Come è accaduto spesso nella storia del draft Nba, anche l’edizione del 1996 fu contrassegnata da un intreccio vertiginoso di macchinazioni, complotti e astuzie. Il tempo avrebbe dimostrato che il miglior giocatore del lotto era una guardia di diciassette anni senza alcuna esperienza al college. Sul momento, però, lo avevano capito solo due squadre, i Los Angeles Lakers e i Philadelphia 76ers. Altre, pur colpite dalle relazioni degli osservatori e da quello che il ragazzo aveva mostrato nei provini, rimasero freddi all’idea di rischiare una scelta alta per un giocatore come Kobe Bryant.
Il basket pro si era sempre distinto come uno sport per uomini veri, maturi nel fisico e rotti a ogni esperienza. Prima del 1996, nei quarant’anni di vita della lega, soltanto cinque o sei giocatori erano passati direttamente dalla high school alla Nba, con risultati alterni, ed erano quasi tutti dei lunghi.
Gli anni Quaranta e la Seconda guerra mondiale avevano spalancato le porte ad alcuni ragazzi, prima che la lega pro si trasformasse a poco a poco nella Nba, ma anche a quei tempi la maggior parte dei giocatori erano veterani nel vero senso della parola. Molti di loro avevano fatto la guerra. Sapevano come battersi per un posto in squadra, e lo spazio per i giovani era estremamente ridotto.
Sì, Connie Simmons e Joe Graboski erano entrati nella lega da ragazzi e avevano avuto delle lunghe e gloriose carriere, ma in generale il mondo del basket pro non favoriva la maturazione dei giovani.
Quello del giocatore professionista, tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta, era un mestiere piuttosto impopolare. C’erano pochi tifosi e la copertura giornalistica era scarsissima, al massimo un paragrafo sulle ultime pagine delle sezioni sportive dei quotidiani locali. Nel 1946, quando fu fondata la Basketball Association of America, diventata in seguito la Nba, la lega era composta di undici squadre, che ben presto scesero a otto, e anche quelle riuscivano a sopravvivere a fatica. A quei tempi giocare a basket al college voleva dire assicurarsi un’istruzione gratuita, e magari tirare su qualche spicciolo grazie agli ex studenti. I giocatori professionisti guadagnavano poco più di un operaio di cantiere, ed erano quasi tutti obbligati a trovarsi un lavoro da svolgere nel tempo libero e nella off season. Gli atleti si lavavano da soli le divise da gioco, magari nei lavandini delle camere d’albergo, quando capitava di averne una.
Rinunciare all’istruzione per inseguire il sogno effimero del basket non era certo una scorciatoia verso la ricchezza, per i ragazzi di allora, piuttosto una scelta azzardata. Tra l’altro, era proprio il basket di college a suscitare più interesse e ad attrarre l’attenzione della stampa.
Le squadre dei professionisti avevano cominciato a tutelare il basket di college in modo che diventasse una specie di anticamera formativa. La Nba istituì una regola che stabiliva che se un giocatore lasciava il college in anticipo, doveva aspettare che i ragazzi della sua classe si diplomassero prima di poter scendere in campo con i pro. Wilt Chamberlain, il centro fisicamente e tecnicamente più dominante della sua epoca, lasciò la University of Kansas nel 1958, dopo due sole stagioni, ma non gli fu permesso di andare subito nella Nba.
Giocò invece negli Harlem Globetrotters fino alla laurea dei suoi coetanei, quando poté finalmente scendere in campo con la maglia dei Philadelphia Warriors. La Nba mantenne la regola fino al 1967, quando entrò in scena la American Basketball Association, che non aveva invece alcuna norma che impedisse ai giocatori di saltare il college.
Moses Malone, che nel 1974 era passato direttamente dalla high school alla Aba, aveva poi giocato nella Nba, fino a essere ammesso nella sua Hall of Fame a carriera conclusa. Altri, però, come il centro dei Sixers Darryl Dawkins, che era stato anche compagno di squadra di Joe, erano arrivati nella lega troppo presto, trovandosi a disagio in un ambiente dominato da uomini adulti, e non erano riusciti a esprimere del tutto il proprio potenziale.
