15. Tutti insieme

Un ragazzo altissimo, molto magro e leggermente curvo scivolò dietro il volante del Suv poco dopo le 4.30, accese il motore e le luci di posizione, uscì dal parcheggio e si avviò per Reservation Road in una buia mattinata punteggiata di lampioni sonnacchiosi, con una spruzzata di nebbia e una tenue traccia di alba che si affacciava all’orizzonte. Aveva giusto il tempo di passare a prendere due compagni più giovani prima di dirigersi alla Lower Merion, dove alle cinque in punto il custode avrebbe aperto la palestra apposta per loro.

Dopo un breve riscaldamento, i tre si dedicavano a qualche esercizio. In linea di massima, il ragazzo alto tirava e gli altri due prendevano il rimbalzo.

«Era una cosa da pazzi» afferma uno dei compagni, Robby Schwartz, ripensandoci a vent’anni di distanza. Schwartz era alto appena 1,62 ed era un anno più piccolo di Kobe Bryant. A spingerlo a collaborare a quella follia mattutina era la speranza di entrare nella squadra della scuola, nonostante il bagaglio tecnico insufficiente. Ma siccome molti giocatori si erano diplomati dopo la deludente esperienza da junior di Kobe, coach Gregg Downer aveva bisogno di facce nuove per ricostruire il roster in vista della stagione 1995-96.

«Tanta volontà e poca qualità», è così che Schwartz si definisce oggi con una risata. «Sapevo che quella sarebbe stata un’annata speciale, ma, non avendo né la statura né il talento, le mie chance erano piuttosto limitate. Voglio dire, ero pronto a buttarmi contro un muro, se qualcuno me lo avesse chiesto. Diciamo che quello era il mio modo per tentare di entrare in squadra».

Schwartz ammirava Bryant perché sembrava sapere esattamente quello che voleva, a differenza degli altri ragazzi della sua età, che non ne avevano la minima idea. A quel tempo Schwartz non era in grado di esprimere questo concetto ma il pensiero di quelle sessioni mattutine gli è tornato spesso in mente nel corso delle tappe successive della sua carriera come personal trainer, professionista di body building e praticante di CrossFit.

«Quando hai quindici, sedici anni, vuoi solo essere accettato» spiega Schwartz. «Hai bisogno di avere degli amici. A lui invece questo non interessava proprio. Non contava niente per lui».

Schwartz ricorda che Bryant, a diciassette anni, aveva già una ferocia spaventosa, e i nuovi arrivati lo guardavano con gli occhi sbarrati. Il compito di illustrare loro la missione che li attendeva ricadeva sulle spalle di un altro senior, Jermaine Griffin, anche lui reduce dalla deprimente conclusione dei playoff del 1995. Subito dopo, Bryant gli aveva promesso: «La prossima volta usciremo dal campo come campioni dello Stato».

Griffin aveva trasmesso quel messaggio – rimarcando l’importanza della nuova stagione – a chiunque fosse anche solo vagamente interessato a entrare in squadra. Tutti conoscevano Bryant. Più o meno. Quel tipo strano che potevi incontrare per i corridoi e nelle aule della Lower Merion, a volte accigliato, a volte sorridente, a volte completamente assorbito dal suo rap. Quando si era presentato a scuola, all’inizio dell’anno, a bordo di un Suv nuovo di zecca, era circondato da un’aura nuova. Si era sparsa in fretta la voce che fosse ormai considerato il giocatore delle high school più forte d’America.

Il solo pensiero di entrare negli Aces metteva pressione ai ragazzi più giovani. «Visto che eravamo tra i favoriti e avevamo in squadra il miglior giocatore del paese, tutti si aspettavano che vincessimo il campionato» ricorda Schwartz.

Le sessioni all’alba suscitavano qualche perplessità nei genitori di Schwartz, che ricordarono al figlio quanto intenso fosse il programma delle giornate, tra lezioni e allenamenti pomeridiani. A volte, però, perfino cinque sessioni a settimana non erano abbastanza.

«La domenica andavamo alla Haverford School a giocare partitelle improvvisate» racconta Schwartz.

«Credo che uno dei motivi per cui la gente non lo apprezza è che non capisce che per diventare il più forte di tutti devi fare cose che possono renderti antipatico. Devi fare molti sacrifici. La gente può pensare che sei arrogante, ma in realtà sei solo concentrato, come se ci fosse una specie di linea fra te e chiunque altro. Tutti mi chiedevano sempre: “Com’era Kobe a scuola? Era già così stronzo?”. No, era solo… sapeva quello che voleva diventare da quando aveva, non so, otto anni».

La personalità di Bryant non era di categoria A, sostiene Schwartz. «Era più di categoria AAA».

LA DRITTA DI BIG RICK

Shaun Powell si decise a seguire la dritta fornitagli da Rick Mahorn proprio all’inizio del campionato di basket scolastico. Chiamò Joe Bryant e gli chiese se fosse possibile fare un salto da New York per assistere a una partita della Lower Merion.

A Joe sembrava un’ottima idea. Diede appuntamento a Powell direttamente al palazzetto e i due guardarono la partita seduti uno accanto all’altro.

«Dopo appena trenta o quaranta secondi di gioco, Joe cominciò a dare di matto con gli arbitri» racconta il cronista di «News­day». «Li insultava e gliene diceva di tutti i colori. Sul momento non diedi peso alla cosa. Neanche cinque minuti dopo, però, arrivò un altro fischio contro Kobe e Joe scattò in piedi, dando ancora in escandescenze».

Che spettacolo indecoroso, pensò Powell. Bryant aveva segnato un paio di canestri in tutto il primo tempo, e il giornalista concluse che la dritta di Mahorn era infondata, e che stava sprecando il proprio tempo.

«Non sembrava neppure il miglior giocatore in campo» ricorda Powell. «Chiunque fosse la guardia dell’altra squadra, sembrava nettamente più in gamba di lui».

Prima del secondo tempo, Powell si alzò e si spostò dall’altra parte della palestra per tenersi a distanza dall’invasato Joe Bryant. A quel punto la situazione cambiò.

«Nel secondo tempo, Kobe impazzì del tutto» ricorda Powell. «Nel primo tempo non aveva fatto altro che passare la palla. So che oggi è difficile crederci, ma è così. Nel primo tempo passava e basta. Nel secondo, cominciò a segnare in ogni modo, anche cadendo all’indietro. Una cosa incredibile».

