 1995-96, quando la squadra guidata da Morris perse molte partite.
La prima verifica era fissata per il mese di novembre del 1995, quando Kobe avrebbe potuto dichiarare in anticipo le sue intenzioni. Kobe però continuava a nutrire dei dubbi. Il fatto che Kevin Garnett l’estate precedente fosse approdato nella Nba, senza passare per il college, lo aveva spinto a pensare che anche lui sarebbe stato in grado di fare direttamente il salto nei pro. Di conseguenza, in quel mese di novembre, era profondamente combattuto sulla decisione da prendere, il che teneva tutti in sospeso mentre la stagione di high school era ormai sul punto di cominciare.
MISSIONE SEGRETA
Gary Charles e Sonny Vaccaro non erano proprio la coppia ideale per portare a termine una missione segreta. Charles si vestiva in modo piuttosto appariscente, mentre Vaccaro era una faccia nota e amava chiacchierare con tutti. Negli anni in cui organizzava il suo all-star game per liceali, a Pittsburgh, pare riuscisse a conversare in contemporanea con una decina di allenatori diversi nella hall di un hotel.
Nell’autunno del 1995, però, furono proprio quei due a tentare in gran segreto di mettere Kobe Bryant sotto contratto con Adidas. Vaccaro era stato accusato più volte nel corso degli anni di aver concluso accordi sottobanco, ma niente era paragonabile al futuro contratto di Kobe Bryant, avrebbe raccontato lo stesso Vaccaro circa vent’anni dopo. «Per quanto mi riguarda, è stata la mossa più clandestina che abbia mai fatto».
In verità, avrebbe ammesso Vaccaro, nessuno nel 1994 o 1995 pensava davvero che Bryant potesse fare il salto nei pro. Di conseguenza, a nessuno era venuto in mente di usare un grosso contratto di sponsorizzazione per convincere un giocatore così giovane a saltare il college per passare alla Nba. Non era mai successo prima.
Certo, girava voce che Bryant ci stesse pensando, ma tutti erano convinti che fossero solo le sparate di un ragazzino arrogante.
«Era la prima volta che un giocatore delle superiori si trovava al centro di un evento di tale portata» racconta Vaccaro.
Il passaggio diretto di Garnett dalla scuola ai pro, nel giugno del 1995, sembrava un episodio isolato e non aveva suscitato grande interesse da parte degli esperti di marketing sportivo: aveva portato solo alla firma di un contratto di sponsorizzazione legato alle scarpe di importanza relativa. La mossa di Garnett aveva spinto però Vaccaro a prendere ancora più sul serio l’idea di cercare la prossima superstar tra i ragazzi delle high school. Poi, in quel mese di luglio, era arrivato Bryant con la sua prestazione spettacolare al camp dell’Adidas.
«Quest’anno sono io il migliore» si era vantato Bryant con Vaccaro dopo aver conquistato il titolo di Mvp. «E sarò anche il migliore fra i pro» aggiunse.
Quel commento aveva cementato una volta per tutte l’idea nella testa del guru delle calzature. Sì, Bryant l’avrebbe fatto davvero, pensò Vaccaro. Sarebbe diventato un professionista.
Le parole di Bryant lo spinsero a intensificare gli sforzi per riuscire a metterlo sotto contratto. «Avevo giusto bisogno di qualcosa che mi desse l’incoraggiamento finale».
Senza contare che il famoso quid di Bryant diventava sempre più evidente ai suoi occhi, ogni volta che lo guardava. «Sembrava che tutto ruotasse attorno a quel ragazzo» spiega Vaccaro. «Viveva circondato da una specie di aura. Era una cosa incredibile».
Vaccaro sapeva che, se si fosse trasferito a Philadelphia e avesse cominciato a farsi vedere alle partite della Lower Merion, avrebbe scatenato un putiferio e la Nike avrebbe scoperto il suo piano. Eppure gli serviva un modo per avvicinarsi al ragazzo. Convinse allora l’Adidas a investire 75.000 dollari per consentirgli di traslocare dalla West Coast in un elegante appartamento di Manhattan.