Ecco perché, in linea di massima, le squadre degli anni Ottanta preferivano tenersi alla larga dai giocatori più giovani, soprattutto da quelli che arrivavano dalle superiori. Nel 1983, però, la Ncaa decise di applicare criteri più restrittivi nei test di ammissione al college, rendendoli ancora più difficili negli anni a seguire. Questo rese più complicato l’accesso all’università a un numero sempre maggiore di ragazzi di estrazione sociale disagiata. Molti di loro si iscrivevano allora ai vari junior college, dove potevano migliorare i propri voti e il proprio gioco, per trasferirsi infine alla «scuola di perfezionamento» della Division I.
Erano state proprio le problematiche accademiche, nel 1995, a costringere Kevin Garnett, due metri e undici, a passare direttamente dalla high school ai pro, influenzando in qualche modo la scelta di Bryant.
Ma anche se ormai era possibile entrare nella Nba in anticipo, c’erano ancora diverse resistenze al riguardo, non solo da parte delle franchigie e dei media, ma anche dello stesso commissioner della lega, David Stern.
Tony DiLeo, che a quei tempi lavorava come direttore dello scouting per i Sixers, ricorda bene che Stern aveva messo in chiaro di non voler «neanche vedere gli scout della Nba nelle palestre delle high school», perché la loro presenza poteva indurre i giovani a compiere scelte sbagliate sul loro futuro. Stern voleva anche proteggere la lega da un afflusso di giocatori troppo grezzi e impreparati alla dura vita dell’atleta professionista.
Verso la metà degli anni Duemila, Stern e l’associazione giocatori della Nba sarebbero arrivati a un accordo che proibiva sostanzialmente ai giocatori di passare direttamente nei pro, e agli scout Nba di presenziare alle partite delle high school e della Aau.
Nel 1996, però, le regole non erano ancora cambiate e Joe Bryant aveva già in tasca il suo accordo con l’Adidas. Quella primavera decise dunque di rompere ogni indugio. Sapeva che i Philadelphia 76ers avevano la prima scelta assoluta al draft. Così chiese al suo vecchio amico Tony DiLeo di sottoporre Kobe a un provino informale per prepararlo in vista di quelli ufficiali che le altre squadre avrebbero preteso per poterlo valutare.
«Joe voleva soltanto che Kobe lavorasse con qualcun altro, per fargli sentire una voce diversa,» ricorda DiLeo «in modo che Kobe sapesse cosa aspettarsi».
DiLeo non aveva mai soddisfatto una richiesta di quel tipo in passato, ma accettò. Aveva già visto Bryant confrontarsi con i professionisti, l’estate prima a St Joseph’s, e lo aveva visto giocare a scuola, quindi era curioso di vedere come se la sarebbe cavata.
DiLeo chiese a uno degli scout più esperti della squadra di assistere alle sessioni. Si trattava dell’ex allenatore di Joe Bryant, Gene Shue. Il provino non prevedeva che Bryant si misurasse contro altri atleti, ma soltanto che eseguisse una serie di esercizi.
Volendo a tutti i costi trovare una pecca nel gioco di Bryant, a quel tempo, probabilmente avresti detto il tiro, racconta DiLeo. «Il suo tiro non era male, comunque. Si capiva che nel tempo sarebbe migliorato moltissimo, perché la meccanica era giusta e Kobe aveva voglia di imparare. Era solo questione di tempo. Non c’era motivo di preoccuparsi».
Ogni volta che DiLeo osservava Bryant in quegli allenamenti informali, tutte le qualità del giovane sembravano affinarsi sempre di più. «Più lavoravo insieme a lui, più si vedeva quella motivazione, quella incredibile spinta interiore a diventare sempre più forte. Si vedeva chiaramente nel modo in cui si allenava, nel modo in cui ascoltava e interiorizzava tutto quanto per poi metterlo in atto».
Shue e DiLeo conoscevano bene le qualità che Joe aveva una volta, e vedevano lo stesso corredo genetico nel notevole atletismo e nelle raffinate doti tecniche del figlio.