Rinfrancato, Powell si diresse negli spogliatoi dopo la partita e disse a Bryant che avrebbe scritto un articolo su di lui e che il giorno dopo sarebbe tornato da New York apposta per intervistarlo.

«Vediamoci a scuola» gli disse Bryant.

Il giorno successivo, Powell si presentò alla segreteria della Lower Merion e chiese di Kobe.

«Potrebbe essere in palestra a tirare» suggerì qualcuno.

Powell si fece strada tra i corridoi e scese la lunga scalinata che portava alla palestra, dove trovò Bryant che tirava a canestro, con abiti casual e scarpe eleganti, insieme a un altro studente che gli prendeva i rimbalzi.

Bryant gli fece cenno di avvicinarsi ma era il cambio dell’ora, e una classe cominciò a entrare in palestra. A quel punto, Powell e Bryant si spostarono in corridoio, dove si misero a chiacchierare seduti sul pavimento.

«Rimasi ipnotizzato dalla sua conoscenza del gioco» ammette Powell. «Prima di tutto, stiamo parlando di un ragazzino. Sapevo che suo padre era un ex giocatore, ma Kobe fece un’analisi perfetta della partita della sera prima, di quello che era successo e del perché avesse scelto di non tirare troppo nel primo tempo. Voleva coinvolgere i suoi compagni, innalzare la loro autostima. Nel secondo tempo, però, quando gli era sembrato che stessero per crollare, aveva fatto di testa sua. Aveva continuato a cercare ogni occasione per mettere i compagni in condizione di segnare facili sottomano o comodi tiri da fuori, in modo da togliere loro pressione. I tiri difficili invece se li prendeva tutti lui. Mi raccontò dei suoi inizi in Italia, mi disse anche qualcosa in italiano. Ero sbalordito».

Suonò la campanella, e all’improvviso il corridoio si riempì di studenti che cambiavano classe, inciampando nel giornalista e nella giovane stella seduti sul pavimento. A Powell non interessava. Era deciso a non spezzare l’incantesimo di quell’intervista.

«Kobe mi ringraziò» racconta Powell. «Era stupito che un giornalista di New York fosse andato fino a lì per intervistare lui. C’era qualcosa di innocente nel suo modo di fare».

In autostrada, tornando a casa, Powell cominciò a pensare al modo di convincere gli inflessibili caporedattori di «Newsday» a pubblicare un pezzo su un liceale di Philadelphia.

«Potrebbe essere la superstar del futuro» disse loro una volta tornato a New York.

Il giornale decise di affidargli una doppia pagina sullo speciale della domenica, il primo articolo a tiratura nazionale dedicato a Kobe Bryant.

Al termine di una partita dei Nets, Powell scese negli spogliatoi per ringraziare Mahorn della dritta.

«Amico, te lo dicevo io» rispose l’allegro bruto della Nba. «Non veniva mai scelto per ultimo. E ce n’erano di giocatori in gamba, laggiù. Era a suo agio in mezzo a noi, e se un ragazzino delle high school può giocare insieme a noi, non è uno qualsiasi, puoi starne certo. Quel tipo ha cercato addirittura di schiacciarmi in faccia. Ti rendi conto?».

ULTIMA CHANCE

Prima della seconda partita della stagione, Donnie Carr era sull’orlo dell’esaurimento nervoso. La sua Roman Catholic High stava per incontrare gli Aces di Bryant. Per Carr si trattava dell’ultima occasione per battere il rivale.

«Quella è stata l’ultima volta che io e lui ci siamo affrontati» ricorda Carr. «Non dimenticherò mai l’ansia che ho provato prima di quella partita, perché sapevo che Kobe era diventato il miglior giocatore del paese. Sapevo che ci sarebbe stato il tutto esaurito. Giocavamo alla Drexel University, dove erano rimasti disponibili solo i posti in piedi. Sapevo che c’erano alcuni scout della Nba e parecchi scout di college. Tutti i giornalisti sportivi e tutti quelli che seguivano il basket di high school erano lì. I nostri scontri in passato erano stati epici. Io ero alto 1,92, lui era già attorno ai due metri, allora.

«C’era molto nervosismo nell’aria. Perfino i miei amici sugli spalti si aspettavano che Kobe dominasse me e la partita».

Nei giorni precedenti, Carr aveva detto a sua nonna, a suo fratello e a sua madre quanto ci tenesse a giocare bene quell’ultima sfida.

«Questa è quella che conta davvero» non faceva che ripetere. «Ci saranno proprio tutti. Questa è quella decisiva».

Per molti aspetti, la partita fu ancora più importante di quanto pensava Carr. Per gli appassionati storici del basket di Philadelphia, quella era la sfida tra il fior fiore della «città» e quel ragazzino allevato nella bambagia dei sobborghi che si atteggiava come uno di Philly.

Forse tutta quella pressione giustifica il disastro che seguì. Carr sbagliò i suoi primi quattro tiri. Capì che stava subendo troppo la tensione. «Rilàssati» continuava a ripetersi mentre guardava Bryant, tranquillo nella sua divisa marrone e bianca, con il numero 33, della Lower Merion.

Ad un certo punto, il leggendario coach della Catholic, Dennis Seddon, fu costretto a chiamare un time out.

«Mettine uno e andrà tutto a posto» disse il coach a Carr. «Rilàssati e lascia che la partita venga a te».

Al possesso successivo, Carr prese palla sul lato destro, fece una partenza a strappo e andò a segnare un canestro in corsa a centro area. Fu come il colpo di pistola dello starter.

«Da quel momento, giocai un primo tempo incredibile, segnando 19 dei miei 34 punti» racconta.

Emory Dabney, il play titolare degli Aces, saltò la prima parte della stagione, quindi Bryant era rimasto il solo a controllare il gioco, confidando nella propria capacità di attirare le difese su di sé per procurare tiri aperti ai compagni. Nel secondo tempo, però, il maggiore talento di squadra portò la Roman Catholic in vantaggio di sei punti sugli Aces. Bryant rispose liberandosi facilmente di una serie di marcature doppie e triple e andando a segno per otto possessi consecutivi. Per causa di forza maggiore aveva deciso di affrontare l’avversario da solo. Alla fine segnò 30 punti.

«Giocò in maniera incredibile» racconta Carr. «I miei compagni erano più forti, ma lui continuava a riportare sotto la sua squadra».