A quel punto Vaccaro cominciò a servirsi di Gary Charles, che in passato aveva allenato la formazione dei Long Island Panthers nella Aau, per fare da intermediario con i Bryant. «Fu Gary a mettermi in contatto diretto con la famiglia» racconta Vaccaro. «Fu lui a fare da tramite».
Vaccaro non poteva presenziare alle partite di Kobe, ma Gary Charles sì, perché era amico di Joe Bryant. Si erano conosciuti quando Joe, in qualità di assistente allenatore a La Salle, stava seguendo uno dei giocatori di Aau allenati da Charles. «Instaurammo un rapporto» spiega Charles. «Lui veniva a vederci giocare, poi mi chiedeva di andare a vedere suo figlio, così al termine della mia partita ci spostavamo a vedere quella di Kobe. Più lo vedevo giocare, più ne rimanevo affascinato. E poi a me piaceva la personalità di Joe. Scherzava un sacco, sorrideva sempre, diceva sempre la cosa giusta. Era un tipo molto affabile, molto gradevole».
Non furono solo le doti tecniche di Kobe a far colpo su Charles, ma anche la sua assurda sicurezza. «Dicevo a tutti che Kobe era probabilmente il primo assassino non silenzioso che avessi mai visto» ricorda Charles. «Si sa, di solito gli assassini non si sprecano in chiacchiere. Lui invece te lo diceva in faccia che stava per ammazzarti, e tu non ci potevi fare nulla.
«Molti ragazzi della sua età credevano poco in sé stessi, non ci credevano ancora, perlomeno. Non basta essere bravi: devi sapere di essere bravo. Kobe ci credeva. Anzi, non aveva il minimo dubbio al riguardo. Ti diceva in faccia: “Diventerò il migliore”».
Charles aveva collaborato con Vaccaro all’operazione Felipe López, ma aveva notato che a López non importava granché se la sua squadra vinceva o perdeva. «Avevo molti dubbi su López» ricorda Charles. «Non bruciava del fuoco giusto».
Qualcuno, però, dubitava anche di Kobe Bryant. Era così arrogante da risultare perfino esagerato, ricorda Michael Harris, proprietario della Best Sports Consultant, un’azienda affermata di marketing sportivo. Eppure a Harris, che da giovane aveva giocato a basket al college, non sfuggiva il grande lavoro di Bryant né la sua dedizione totale al gioco. «Non lo presi sul serio» ammette. «Pensai che fosse un po’ sopra le righe».
La sfacciataggine di Bryant, però, abbinata al suo talento debordante, cominciava a fare colpo sulle persone giuste. Nel giro di due estati, era riuscito a cancellare tutte le perplessità sul suo talento. E le conversazioni tra Charles e Joe si fecero più fitte.
«Ovviamente Joe sapeva che ero un consulente di Adidas» ricorda Charles.
Un giorno Joe accennò a Charles che Kobe stava pensando di passare pro subito dopo le superiori.
«Che cosa?» rispose Charles.
«Proprio così» disse Joe.
«Bisogna stare attenti e fare le cose nel modo giusto» lo avvertì Charles, aggiungendo che la mossa avrebbe comportato rischi notevoli. Passando pro troppo presto, Bryant poteva mettersi nei guai e distruggere il suo promettente futuro, specialmente nella Nba degli anni Novanta. Era uno sport riservato agli uomini più duri. Quella chiacchierata diede a Charles il gancio per esporre a Joe il piano di Vaccaro.
«Che ne diresti di un accordo di sponsorizzazione sulle scarpe? Sarebbe una garanzia di guadagno immediato» suggerì Charles.
Joe abboccò subito all’amo. La fiducia che riponeva in suo figlio era pari a quella dello stesso Kobe. Chissà, magari erano stati proprio gli sforzi di Joe per rafforzare l’autostima del figlio a rendere possibile quel momento. E non era certo un dettaglio secondario che gli uomini che stavano offrendo a Kobe l’opportunità con Adidas fossero gli stessi che avevano concluso l’accordo Air Jordan per la Nike.
«Parliamone meglio» replicò Joe.