«Mescolando tutte quelle doti con la sua straordinaria determinazione, non poteva che uscirne fuori qualcosa di speciale» racconta DiLeo. «Tutti i grandi giocatori, come Michael Jordan e Magic Johnson, avevano quella spinta incredibile a diventare i migliori. Kobe ce l’aveva. Ci sono un sacco di giocatori che hanno talento da vendere, ma non hanno quella durezza mentale, quella risolutezza che solo i più grandi hanno, ed è esattamente quello che vidi in quel provino con Kobe».
Shue ne era ancora più convinto. I due scout decisero che quel teenager doveva essere la prima scelta assoluta, per quanto folle potesse sembrare l’idea a quei tempi. «Eravamo sicuri che sarebbe diventato il più forte di tutti» racconta DiLeo.
Quando DiLeo gli comunicò il responso, Joe Bryant era raggiante.
DiLeo e Shue sapevano però che non sarebbe stata un’impresa facile, perché John Lucas, il vecchio general manager dei Sixers, era stato licenziato e sostituito da Brad Greenberg, che aveva lavorato in precedenza per i Portland Trail Blazers.
Come molti altri esperti, Greenberg riteneva che la miglior scelta possibile, in quel draft pieno di ragazzi di talento, fosse una guardia in uscita da Georgetown, Allen Iverson. In un’intervista del 2015, Greenberg ha raccontato di aver giocato contro Joe Bryant al college, e che all’epoca del draft aveva capito benissimo che Kobe aveva tutte le qualità per diventare un eccellente giocatore, ma che al momento la sua evoluzione non fosse sufficientemente completa da giustificare la prima scelta assoluta. Nell’intervista, Greenberg confermava anche che DiLeo e Shue gli avevano detto chiaro e tondo che secondo loro la prima scelta avrebbe dovuto essere Kobe Bryant.
«Gene e io provammo a convincere Brad a convocare il ragazzo per un provino prima del draft» ricorda DiLeo. «Gli dissi: “Abbiamo praticamente sotto casa un ragazzino con un talento fuori dal comune. Proviamo almeno a dargli un’occhiata”».
Così Greenberg accettò di inserire Bryant nella ristretta lista di giocatori che la squadra avrebbe scrutinato prima di decidere su chi puntare al draft. «Speravamo, invitandolo, che avrebbe fatto un’impressione tale da poterlo candidare come prima scelta assoluta, o almeno per tentare di arrivare a lui grazie a una trade» ricorda DiLeo.
La convinzione dei due scout si rafforzò ulteriormente quando anche Iverson fu sottoposto a un provino. «È buffo,» ricorda DiLeo «perché la prima prova di Iverson fu davvero penosa. Dovemmo invitarlo di nuovo, e in effetti la seconda volta andò molto meglio».
Nonostante questo, i due scout non videro nulla di particolare in Iverson da indurli a cambiare idea. «Ho sempre amato Iverson» ha spiegato Shue nel 2015. «Era un giocatore incredibile, uno dei più duri che si siano mai visti nella lega ma, semplicemente, Kobe mi piaceva di più».
Bryant si presentò al provino ufficiale in giacca e cravatta, indossò la divisa da gioco e si mise subito all’opera, lasciando a bocca aperta tutti gli scout presenti.
I Sixers, all’epoca, avevano cominciato a sottoporre i giocatori ad alcuni test attitudinali, che comprendevano una serie di domande a cui rispondere per iscritto, prima di concludere la sessione con un colloquio personale con uno psicologo.
«Era un esame molto approfondito» ricorda DiLeo.
I test vennero sottoposti a Iverson, a Stephon Marbury, a Bryant e ad altri ragazzi che erano stati convocati per un provino. Molto tempo dopo, girò la voce che l’esito dei test psicologici di Bryant avesse in qualche modo messo in allarme la franchigia. DiLeo però non ricorda niente del genere. «Era un ragazzo brillante e molto competitivo. Aveva la personalità giusta per diventare un grande giocatore, era molto concentrato, ai limiti dell’ossessivo. Il suo era un ottimo profilo».
Forse l’ossessività di Bryant sollevò qualche dubbio in altre squadre, osserva DiLeo, aggiungendo che poteva essere interpretata come un tratto negativo, ma quell’ossessività era il motore che aveva alimentato la determinazione dei più grandi giocatori della storia, gente come Jordan, Magic e West.