«L’impresa era impossibile» ricorda Jeremy Treatman, che in quella stagione era entrato nello staff della Lower Merion come assistente allenatore.

La Catholic vinse di sei.

Al suono della sirena, Bryant andò dritto dal rivale.

«Era inferocito» ricorda Carr. «Quando però ci trovammo faccia a faccia mi abbracciò forte».

«Amico, adoro giocare contro di te» gli disse Bryant.

Poi aggiunse che gli sarebbe piaciuto giocare insieme a Carr al livello superiore, che sarebbe stato qualcosa di davvero speciale.

«Dimostrò grandissima classe» afferma Carr.

«Donnie giocò bene almeno quanto Kobe» racconta Sam Rines. «Ma Kobe sprizzava talento da tutti i pori, e i suoi gesti erano così nitidi da rivelare in pieno la sua grandezza. Faceva sembrare tutto facile. Ed era in grado, senza alcun problema, di fare tutto da solo».

In autunno, mentre il campionato scolastico volgeva al termine, l’intervista di Powell su «Newsday» alimentò le speculazioni della comunità cestistica sulle prossime mosse di Bryant, soprattutto a Philadelphia. Prima di allora, Treatman aveva tentato di convincere l’«Inquirer» a scrivere un pezzo su di lui. La proposta era stata accolta con indifferenza, ma sulla scia dell’articolo di Powell, i giornalisti locali si misero febbrilmente a discutere tutte le voci che circolavano sul futuro di Bryant.

«Kobe ha diverse possibilità» spiegò Joe. «Può fare tutto quello che vuole. La nostra famiglia sosterrà qualsiasi decisione prenderà».

Quando qualcuno gli chiese se avrebbe tentato di dissuadere il figlio, Joe rispose: «Perché dovrei farlo? Se Kobe ritiene di essere pronto, ha la mia benedizione».

Kevin Garnett era partito alla grande nel suo primo mese di basket pro, e i giornalisti chiesero a Kobe se questo potesse influire sulla sua decisione.

«Non sto studiando quello che fa Kevin Garnett» affermò il ragazzo. «Gli auguro ogni bene e spero che faccia meglio del previsto, ma quello che fa lui non ha alcun effetto su di me».

Insistettero per sapere se era davvero deciso a tentare il passaggio nei pro.

«Non posso darvi una risposta, non ora» rispose. «È sempre stato il mio obiettivo, fin dal primo anno di high school. Ho sempre desiderato poter scegliere il momento in cui entrare nella Nba. Mio padre ci ha giocato, ma non è quello il motivo. La mia decisione non ha niente a che vedere con lui».

La stampa, i tifosi, gli allenatori, erano tutti scettici all’idea che Bryant, un filo sotto il metro e novantotto, potesse essere pronto ad affrontare le difficoltà fisiche ed emotive della competizione professionistica. Nel corso dell’ultima, frenetica estate, aveva messo su cinque o sei chili, portando il suo peso attorno a novanta, ma sembrava comunque magro.

«Ho sentito molta gente dire che non sono ancora maturo per la Nba» aveva detto Bryant a Shaun Powell. «Beh, ho visto cose nella mia vita che i ragazzi comuni non hanno mai visto né provato. Sono stato in giro per tutta l’Europa, in Francia, in Germania, ho vissuto in Italia, ho frequentato giocatori professionisti per tutta la vita. Crescendo in questo modo, credo di essere maturato molto più in fretta degli altri ragazzi della mia età».

Gli chiesero quando avrebbe preso una decisione.

«Più avanti nel corso dell’anno» rispose. «Mi fermerò a valutare tutto quello che ho imparato come giocatore. A quel punto deciderò. E se prenderò la decisione di tentare, non cambierò idea».

CANCRO

Alla sconfitta contro la Roman Catholic seguì una roboante batosta per mano della celebre St Anthony High del New Jersey, da ricordare soltanto perché quella sera Bryant superò la soglia dei duemila punti segnati a livello scolastico.

Da lì, gli Aces si diressero a Myrtle Beach, South Carolina, per prendere parte a un torneo estivo di grande richiamo, il Beach Ball Classic, e sfidare squadre che vantavano stelle come Lamar Odom, Lester Earl, Mike Bibby e Jermaine O’Neal.

Per quel viaggio, Downer aveva scelto un diverso assistente per dividere la suite con Bryant, ma Kobe chiese di poter stare con Treatman. Il motivo della richiesta fu presto chiaro. Una delle due camere della suite era più comoda e spaziosa. Treatman vi posò la sua valigia, e Bryant suggerì subito di fare a cambio.

«Il coach sono io» disse Treatman. «Questa stanza in teoria spetterebbe a me».

«Senti,» gli disse Bryant «perché non spostiamo le tue cose di là, e poi mi raggiungi e passi un po’ di tempo qui con Bean?».

Treatman capì che Bryant sapeva che l’altro assistente non avrebbe mai ceduto la camera. «Con me invece fu molto persuasivo».

I due si scambiarono le camere e presto l’assistente scoprì la seconda ragione della richiesta di Kobe. Pam Bryant chiamava spesso, la mattina presto, cercando di tenere sotto controllo le attività del figlio da casa, da Philadelphia.

Tra una telefonata e l’altra della madre, chiamavano anche parecchie ragazze che chiedevano di Kobe, il quale faceva buon uso del suo tempo gironzolando per il villaggio di notte, e dando il numero di stanza a tutte le ragazze carine che incontrava.

«Ha chiamato tua madre» diceva Treatman a Bryant quando a quest’ultimo capitava di passare per la camera. «Le ho detto che stavi dormendo».

«Ok, bene» diceva Bryant. «Grazie».

«In realtà mentivo» ricorda il coach. «Non sapevo cosa fare».

Bryant conosceva bene la natura manipolatrice della madre, osserva Treatman, e ogni volta alzava gli occhi al cielo come avrebbe fatto qualsiasi adolescente.

«[Pam] era esageratamente protettiva nei confronti di Kobe» assicura Treatman. «Era preoccupata. Gli studi. Il sesso. Intendiamoci, ne aveva tutte le ragioni. Suo figlio era il miglior giocatore di high school d’America. Ma sembrava che lei fosse ossessionata dalla volontà di controllarlo, e anche le sorelle erano iperprotettive. Pam era molto severa con lui sui compiti e sulle uscite. Cercavano tutte e tre di tenerlo a casa il più possibile».