«Fu a questo punto che gli raccontai di Adidas e tutto il resto» ricorda Charles. «Mi guardai bene dallo spingere in una direzione o nell’altra. Non credevo che potesse accadere sul serio, ma poi Joe se ne uscì con una frase».
«Mi piace» disse Joe a Charles. «Lascia che ne parli a Kobe e a mia moglie».
«Fu così che si mise in moto tutto quanto» ricorda Charles.
Dall’esterno, l’avvenimento più importante dell’ultimo anno di scuola di Bryant era la vittoria nel campionato statale della Pennsylvania. In realtà, dietro le quinte si stavano svolgendo delicate contrattazioni per assicurargli uno sponsor che avrebbe consentito al giovane campione di passare direttamente dalla high school alla Nba.
La situazione presentava grandi rischi anche per Vaccaro, che un tempo aveva incoraggiato una Nike ancora acerba a rischiare l’intero budget a sua disposizione per fare del ventunenne Jordan una stella del marketing. Ora stava per convincere Adidas America a investire in modo pesante su un ragazzo di appena diciassette anni, una guardia perdipiù.
«Quando lo mettemmo sotto contratto, il mondo intero sapeva chi era Michael» afferma Vaccaro. «Nessuno invece sapeva chi fosse Kobe quando concludemmo l’accordo con Adidas. Era una scommessa molto più grande».
Quando la Nike puntò su Jordan nel 1984, Vaccaro aveva già collaborato con diversi allenatori di college e aveva fatto guadagnare milioni di dollari all’azienda, il che rendeva più lieve il rischio. Nel 1994-95 Vaccaro stava appena cominciando a lavorare per far crescere il portafoglio clienti di Adidas, ma non c’era ancora stato il tempo di costruire una base di profitti simile a quella della Nike.
«Adidas America era molto più piccola di Nike» racconta Vaccaro. «Se avessimo fatto fiasco con Kobe, avremmo probabilmente chiuso baracca e burattini almeno fino al ’99».
Vaccaro, che era stato licenziato dalla Nike, stava rischiando di nuovo il posto di lavoro, ma il potenziale ritorno dell’operazione rendeva accettabile l’azzardo. Un talento giovane e cristallino come quello di Kobe poteva riscuotere un successo clamoroso e regalare una bella fetta del mercato all’Adidas, a scapito di Nike. Il mercato delle calzature aveva bisogno di una giovane star per attirare la nuova generazione di giocatori e tifosi, e Vaccaro voleva a tutti i costi consegnare quella star all’Adidas.
Anche Peter Moore era passato all’Adidas dopo la fuoriuscita da Nike, e rivestiva ora il ruolo di amministratore delegato. La prima volta in cui Vaccaro gli aveva parlato di Bryant, nell’estate del 1995, gli aveva risposto: «Stai pensando di ingaggiare un diciassettenne?».
Sulla scia del successo di Jordan, però, le aziende di calzature e abbigliamento sportivo trattavano il basket alla stregua del tennis e del golf, dove i campioni erano sfruttati a livello commerciale e scelti a un’età sempre inferiore. Visto che le aziende cominciavano a puntare su giovani atleti con il potenziale per diventare star, i giocatori erano incoraggiati a passare al professionismo molto prima che in passato. Quel processo era in atto già da tempo nel basket europeo. Il piano di Vaccaro era di esportare quel trend anche nel basket americano. Dopotutto, questo avrebbe consentito ai migliori di cominciare a guadagnare prima, allungando una carriera che rimaneva relativamente breve.
E, nota a margine, avrebbe consentito a Adidas di vendere una montagna di scarpe.
La strategia aveva come effetto secondario quello di consentire a Vaccaro di mettere a segno qualche punto nei confronti dei suoi due avversari principali, la Nike e la Ncaa. Vaccaro, come del resto un numero sempre maggiore di addetti ai lavori, accusava di sfruttamento l’organizzazione che controllava i campionati sportivi universitari, dal momento che la Ncaa guadagnava centinaia di milioni di dollari sulle spalle di giovani dilettanti di talento che in cambio non ricevevano alcun compenso, a parte le borse di studio.