«Noi provammo a esprimere il nostro parere,» ricorda Shue «ma l’organizzazione aveva già deciso di prendere Allen Iverson».
Per Brad Greenberg si trattava di una situazione inedita, afferma DiLeo. «Non sapeva tutto quello che sapevamo noi riguardo al passato, anche remoto, di Kobe. Era un grosso rischio, una grande scommessa. Credo che l’azzardo di prenderlo come prima assoluta fosse molto alto, forse troppo» ammette DiLeo. «Brad aveva qualche riserva a puntare tutto su un ragazzino delle high school, e posso capirlo. A quel draft c’erano nomi come Allen Iverson, Stephon Marbury, Marcus Camby. C’erano davvero molti ottimi giocatori disponibili».
A quel punto, DiLeo cambiò strategia e tentò di convincere Greenberg a scambiare l’ex stella della University of North Carolina Jerry Stackhouse per un’altra prima scelta, da utilizzare per prendere Bryant. Sembrava probabile che Charlotte, che aveva la tredicesima scelta, avrebbe colto al volo l’occasione di prendere Stackhouse, che aveva appena concluso la sua stagione da rookie a Philadelphia.
«La mia idea era quella» ricorda DiLeo. «Jerry era un giocatore con un certo valore sul mercato. Le sue statistiche da rookie erano più che interessanti. Gene e io pensavamo che Kobe sarebbe diventato più forte di Jerry, ecco perché provammo a spingere per quello scambio».
A quei tempi, Iverson sembrava la scelta ideale per formare il backcourt del futuro accanto a Stackhouse. Quest’ultimo aveva già dimostrato di essere un ottimo giocatore, mentre Kobe Bryant restava comunque un oggetto misterioso, e aveva diciassette anni, ricorda Greenberg.
I fatti dimostrarono poi che Iverson e Stackhouse non erano molto adatti a giocare insieme. «Non erano affatto complementari» afferma DiLeo. «Erano entrambi giovani e smaniosi di dimostrare il proprio valore. Avevano bisogno tutti e due di avere la palla in mano, e questo non aiutava la chimica tra loro».
I fan dei 76ers che si interrogano su ciò che avrebbe potuto essere, e non è stato, potrebbero pensare di primo acchito che Bryant e Iverson avrebbero potuto avere problemi analoghi, se fossero stati nella stessa squadra. Ma DiLeo è convinto del contrario.
Due campioni autentici, come Bryant e Iverson, avrebbero trovato un modo per giocare insieme, per aiutarsi a vicenda, sostiene DiLeo, aggiungendo che i tifosi dei 76ers non si sono mai soffermati più di tanto su quello che sarebbe potuto accadere perché nessuno ha mai saputo fino a che punto gli scout avessero insistito per tentare di prendere Kobe Bryant.
«So che tutto questo è pazzesco» afferma Shue, ancora deluso dall’esito della vicenda a oltre vent’anni di distanza. «Ma il giocatore che volevamo in quel draft era Kobe Bryant, e lo dicemmo in tutti i modi. Se fosse dipeso da me, avremmo scelto Kobe. Era un giocatore incredibile, davvero fantastico. Purtroppo non sai mai come vanno a finire queste cose».
Nei Milwaukee Bucks di allora, il responsabile dello scouting era invece Larry Harris. I Bucks avevano la quinta scelta nel draft, e in primavera Harris era andato a vedere Bryant giocare con la Lower Merion. E pensò di non aver mai visto un atleta di high school così dotato.
«Avevo visto giocare altri ragazzi delle superiori, ma mai nessuno come Kobe» racconta Harris. «La grazia con cui si muoveva per il campo, la facilità con cui giocava. Era chiaramente il migliore sul parquet, e rendeva tutto facile anche per chiunque giocasse insieme a lui. Voglio dire, era una specie di prestigiatore, con una taglia fisica eccezionale. Aveva le braccia molto lunghe. Mi sembrava un giovane Scottie Pippen, per il modo di muoversi, per il suo aspetto fisico. E per uno così alto e atletico era incredibilmente capace. Aveva un tiro da fuori che incuteva rispetto, e poteva arrivare al ferro sia con la destra che con la sinistra tutte le volte che voleva».