Pare che durante il suo ultimo anno di high school, le sorelle e le cugine di Bryant abbiano cospirato per impedirgli di agganciare indiscriminatamente qualsiasi essere di sesso femminile. Bryant aveva una ragazza fissa molto carina, Jocelyn, la cui determinazione negli studi rivaleggiava con quella di Kobe con la palla a spicchi. In un’intervista a «Newsweek», otto anni dopo, Jocelyn avrebbe raccontato che essere la fidanzatina di Kobe, a quell’età, significava passare un sacco di serate a casa dei Bryant a guardare video di basket.

Per essere un atleta così devastante, Kobe aveva dei gusti quasi da nerd, dalla passione per Star Wars a quella per il telefilm Moesha (andava matto per la protagonista, la cantante Brandy Norwood), la cui prima stagione stava riscuotendo allora un grande successo.

Ma in lui c’era anche già tutta l’arroganza di una giovane star. «Credo che sia comprensibile» afferma Treatman. «Dipendeva dalla gente, che lo metteva sempre su un piedistallo».

Treatman aveva preoccupazioni più concrete delle telefonate di mamma Bryant durante il soggiorno a Myrtle Beach. «Ogni volta che mi facevo la doccia, il pavimento si allagava» racconta. «Allora gettavo asciugamani dappertutto. Ero terrorizzato dal pensiero che potesse scivolare, e mi ripetevo: “Assicurati che la stanza sia asciutta. Se Kobe Bryant scivola e si rompe l’osso del collo, se il prossimo Michael Jordan si rovina la carriera per colpa mia, non me lo perdonerò mai. Mi odieranno tutti”».

A posteriori, il punto più alto di quella settimana fu la gara delle schiacciate, in cui Bryant gareggiò con un polso bendato, nonostante le proteste delle sorelle.

«Aveva un polso gonfio e dolorante» ricorda Gregg Downer «e lui diceva: “Oh sì, ho firmato troppi autografi”».

Gli allenatori, la famiglia, dicevano tutti: «Non farlo», ma lui insisteva per partecipare, e a un certo punto arrivò perfino a saltare sopra la testa di due compagni. Al momento dell’atterraggio si girò a fare l’occhiolino a Treatman, seduto lì vicino, mentre la folla esplodeva in un boato.

«Saltò sopra due di noi» ricorda Robby Schwartz. Nessuno in squadra aveva mai visto Bryant tentare qualcosa di simile. Gli allenatori erano sbalorditi.

«In partita schiacciava spesso, e anche in allenamento, ma mai niente di troppo spettacolare, nessun istrionismo» spiega Schwartz.

Bryant si era esercitato a schiacciare in quel modo al riparo da occhi indiscreti.

«Quella gara fu indimenticabile» ricorda Downer. «Voglio dire, la creatività e l’elettrizzante qualità di alcune delle sue schiacciate. Quel ragazzo adora la luce dei riflettori. Non so se esiste un atleta che ami i riflettori quanto lui».

In finale superò agevolmente Lester Earl, altro eccezionale giocatore di high school.

Il torneo, però, si rivelò una sfida più ardua. Gli Aces vinsero la prima partita, battendo la squadra di Jason Collier, stella delle prep school. Nella seconda partita, contro una squadra di Jenks, Oklahoma, la Lower Merion si fece rimontare 18 punti di vantaggio, mentre Bryant uscì per falli nel finale e dovette guardare i compagni perdere il supplementare per 21-2.

«Continuava a ripetere: “Non hanno nessuna autonomia, nessuna cazzo di autonomia”,» ricorda Treatman «che secondo me voleva dire: “Questi senza di me non sono buoni a niente”».

Quella fu una delle rare volte in cui l’assistente allenatore vide Bryant in panchina. «Di solito non restava fuori molto» precisa il coach.

Dopo quella sconfitta il bilancio della squadra era 3-3. Downer allora radunò i ragazzi nella sua camera d’albergo per discutere il cosiddetto «cancro dell’io».

«Si mise a girare per la stanza e a descrivere il ruolo di ciascuno,» ricorda Treatman «e spiegò in che cosa ciascuno di loro dovesse migliorare».

«Kobe» disse Downer, guardando la sua stella. «Devi essere un compagno di squadra migliore. Devi guidare questi ragazzi».

Poi il coach si girò verso il resto della squadra e disse loro: «Voi non avete idea di che cosa significhi essere Kobe Bryant, avere su di sé tutta quella pressione. Quello che sta passando, quello che significa per noi e quello che sta facendo per noi, e quanto lavori duramente. Se voialtri non cominciate a seguire il suo esempio ogni giorno, non vi voglio più in squadra».

Ogni squadra che aspiri a vincere qualcosa deve passare per un momento critico in cui si stabilisce la «gerarchia», come l’avrebbe definita Phil Jackson. Quell’incontro fu il momento critico per la Lower Merion. E Downer cominciava a diventare il coach che in seguito avrebbe portato la Lower Merion a conquistare diversi titoli dello Stato.

«Disse che giocavamo in modo egoistico e non come una vera squadra» ricorda Treatman. «Da allora non perdemmo più. Non perdemmo una partita. Ne vincemmo ventisette di fila».

UN BULLO DI CARTAPESTA

L’alchimia della squadra era nettamente migliorata dopo l’esperienza in South Carolina, ma i momenti drammatici erano tutt’altro che finiti. La gente sembrava intuire che stava per succedere qualcosa di speciale, perché il pubblico cresceva dopo ogni vittoria. In gennaio, poi, Bryant segnò cinquanta punti durante una vittoria netta su Marple Newtown. Una clip video di quella partita sarà utilizzata anni dopo in uno degli spot delle scarpe di Kobe.

«Sai, non eravamo ancora nell’èra di Internet» ricorda Downer. «Non c’erano ancora le email, e nemmeno il camcorder, ma i giornalisti cominciarono a seguirci dappertutto, puntando su di noi telecamere e macchine fotografiche nei corridoi d’albergo e negli spogliatoi. Ci volle un po’ prima che ci facessimo l’abitudine, dal mio punto di vista, ma Kobe era sempre molto disponibile. Alla fine era diventato una specie di rockstar, a essere onesti. Metteva l’autografo sulle sue scarpe e le gettava dal finestrino dell’autobus a qualche ragazzino in adorazione».