La chiave per ottenere tutto questo, pensò astutamente Vaccaro, era tenere segrete le negoziazioni con i Bryant e magari strappare un compenso extra per la famiglia di Kobe, che si trovava piuttosto alle strette, finanziariamente parlando.
«Avevano grossi problemi di soldi» ricorda Vaccaro. «I risparmi di Joe si erano quasi prosciugati».
PARTITELLE
Nell’autunno del 1995, Shaun Powell, che seguiva da anni il basket pro, era un editorialista di «Newsday» a New York. Nel mese di ottobre, Powell stava chiacchierando al training camp dei New Jersey Nets con Rick Mahorn, ala grande dei Nets, quando Mahorn gli parlò di un ragazzino che aveva visto quell’estate. La Nba attraversava un periodo di lockout per l’ennesima controversia sul contratto collettivo, e Mahorn si era allenato a Philadelphia insieme ad altri pro, tra cui parecchi giocatori della sua ex squadra, i Philadelphia 76ers. Giocavano partitelle improvvisate, poi facevano pesi per prepararsi alla stagione in attesa che finisse il lockout. Quel ragazzino aveva giocato veramente bene. Così bene, in effetti, che ogni volta che i giocatori più esperti sceglievano a turno i componenti delle squadre, il ragazzino non era mai l’ultimo a essere scelto.
Mahorn gli disse che si trattava del figlio di Jellybean. Powell dovette fare uno sforzo di memoria per ricordare chi fosse Joe Bryant. La storia sembrava interessante, così la archiviò come idea da proporre al giornale.
Anche mentre quei due ne parlavano, la leggenda dell’estate di Kobe Bryant continuava a crescere, passando di bocca in bocca nel passaparola del basket di Philadelphia. Gran parte delle voci erano alimentate dallo stesso Bryant e da suo padre.
Donnie Carr drizzò le orecchie quando quelle voci arrivarono fino a lui. «Si allenava con Derrick Coleman e altri tizi, come Vernon Maxwell» ricorda Carr. «Si sentivano di continuo racconti del tipo: “Ehi ragazzi, Kobe li sta facendo sudare”».
Carr chiese notizie direttamente a Kobe.
«Don» gli disse Kobe. «Stammi a sentire, se ti capita l’occasione di giocare con quelli là, non avere paura. Gioca e basta. Resterai sorpreso. Abboccano alle stesse finte che funzionano con i ragazzi delle high school».
«Dici davvero?» rispose Carr.
«Ma certo» si vantò Kobe. «Ci cascano tutti, amico. Tu gioca e basta. Non devi fare altro».
Al suo ritorno dal torneo Adidas a Las Vegas, Kobe era stato invitato dall’allenatore dei Sixers, John Lucas, a fare due tiri con la squadra. Kobe arrivò in palestra e scoprì che Lucas aveva in mente qualcosa di speciale.
«Venne da me» raccontò Kobe in seguito «e mi disse: “Kobe, ho una sorpresa per te”. Mi girai e dalla porta entrò Jerry Stackhouse. Giocammo uno contro uno. Fu molto divertente».
Di lì a poco, cominciò a girare la voce che Bryant avesse umiliato Stackhouse in una sfida uno contro uno, al punto da costringere John Lucas a intervenire. La storia cominciò a vivere di vita propria, e Stackhouse dovette smentirla più volte nel corso degli anni. Man mano che racconti del genere si diffondevano, sembrava sempre più che Kobe fosse in grado di dominare contro giocatori professionisti. In realtà non si era arrivati a tanto. Nessuno venne «ucciso» da Kobe quell’estate, nella palestra di St Joseph, ma di sicuro il gioco di Bryant metteva pressione sui professionisti presenti. Era soltanto un ragazzino delle superiori, ma si faceva rispettare.
Tra i testimoni di quei fatti c’era Mo Howard, che era stato assunto da Lucas, suo ex compagno di squadra a Maryland, per presenziare in modo informale alle sedute di allenamento, dal momento che il regolamento Nba vietava la partecipazione ai membri dello staff. Lucas, che aveva una figlia iscritta alla Lower Merion e conosceva la famiglia Bryant, disse a Howard che Kobe avrebbe preso parte agli allenamenti, ad alcuni dei quali partecipò anche Emory Dabney, discreto playmaker della Lower Merion, iscritto al secondo anno. Howard ricorda che Bryant era impaziente di confrontarsi con i professionisti.