A Harris non sembrava che Bryant fosse un «mangiapalloni», come sostenevano altri a quei tempi. «Non era uno di quelli che dovevano avere sempre la palla, o tirare a ogni possesso» ricorda lo scout. «Pur essendo senza dubbio il numero uno della squadra, passava la palla e migliorava i compagni attorno a sé. Era avanti rispetto ai tempi».
Quando Harris però vide giocare Bryant nel McDonald’s All-American Game, cominciò a essere assalito dai dubbi.
«Pur essendo molto bravo, Kobe non mi fece una particolare impressione quando prese parte al McDonald’s All-American Game, anche se è vero che non basta una partita a definire chi sei» ricorda Harris. «Era forte, ma non sembrava dominante. Era molto magro, e veniva da chiedersi che tipo di impatto avrebbe potuto avere nella Nba».
C’era una quantità smisurata di ottimi giocatori in uscita dal college, nel draft di quell’anno, giocatori più esperti e maturi dal punto di vista atletico, spiega Harris.
«Quando scegli nelle prime cinque o sei posizioni… non è che Kobe non valesse quelle scelte ma… è normale che ti vengano dei dubbi. Certamente oggi, considerata la carriera che ha avuto Kobe, sembra una scelta facile, ma allora, con gli elementi a disposizione, per quello che avevamo potuto osservare, considerato quello che avevano dimostrato giocatori come Ray Allen e Stephon Marbury al college, era difficile dire: “Prendiamo Kobe al posto loro”».
E così anche Milwaukee, come una dozzina di altre squadre, decise di non scegliere Kobe. Quando venne il loro momento, puntarono su Marbury per poi scambiarlo subito con Ray Allen.
Tornando a Philadelphia, c’era un altro elemento che rendeva poco probabile la scelta di Bryant da parte dei Sixers, sostiene Harris. Lo scarso successo di suo padre come profeta in patria era soltanto uno dei molti esempi che suggerivano alle squadre Nba di evitare come la peste i beniamini locali. «Non è che nella Nba ci fossero delle regole al riguardo,» osserva Harris «ma una delle questioni su cui tutti stanno un po’ all’erta è il rischio di scegliere un ragazzo di casa. Devi essere sicuro al cento per cento che il giocatore sia forte. Deve essere una certezza quasi assoluta, senza discussioni».
Il fatto di giocare in casa può diventare improvvisamente un peso per un giovane, come sarebbe successo anni dopo per esempio con Derrick Rose a Chicago, spiega Harris. «Le enormi aspettative, le richieste di biglietti da parte di amici e parenti, sono cose con cui poi i ragazzi devono confrontarsi ogni giorno. A volte può essere un grosso peso per un ragazzo. Non sempre si è capaci di gestire quella pressione, quando si è così giovani».
È possibile che la scelta di Greenberg abbia salvato lui, i Sixers e Kobe Bryant dallo stesso carico di delusioni e frustrazioni che aveva oppresso la carriera di suo padre una ventina d’anni prima. Molte altre squadre sottoposero Bryant a un provino quella primavera. Molti osservatori raccontarono anni dopo di aver assistito a grandi prestazioni, ma la verità è che alla fine tutti fecero lo stesso ragionamento dei Sixers e dei Bucks.
Alla vigilia del draft, Joe e Pam Bryant andarono a cena con i rappresentanti dei New Jersey Nets, e sembrava certo che sarebbero stati proprio i Nets a selezionare loro figlio come ottava scelta assoluta, e i Bryant ne erano entusiasti. Sarebbe stato vicino a casa, ma non troppo vicino. E avrebbe avuto spazio in squadra per giocare.
Tuttavia, il draft Nba aveva dimostrato già da tempo di poter dilatare i tempi a dismisura. Il dubbio, a quanto pare, viaggiava alla velocità della luce, e anche poche ore potevano diventare un’eternità.