Tutta la squadra traeva benefici dalla situazione, ricorda Sch­wartz. «Quei ragazzi avevano una discreta fiducia nei propri mezzi, ma non erano granché aggressivi. Il mix perfetto. Il nostro centro, per esempio, era Brendan Pettit. Non sapeva tirare, però difendeva e prendeva i rimbalzi. Sarà stato, che so, due metri scarsi. Era il classico centrone bianco della squadra. Non voleva mai la palla in attacco, si accontentava di difendere e prendere i rimbalzi. Niente di meglio. L’ala grande era Jermaine Griffin, uno e novantatré, mani terribili, gran rimbalzista, uno che si sbatteva come un demonio. Perfetto. Dan Pangrazio, eccellente tiratore, si appostava sulla linea da tre punti e aspettava che raddoppiassero Kobe, che a quel punto la scaricava su di lui per tentare una tripla. Ancora una volta: l’incastro perfetto. Con quel tipo di giocatori, non avevamo mai il problema che qualcuno dicesse “voglio più tiri”. Piuttosto, pensavamo tutti “i miei tiri arriveranno”, perché gli avversari erano costretti a concentrarsi su Kobe. Era la formula perfetta per una squadra vincente».

Gregg Downer era una specie di clone di Krzyzewski, racconta Schwartz: «Credo che comprendesse molto bene come era fatto Kobe, e il suo approccio era efficace. Non c’era bisogno che gli spiegasse più di tanto cosa doveva fare. Doveva solo gestirne la personalità».

Tutti si erano accorti del carattere ultra suscettibile di Kobe. Come avrebbe ammesso lui stesso in seguito, poteva scattare da un momento all’altro, proprio come sua madre. E quando succedeva, era meglio tenersi alla larga.

Un giorno, appena prima dell’allenamento, fu comunicato alla squadra che la palestra non era disponibile perché un’altra palestra si era allagata e la squadra maschile di basket doveva cedere il posto ad altre squadre.

«Gregg fu costretto ad annullare l’allenamento» ricorda Treatman. «Quattordici ragazzi corsero via tutti eccitati, dandosi il cinque per il cambio di programma. Magari non proprio davanti al coach, ma comunque nel corridoio. Nessuno l’aveva presa male».

Tranne Bryant, ovviamente.

«Cazzate!» gridò, sbattendo il pallone sul pavimento. «Stronzate! Abbiamo allenamento e io voglio allenarmi. Tutto questo è ridicolo!».

«Era furibondo» ricorda Treatman. «E lasciò tutti di stucco».

«Era solo un ragazzino,» spiega Schwartz «ma credo che quando le cose non andavano come voleva lui, usciva fuori una mentalità da prepotente. Non mi piace molto questa parola, ma credo sia la più adatta. Voleva che tutti dessero il meglio, e non si accontentava di nulla meno del massimo. Non voleva mai perdere, non lo sopportava, e se succedeva gli scattava quella voglia non solo di batterti, ma di stroncarti a tal punto che non te lo saresti più dimenticato».

Nessuno avrebbe mai dimenticato quella volta in cui Bryant perse un esercizio in allenamento. Era la prima volta in quattro anni, non aveva mai perso contro i suoi compagni in allenamento, almeno secondo tutti i suoi allenatori.

«Stavamo facendo un esercizio» ricorda Treatman. «Credo fosse un tre contro tre a tutto campo, e stavano lottando punto su punto».

Schwartz e Bryant erano nella stessa squadra, e Bryant era libero per l’ultimo tiro. Il problema è che la palla ce l’aveva Schwartz, che faceva spesso coppia con Bryant negli esercizi e gli lasciava sempre l’ultimo tiro. Ma non questa volta.

«Fintò un passaggio a Kobe, fece un palleggio e si alzò per tirare» racconta Treatman. «Schwartz era letteralmente l’ultimo giocatore della squadra, il quindicesimo».

«Tutti pensavano che la palla sarebbe tornata a lui» ricorda Schwartz. «Così ho fintato il passaggio e il mio difensore si è lanciato su di lui. Io sono andato a canestro e ho sbagliato il sottomano. E l’altra squadra non si fa pregare, prende il rimbalzo e segna. Kobe a quel punto va fuori di testa, dico davvero. Si mette a gridare come un pazzo: “Chi ti credi di essere?”. Avevo sedici anni, ero piccolo e magro, e in quel momento ero terrorizzato. E lui non smetteva di urlare. “Perché hai tirato?”. Io non sapevo che fare. Non sapevo se tenere la bocca chiusa o rispondergli. Ho provato a stare zitto ma lui continuava, non smetteva più».

«Kobe tenne gli occhi puntati su di lui, come due laser, per un’ora e mezza» racconta Treatman. «Lo seguì perfino in bagno, quando andarono a bere. Sembrava che stesse per ucciderlo. E pensavo: “Ma che sta facendo? Mai visto uno stronzo simile. Proprio uno stronzo. Che sarà mai successo?”».

Nessuno degli allenatori cercò di calmare Bryant né disse una parola in proposito.

Alla fine, Schwartz balbettò qualcosa tra i denti, «ok, ora piantala, però» o «sta’ un po’ zitto».

«Non ricordo nemmeno esattamente cosa gli ho detto,» racconta il diretto interessato «ma era tipo: “Ho capito. Abbiamo perso. Ho fatto una cazzata”. Lui mi ha sentito e ha cominciato a fissarmi».

A quel punto, Bryant scattò in direzione del compagno.

«Non ha aperto bocca mentre correva,» continua Schwartz «ha solo puntato dritto verso di me. Io non avevo alcuna intenzione di stare lì a guardare quello che aveva intenzione di fare. Ho girato sui tacchi e me la sono filata. A tutta velocità».

Schwartz fuggì di corsa dalla palestra, con Bryant dietro. «Non mi sono neanche voltato a guardare» racconta. «Ho raggiunto di corsa l’infermeria, al piano superiore, e solo allora mi sono girato. A quel punto, aveva smesso di inseguirmi».

Dopo un po’, Schwartz fece ritorno in palestra. «Il resto dell’allenamento si è svolto in un clima del tipo “nessuno dica una parola su quanto è accaduto”» ricorda. «Quando sono rientrato in palestra, si percepiva nell’aria un grande disagio. Nel totem della squadra, io ero quello più in basso».

Gli allenatori ancora non accennavano a parlare dell’incidente. Schwartz ritiene che, se si fossero decisi a intervenire, Bryant si sarebbe calmato.