«Fu allora che capii» ricorda Howard. «Ci allenavamo due volte al giorno. Cominciavamo alle dieci di mattina. Kobe era lì dalle otto. Finivamo circa a mezzogiorno e dieci, Kobe si fermava fino alle due. Ritornavamo per le sette di sera, Kobe era lì dalle cinque. Chiudevamo alle nove, lui restava fino alle undici, ogni giorno. Nessun pro faceva niente del genere».
Howard non sentì una parola di trash talking da parte di Bryant per tutto quel tempo.
Mahorn, che era stato il cuore dei famosi «Bad Boys» di Detroit ai tempi del primo titolo, andò da Howard e gli chiese: «Chi è quel ragazzino?».
Maurice Cheeks, un allenatore che in teoria non doveva nemmeno essere lì, domandò a sua volta: «Da dove arriva?».
«Lower Merion» rispose Howard.
«In che college va adesso?» chiese Cheeks.
«Gioca alla Lower Merion» disse Howard. «Deve fare l’ultimo anno di high school».
«Cheeks rimase a bocca aperta» rammenta ridacchiando Mo Howard.
L’ala dei Lakers Eddie Jones cominciò a fermarsi per lavorare con Bryant al termine di quelle sessioni estive. «Kobe» racconta Howard «era come una spugna. Se voleva sapere qualcosa, veniva dritto a chiederlo. Andava da Eddie e gli diceva: “Mostrami come fai questo, o come fai quello”. Eddie lo prese sotto la sua ala, gli fece da mentore».
Jones conosceva Kobe da più di un anno, a quel punto. In seguito, quando Kobe sbarcò nella Nba e prese il posto di Jones, Howard ripensò più volte all’altruismo e alla generosità dimostrata da Jones nell’aiutare il ragazzo a migliorare.
Perfino a quel tempo, era ovvio che il giovanissimo Bryant costituisse una sottile minaccia per tutti i pro che gli giravano attorno.
«Chiunque lo marcasse ne era perfettamente consapevole» ricorda Howard. «E vi dico, il più frustrato di tutti era Jerry Stackhouse. Kobe lo torchiava tutti i giorni. Se Jerry Stackhouse era la scelta numero due del draft, Kobe doveva essere la numero due A».
«Mi sono trovato benissimo quest’estate con quei ragazzi» spiegò poi Bryant a «Newsday» in autunno. «Non avevo i crampi allo stomaco, proprio per niente. Non mi sono mai sentito in soggezione. Andavo al ferro, segnavo in sospensione, facevo canestro, magari non a volontà ma, insomma, ne mettevo un bel po’. Creavo gioco per i miei compagni e andavo a rimbalzo. E gli altri mi rispettavano, e quando ti rispettano vuol dire già qualcosa».
Tony DiLeo, dirigente e scout dei Sixers di allora, ebbe modo di assistere a diverse sedute. Aveva conosciuto Kobe nel corso della stagione precedente, quando Joe lo aveva portato allo Spectrum a vedere per la prima volta Michael Jordan in occasione di una partita tra Sixers e Bulls. «Era un ragazzo tranquillo» ricorda DiLeo.
Come prevedibile, le prove estive di Kobe con i professionisti avevano esiti alterni, afferma DiLeo. «Ma riusciva comunque a dire la sua. Voglio dire, per essere un ragazzino che stava entrando allora all’ultimo anno di high school, se la cavava piuttosto bene. Era atletico e aveva una buona tecnica. Dopo una partita, Stackhouse e Kobe cominciarono a giocare uno contro uno, e Kobe stava andando fin troppo bene, al punto che John Lucas dovette mettersi in mezzo e fermare la partita».