Treatman però rimase piuttosto scosso dall’accaduto.

«Ricordo che stavo guidando verso casa, mi sono fermato a un semaforo e ho detto a voce alta: “Che stronzo. Conosco Kobe da tre anni, ed è sempre stato il ragazzo più educato del mondo. Che razza di stronzo”. Poi, fermo al semaforo, ho pensato: “Aspetta un attimo! È questo che lo rende speciale! È questo che lo rende diverso! È per questo che diventerà il nuovo Michael Jordan. È questo che lo rende davvero unico e speciale”».

Diverso o no, speciale o no, Schwartz non lasciò correre l’accaduto. Qualche settimana dopo, lui e Bryant si trovarono uno contro l’altro in un esercizio. «Io ero in difesa insieme a un altro tizio, e Kobe era in attacco insieme ad altri due. Lui tira da tre, e la mette dentro. A quel punto prendiamo noi la palla e attacchiamo due contro uno su di lui. Sapevo che non avrebbe mai immaginato che mi sarei preso quel tiro. Era sicuro che avrei passato. Così scendo in palleggio, finto il passaggio e lui si ferma cercando di prendere uno sfondamento».

Schwartz invece andò a segnare in sottomano alle spalle di Bryant.

«Lui fa un tuffo e cade a terra» ricorda Schwartz. «La palla entra. Nessuno fischia fallo. Allora raccolgo la palla e la getto verso di lui, che era ancora a terra. Gli tiro la palla addosso. Mi giro e a quel punto ero al settimo cielo, mentre tornavo correndo in difesa».

Schwartz stava festeggiando con le braccia al cielo. I suoi compagni lo guardarono e tentarono di avvertirlo a gesti. «Credevo che mi dicessero: “Ti sei preso la rivincita!”. Ma visto che indicavano qualcosa alle mie spalle, per chissà quale intervento divino mi sono girato e c’era un pallone diretto verso la mia testa a cinquanta all’ora. Sono riuscito a scansarmi per miracolo. Ancora un attimo e mi avrebbe colpito in pieno. Tentò di colpirmi alla nuca. La palla viaggiava così veloce che sembrava una scena di Matrix. Quando mi sono girato, ho fatto una mossa tipo quelle del film, e la palla è passata sibilando a un millimetro dalla testa. Se mi avesse colpito, mi avrebbe steso.

«Quella è stata l’unica volta che io ricordi in cui abbia tirato un pallone addosso a qualcuno, perché nessuno era così stupido da mancargli di rispetto,» racconta Schwartz con una risata «ma io ero ancora scocciato dall’altro episodio e quel gesto mi ha fatto sentire meglio».

Gli scontri con Schwartz sono una spia della pressione che Bryant andava accumulando in sé stesso per la sua stagione da senior. In contesti diversi, magari più rilassati, tollerava meglio gli errori dei compagni, soprattutto se si trovava in una situazione pubblica, racconta Sam Rines. Una volta, per esempio, racconta sempre Rines, al termine di una partita di Aau, Bryant aveva la possibilità di prendersi l’ultimo tiro da buona posizione, e scelse invece di passare la palla a un compagno meno bravo ma completamente libero. «Gli allenatori ne parlano ancora, il che è davvero pazzesco. Kobe può prendersi un ottimo tiro in sospensione. All’ultimo istante, passa la palla a un compagno smarcato, che sbaglia un tiro da sotto. Era tutto solo. Kobe avrebbe potuto certamente dare di matto, urlare e via dicendo, invece rimase calmo, composto, abbracciò il ragazzo e gli disse: “Buon tiro, dài”. Ho rispettato Kobe ancora di più, dopo di allora».

«La posta in gioco era così alta che eravamo sempre insieme» racconta Schwartz. «Kobe piaceva a tutti noi. La maggior parte delle volte, almeno. Qualche volta avrei voluto ammazzarlo, ma soltanto per la sua natura tremendamente competitiva».

I tifosi delle squadre avversarie cercavano di approfittare della sua arroganza. Durante una partita di metà stagione, contro una rivale della Central Division, la folla cominciò a schernire Bryant cantando: «Overrated! Overrated!». Non era affatto sopravvalutato, in realtà. Stava per infrangere il record di punti delle high school del sud-est della Pennsylvania detenuto da Wilt Chamberlain, e stava guidando la Lower Merion alla prima finale per il titolo dello Stato dopo oltre mezzo secolo, il tutto con una squadra che tutti consideravano molto meno forte delle avversarie.

Erano arrivati a diciassette vittorie consecutive quando, il 17 febbraio, iniziarono i playoff, che si sarebbero trascinati per sei settimane fino a marzo inoltrato. Prima ci furono i playoff di District I. Nella seconda partita, una vittoria schiacciante contro Academy Park, Bryant segnò 50 punti.

«Kobe si prese gioco di loro per tutta la partita» ricorda Gregg Downer. «Non gli dedicarono nemmeno una marcatura speciale, e questo è il genere di cose che non mi fa dormire la notte. Giocava come se potesse segnare 50 punti tirando solo di sinistro e, a fine partita, palleggiava in mezzo alle gambe per tutto il campo. Il mio unico pensiero in serate come quella era: “Quand’è che posso toglierlo dal campo?”. Non volevo sembrare poco sportivo, e ci furono almeno un paio di occasioni in cui si capiva che stava per esplodere in una delle sue prestazioni superlative, e se io fossi stato un po’ più carogna, come allenatore, avrei potuto lasciare che segnasse 70 punti o qualcosa del genere».

«Segnò sei tiri da tre solo nel primo tempo» ricorda Treatman.

Quella fu l’ultima partita di Bryant sul campo della Lower Merion.

«La mia carriera è iniziata in questo spogliatoio, in questa palestra» disse Bryant a fine partita. «I tifosi mi hanno sempre sostenuto. È triste, ma il tempo passa».

Tre anni dopo, Bryant raccontò che le due partite da senior in cui segnò 50 punti erano state quasi una droga per lui: un’esperienza da ripetere all’infinito, una sensazione di assoluto controllo. Quella sensazione sarebbe diventata il parametro con cui un grande realizzatore come lui avrebbe misurato la propria capacità di dominare le partite. Ciò che non faceva dormire Downer la notte, temendo di passare per un coach poco sportivo, teneva sveglio anche Bryant ma per il motivo opposto, per l’inebriante sensazione di essere il migliore – «the man».

Donnie Carr fu colto di sorpresa dal secondo «cinquantello» di Bryant nei playoff, e ripensò spesso a quel momento negli anni a venire. Diventò quasi un punto focale delle sue conversazioni su Kobe Bryant. «Nella Nba Kobe è diventato un fenomeno,» afferma Carr «ma il Kobe che terrorizzava gli avversari al pensiero che potesse mettergliene cinquanta in faccia in qualunque momento esisteva già in quarta o quinta superiore. Scendeva in campo con l’intenzione di dominare, non la metteva come una sfida alla pari, vediamo chi è più forte. Entrava in campo per distruggerti. Nella Nba l’avrebbe affinata fino a diventare addirittura un maestro, ma quella mentalità l’aveva già in quarta superiore. Giocava per metterne cinquanta ogni sera».

Carr si era sempre chiesto perché Bryant si allenasse di continuo a segnare tiri sempre più difficili. Durante le partite, quando era raddoppiato o triplicato, passava ai compagni liberi, solo per vederli poi sbagliare i tiri aperti che lui gli offriva. Bryant in realtà sapeva che, se voleva far vincere la sua squadra, prima o poi avrebbe dovuto segnare anche contro più avversari. «Sapeva che ci sarebbero state situazioni in cui, anche con un compagno libero, si sarebbe dovuto creare un tiro da solo» racconta Carr. «Grazie a quel modo di allenarsi, era sempre creativo e innovativo e stava sviluppando la mentalità giusta per fare quello che andava fatto».

Gli Aces sbaragliarono il campo fino alle semifinali di zona, dove si trovarono davanti Coatesville e il vecchio compagno di Bryant nella Aau, Richard Hamilton. Jermaine Griffin si dimostrò particolarmente efficace in marcatura sulla futura star Nba. La partita, ricorda Jeremy Treatman, si svolse nell’impianto più famoso di Philadelphia, il Palestra, con il tutto esaurito, e girarono addirittura voci di bagarinaggio. «Quando mancava un secondo alla fine del primo tempo, Kobe prese palla sotto canestro e si alzò a schiacciare all’indietro. Una cosa sensazionale. Ho frequentato il Palestra per oltre vent’anni, e non credo di aver mai sentito un boato come quello. Il pubblico ci tributò un’ovazione in piedi mentre uscivamo dal campo per l’intervallo. C’era un tale frastuono che ci fermammo tutti a guardare la folla. Come dire, Kobe aveva scatenato una specie di isteria».

Con una vittoria risicata, la Lower Merion si ritrovò in finale di zona contro la formazione di Chester, che aveva in quintetto un altro compagno di Bryant nella Aau, la velocissima guardia John Linehan.

Gli Aces avevano perso di 27 punti contro Chester nella stagione precedente, quindi ogni giocatore si era scritto il numero 27 sulla canottiera da gioco per mantenere vivo il ricordo di quella sconfitta imbarazzante. Sotto di otto all’intervallo, Lower Merion si prodigò in una vigorosa rimonta, galvanizzata da una schiacciata di Bryant, e vinse 70-63.

Entrambe le squadre avanzarono comunque ai playoff di Stato della AAA Class. Gli Aces vinsero altre tre partite e dovettero affrontare di nuovo Linehan e la Chester in semifinale – ancora una volta al Palestra, contro la squadra che li aveva stracciati in passato. Linehan, che sarebbe poi diventato il leader Ncaa di ogni epoca nelle palle recuperate, era pronto ancora una volta a esplodere come una furia contro di loro.

«Chester era un’ottima squadra, quell’anno» ricorda Robby Schwartz. «Dal primo all’ultimo, erano tutti più forti di noi, in ogni ruolo».

L’intensità andò ben oltre l’importanza della partita stessa. Gli allenamenti della settimana lo furono altrettanto. «Ci allenammo come pazzi,» racconta Downer «anche se, ovviamente, l’ultima cosa che vuoi prima di una partita così è che qualcuno si infortuni in allenamento».

«Nella nostra squadra c’era un altro tizio piuttosto basso, un ragazzo di colore chiamato Leo Stacy, un senior» ricorda Schwartz. «In pratica eravamo gemelli, solo che lui era nero e io bianco. Una volta, in allenamento, stavamo giocando sette contro cinque, quindi ce n’erano due su Kobe. Di solito eravamo io e Leo a marcare Kobe, giusto per abituarlo a giocare contro i raddoppi. Kobe tentò di cambiare mano con un palleggio incrociato, Leo cercò di rubargli la palla e con la testa andò a incocciare il naso di Kobe. Lo colpì dritto al naso con una testata, capite?».

«Leo Stacy sarà stato uno e settantacinque, non di più» afferma Downer. «Kobe si ruppe il naso, proprio rotto letteralmente, a sole settantadue ore dalla semifinale per il titolo di Stato».

«Sanguinava di brutto» racconta Schwartz «e si teneva il sacchetto del ghiaccio sul naso».

Lo staff capì che serviva subito un medico e lo accompagnò fuori dalla palestra con la faccia sepolta in un asciugamano pieno di ghiaccio.

«Mentre usciva dalla palestra ha chiamato palla» ricorda Schwartz. «Qualcuno gliel’ha passata. Era fuori dalla linea da tre, sul lato sinistro. Kobe prende palla, tira con la mano sinistra e segna mentre sta uscendo dalla palestra col naso rotto. Mi ricordo che ero seduto lì accanto e ho pensato: “Ma stiamo scherzando? L’ho visto sul serio? È impossibile”. Pazzesco. Era lì col naso rotto e sanguinante, e si è fatto passare la palla».

Anni dopo, Schwartz si sarebbe ricordato di quel momento guardando il documentario su Bryant intitolato Kobe Bryant’s Muse, in cui Bryant racconta i tanti infortuni di cui ha sofferto nel basket pro. «L’importanza del momento trascende quella dell’infortunio. Il dolore non lo senti neppure».

«Dovevamo cercargli una maschera alla svelta» continua Gregg Downer.

Kobe detestava la maschera e, nello spogliatoio, appena prima della palla a due, la scagliò contro il muro urlando un’oscenità, dando una scossa elettrica a tutta la squadra.