Anche Sam Rines andò più volte ad assistere. «Una volta mi trovavo lì,» ricorda il coach di Aau «e c’era Vernon Maxwell che giocava contro Kobe. Lasciate che ve lo dica, Maxwell lo stava facendo a pezzi e continuava a provocarlo. Gliene diceva di tutti i colori, tipo: “Non puoi fermarmi, ragazzino”. Tutto quello che vi potete immaginare. E la cosa folle è che Vernon era uscito la sera prima. Lo avevo incontrato in un night, ben oltre le due o le tre del mattino. Il mattino seguente si alzò presto e andò in palestra a distruggere Kobe».
Naturalmente Bryant non era affatto contento di farsi sopraffare da Maxwell, afferma Rines. «Non la prese per niente bene, ma meritava tutto il rispetto possibile perché giocava con un’intensità mai vista. In quel momento capii che sarebbe diventato un professionista. Il giorno dopo si presentò di nuovo e fece a pezzi Eddie Jones, che giocava nei Lakers. Questo nel cinque contro cinque. Distrusse Eddie Jones e diede grossi problemi anche a Stackhouse».
Nel corso di una partita, Kobe si trovò ad affrontare il veterano Willie Burton, che nella stagione Nba precedente era riuscito a segnare addirittura 53 punti in una partita. Secondo diverse testimonianze, Burton segnò in faccia a Kobe e subito dopo gli rivolse qualche insulto. Il ragazzo rispose segnando dieci punti consecutivi, permettendo nel frattempo a Burton di fare un solo canestro. Il veterano uscì infuriato dalla palestra e non fece più ritorno. La stagione successiva andò a giocare in Europa.
Secondo Howard, Joe non venne mai a veder giocare il figlio in estate, anche se a Howard avrebbe fatto molto piacere riabbracciare il vecchio amico. Lo incontrò finalmente in novembre, a una partita dei Sixers allo Spectrum.
«Qualcuno ti ha mai accennato alla possibilità che Kobe vada nei pro?» chiese Howard all’amico.
Joe rispose di sì. Qualcuno l’aveva fatto.
«Joey,» gli disse Howard «se ci può andare, mandalo. Lascialo andare».
«Dici davvero, Mo?» chiese Joe.
«Bean, il tuo ragazzo quelli li stende» rispose Howard. «Li stende tutti».
Con le mille versioni che girano su quelle partitelle estive, e con i testimoni oculari che ricostruiscono i fatti in modo diverso, è difficile trarre conclusioni definitive sulla prima esperienza di Bryant in campo con i professionisti – fatta eccezione per l’unica impressione che conta davvero, quella cioè del diretto interessato. Kobe ne uscì convinto di potercela fare, di poter competere fin da subito con i giocatori della Nba.
E Bryant non era il solo a pensarla in quel modo. Ora anche Sam Rines lo guardava con occhi diversi. Verso la fine dell’estate, Rines aveva compreso che il ragazzo era cresciuto fino a raggiungere un altro livello, non solo rispetto a quello che lui poteva insegnargli, ma anche rispetto a tutto il contesto del basket giovanile. Aveva sentito le voci che volevano Bryant già con la testa al basket pro, ma ormai il coach non le considerava più campate in aria.
«Arrivai a guardarlo in un altro modo soltanto nell’estate precedente al suo ultimo anno di scuola, quando capii che sarebbe diventato fortissimo» ricorda Rines. «A quel punto non restava che sedersi e godersi lo spettacolo. A volte, che so, si lanciava la palla da solo al tabellone. Ma non erano solo le qualità atletiche. Il suo gioco dalla media distanza era diventato incredibile. Con il palleggio, arresto e tiro, adesso tirava sopra la testa della gente. Era più forte, più atletico. Quel ragazzo un po’ magrolino che sapeva solo tirare e schiacciare, era diventato un giocatore in grado di segnare in faccia a chiunque».
Osservando Kobe giocare, quell’estate, Rines tornò con la memoria al periodo in cui guardava le partite di Joe nella Baker League. «Lo stile di Joe e quello di Kobe erano un po’ diversi» racconta. «Quando guardavo giocare Joe ero sbalordito. Mi sembrava che volasse per il campo, segnando a ripetizione, sfoggiando tutto il proprio repertorio. Kobe era molto più cerebrale del padre. Joe era più naturale, più morbido e snodato. C’era una certa somiglianza tra loro, ma non credo si possa dire che Kobe abbia modellato il proprio stile su quello del padre».
Sia Joe che Kobe dissero a Jeremy Treatman che Kobe stava valutando l’ipotesi di saltare del tutto il college. Una mattina d’agosto, Joe era andato da Kobe in cucina e gli aveva detto: «Forse sei già pronto per la Nba».
«John Lucas stava dicendo a tutti: “Quello è un bad boy”» ricorda Treatman. In seguito, Eddie Jones si espresse alla stessa maniera, dicendo a Treatman: «Quel ragazzo è una carogna».
Malgrado la recente esperienza di Kobe con i pro, la comunità cestistica di Philadelphia non sapeva dell’immenso lavoro che Kobe aveva svolto in aggiunta ai tornei e agli allenamenti, né delle lunghe ore passate a guardare e riguardare filmati di basket. Nessuno immaginava che un ragazzo così giovane e privilegiato potesse impegnarsi con tale determinazione. Joe Bryant era considerato un uomo ricco, a Philadelphia, e tutti davano per scontato che i figli dei ricchi non fossero disposti a spaccarsi la schiena, ma che si aspettassero che tutto fosse loro dovuto.
Benché continuassero a circolare voci sui suoi progressi in campo, i tifosi, gli allenatori e i giocatori del posto guardavano Kobe Bryant con un leggero disprezzo, perché era un ragazzo cresciuto nei sobborghi residenziali. Pensavano che non fosse poi così forte, che si trattasse di un fenomeno costruito a tavolino dal padre grazie alla sua rete di amicizie influenti.
«Non credo che Joe lo abbia viziato» ricorda Rines. «Credo solo che gli abbia reso le cose più facili. Joe gli semplificava la vita perché era convinto che se ti impegni a fare il tuo dovere, i risultati prima o poi arrivano. E quando Kobe non era contento di qualcosa, Joe riusciva a fargli cambiare idea ogni volta. Kobe non voleva giocare il torneo Sonny Hill Future Stars con la squadra di Sonny, ma Joe lo convinse a giocare. Dopo ogni partita, Kobe diceva: “Che schifo”».
«Senza Joe, Kobe non sarebbe diventato Kobe» chiosa Rines. Eppure, aggiunge, tutto il merito del lavoro di quegli anni spetta a Kobe. Osservando il dipanarsi dell’intera vicenda, Rines è giunto a questa conclusione.
«Kobe è un genio del basket» spiega il coach della Aau. «Credo che abbia lavorato così tanto da arrivare alla perfezione. Credo anche che nessuno abbia studiato il gioco quanto lui».
Lo sapeva anche Donnie Carr, sebbene a quei tempi non volesse ammetterlo. «Era letteralmente affamato di basket, per farvi capire con che grinta giocava, con quanto cuore e quanta cattiveria» racconta Carr. «Cercava sempre di migliorare, al punto di escludere dalla propria vita tutto e tutti. Aveva una visione, una meta prefissata nella sua testa, ed era tutto ciò che gli importava, nient’altro. Giocava ogni partita come se fosse l’ultima, ogni allenamento come se fosse l’ultimo. La sua volontà superava quella di chiunque altro. La sua determinazione non conosceva uguali».
Più tardi, nel corso dell’estate, dopo essersi abituato a lavorare con i pro, Bryant guidò una squadra della Delaware Valley a un sorprendente titolo nella divisione scolastica dei Keystone State Games, con una media di 38 punti a partita. Gregg Downer allenava la squadra di Philadelphia, che Kobe superò in finale segnando 47 punti e portandosi a casa l’ennesimo trofeo di Mvp.
La sua autostima continuava a crescere, per quanto impossibile potesse sembrare. Quel ragazzino cresciuto in Italia, guardando giocare suo padre e seguendolo in trasferta sul pullman della squadra, quello che asciugava il sudore dal pavimento durante le partite, vedeva avvicinarsi sempre di più il suo grande momento.