Quella sera di marzo, Linehan, compagno di Bryant nei Sam Rines All-Stars, diede filo da torcere ai portatori di palla della Lower Merion, nel Palestra gremito fino all’inverosimile, con la gente seduta perfino sulle scalinate cercando disperatamente una visuale del campo.

«Kobe perse otto possessi in semifinale contro Chester» ricorda Jeremy Treatman. «Continuava a perdere palla a destra e sinistra».

Bryant strinse i denti e diede il suo contributo nel costruire un piccolo margine per gli Aces, fino a quando Linehan guidò Chester a una furiosa rimonta con una serie di palle recuperate nell’ultimo quarto.

«Il nostro playmaker, Emory Dabney, perse palla tre o quattro volte nell’ultimo quarto» ricorda Schwartz «e stava quasi per mettersi a piangere».

Bryant, a sua volta umiliato dalla velocità di Linehan, non aveva alcuna intenzione di tollerare le lacrime di Emory, ricorda Schwartz. «Kobe si è messo a urlare in faccia a Emory, anche se Emory stava piangendo».

«Vedi di darti una regolata» ringhiò Bryant durante un time out. «Che stai facendo?».

«Emory era un sophomore» ricorda Schwartz. «Giocava contro John Linehan, uno degli avversari più veloci che abbia mai visto in vita mia. Chester aveva fatto una grande rimonta fino a tornare in parità».

Era il momento chiave della stagione. «Kobe ha continuato a incitare Emory,» racconta Schwartz «ed è andata a finire che Emory è riuscito a stoppare Linehan all’ultimo secondo, portando la partita al supplementare. Ho sempre pensato che, per quanto Emory fosse abbattuto, l’incitamento continuo di Bryant lo avesse aiutato a riprendersi e a stoppare quel tiro nel finale».

Era come se le parole durissime di Kobe avessero riacceso il fuoco della competizione in Dabney proprio nel momento più difficile, afferma Schwartz. «Se non avesse funzionato, Dabney sarebbe uscito dalla partita».

«Kobe segnò comunque 39 punti, fra i quali una delle schiacciate più belle di tutta la sua carriera di high school» ricorda Treatman.

«Ad un certo punto, nel supplementare, partì in palleggio a tutto campo superando gli avversari come birilli, e andò a schiacciare subendo anche fallo» racconta Downer descrivendo il canestro che sigillò la vittoria.

Poco importava che Bryant avesse trascinato di forza la squadra per ventisei vittorie consecutive, fino alla finale per il titolo dello Stato di AAA Class, giocando l’ultima partita con il naso fratturato. In città tutti dicevano che non doveva passare professionista, ricorda Treatman. «Le trasmissioni sportive alla radio lo stroncavano senza pietà. “Quel ragazzo vuole andare nella Nba, e non riesce nemmeno a palleggiare contro Chester!”. Io ripetevo a tutti: “John Linehan è la guardia più veloce del paese!”».

Nel primo tempo, condizionato dal naso rotto, Bryant aveva giocato male, prendendosi pessimi tiri da tre e dando l’impressione di avere bisogno di altri quattro anni di maturazione al college. Nei primi tre quarti si era preso ben 25 tiri segnandone soltanto 8. Nel quarto, però, aveva segnato una dozzina di punti, rallentando almeno in parte la rimonta di Chester.

La tensione era alle stelle durante il tragitto in pullman che portava la squadra alla finale contro la Erie’s Cathedral Prep, da disputarsi a Hershey, nella Hersheypark Arena.

«Adoravo quei momenti, quei viaggi in pullman» racconta Schwartz. «La tensione che sale prima di una partita. Kobe sedeva in fondo. I giocatori più forti sedevano sempre in fondo. Facevamo questi duelli rap in cui uno di noi si alzava a turno e faceva freestyle per dieci o venti secondi. Ci mettevamo tutti in cerchio. Facevamo “tocca a te, tocca a te”, ed era molto divertente. I ragazzi se ne dicevano di tutti i colori».

Questo serviva ad attenuare almeno in parte la tensione, che però tornava a salire nei lunghi minuti che precedevano la palla a due. Nella finale, la Erie prese subito il controllo del ritmo della gara, tenendo Bryant a secco per tutto il primo quarto. Nel secondo periodo, Bryant segnò soltanto 8 punti e si andò all’intervallo con Erie in vantaggio 21-15. Gli Aces andarono sopra di 6 nel terzo quarto ma Erie riprese a controllare il ritmo del gioco e riuscì a mettere di nuovo il naso avanti nel finale, arrivando agli ultimi minuti in vantaggio 41-39. A quel punto, però, una serie interminabile di falli mandò Bryant e compagni in lunetta, e quei tiri liberi furono sufficienti a garantire alla giovane star quella vittoria a lungo inseguita, oltre al primo titolo dello Stato in oltre cinquant’anni per la sua piccola scuola dei sobborghi.

Kobe, Griffin e Downer alzarono il trofeo in modo che tutti i tifosi, arrivati lì a Hershey, potessero vederlo.

«Quel viaggio di ritorno in pullman è stato il più bello di sempre» racconta Schwartz. «Ci sembrava di toccare il cielo con un dito».

Nei giorni successivi si svolse la tradizionale parata sui camion dei pompieri, con una muta di cani dalmata ad accompagnare la squadra. Ma prima di ogni altra cosa, quella prima notte da campioni si radunarono tutti a casa di una delle cheerleader. Come avevano fatto ogni volta durante i playoff, ascoltarono l’album dei Fugees «The Score», il grande successo di quell’inverno. Rimasero alzati fino all’alba, consapevoli che, dopo tutto ciò che avevano passato insieme, quello sarebbe stato l’ultimo momento che avrebbero condiviso. «Ascoltavamo una canzone che parlava di quello che significa essere il numero uno,» rammenta Schwartz «e mi ricordo che eravamo in soggiorno, tutti seduti in cerchio, le cheerleader e la squadra al completo, quando arrivò quella canzone, e prese subito un significato nuovo, diverso, perché finalmente avevamo vinto qualcosa».

Al termine della partita, Bryant aveva detto ai giornalisti che adesso poteva finalmente permettersi di festeggiare un po’.

E così passò tutta la notte a divertirsi con altri ragazzi della sua età, assaporando ogni istante, senza bisogno di alcol o nient’altro di pesante, soltanto con i Fugees. Dopotutto, uno dei brani portanti di quell’album sintetizzava il momento alla perfezione.

Ready or Not. Che siate pronti o no, sto arrivando.