IL COLPO GOBBO
Il grande Jim Murray ha osservato una volta che «Jerry West era in grado di riconoscere un giocatore di talento dal finestrino di un treno in corsa». Per anni, West aveva concentrato la sua passione quasi compulsiva per il basket sulla sua carriera come giocatore dei Lakers. Poi aveva allenato la squadra per tre stagioni sfortunate, verso la fine degli anni Settanta, e quando infine era passato a un ruolo dirigenziale era andato a caccia dei migliori giocatori possibili per rinforzare la franchigia che amava. Ai tempi dello Showtime aveva fatto in modo che l’icona Magic Johnson avesse sempre attorno a sé altri giocatori di talento, dando un contributo decisivo ai cinque titoli vinti dai Lakers in dieci anni, fino al novembre del 1991, quando il famoso annuncio di Magic sull’Hiv e il suo conseguente ritiro avevano chiuso un’epoca.
A quel punto la franchigia californiana era caduta in un periodo buio, e West si era messo alla ricerca frenetica di un altro campione capace di personificare la visione che West aveva dei Lakers, come era accaduto con Johnson nel decennio precedente.
Nel 1996, West era ossessionato dall’impresa quasi impossibile di arrivare a prendere il gigantesco centro Shaquille O’Neal, che era chiaramente in rotta con gli Orlando Magic dopo che la squadra era stata battuta per 4-0 in una serie dei playoff per il secondo anno consecutivo.
Impegnato sull’affare O’Neal, a West non sarebbe mai venuto in mente di assistere al provino di un ragazzino di Philadelphia. Bryant non era neanche nei suoi pensieri, spiegò in seguito West.
West però era in stretti rapporti di amicizia con Arn Tellem. E fu proprio Tellem, quella primavera, a fare miracoli pur di portare Bryant ai Lakers, raccontò poi Vaccaro. L’approdo ai Lakers, una franchigia che si vantava di competere sempre per il titolo, sarebbe stato il fattore chiave dello status di Bryant tra i più grandi di ogni epoca, afferma Vaccaro, che sottolinea comunque che se Bryant fosse finito ai Nets, o in qualsiasi altra squadra, sarebbe diventato lo stesso uno dei migliori giocatori di sempre nel proprio ruolo. Ma giocare nei Lakers, continua Vaccaro, permise a Bryant di vincere più volte il titolo Nba, rafforzando così la sua immagine come una delle più grandi guardie nella storia del gioco.
Tutto questo confermava a Vaccaro che la scelta di Tellem come agente di Bryant era azzeccata. L’agente di New York proposto dalla famiglia Bryant magari avrebbe fatto entrare Kobe nella lega con la maglia dei New Jersey Nets. Tellem, invece, riuscì a procurargli un provino nientemeno che con il grande Jerry West. Perfino Kobe non aveva mai preso in considerazione la possibilità di andare ai Lakers, perché avevano soltanto la ventiquattresima scelta, al termine del primo giro.
Le famiglie di Tellem e West erano state di recente in vacanza insieme. Fu soltanto per fare un favore a Tellem che West accettò di invitare Bryant a un provino con i Lakers.
Quel giorno, davanti a West, Kobe giocò meravigliosamente, pur avendo di fronte due ex Lakers come Michael Cooper e Larry Drew. Il ragazzino «travolse i suoi avversari» confidò in seguito West.
Poco tempo dopo, Bryant doveva tornare a Los Angeles per girare uno spot per Adidas. «Credo che ti chiederanno di fare un altro provino per i Lakers» gli disse Joe una mattina.
Il tono di questo secondo provino fece capire a Kobe che la squadra aveva intenzioni serie nei suoi confronti. Prima dell’allenamento, Bryant ebbe perfino occasione di chiacchierare a lungo con Jerry West, che gli diede qualche dritta su quello che significava giocare ad alto livello nei professionisti. Era l’inizio di un rapporto quasi paterno tra il dirigente della squadra e «il ragazzino», come i tifosi di L.A. avrebbero cominciato presto a chiamarlo. «Sapeva proprio tutto di basket» raccontò in seguito Bryant.
Questa volta Kobe doveva lavorare sotto gli occhi di coach Del Harris, che non aveva assistito al primo allenamento, a conferma di come fossero basse le aspettative della squadra in occasione della prima valutazione. Il secondo provino si svolse presso la Ymca, situata in una strada secondaria di L.A., e Bryant fu colto un po’ di sorpresa dalla location reclusa e dall’atmosfera di gran segreto in cui si svolsero le operazioni. Bryant si trovò di fronte Dontae Jones, di Mississippi State, un giocatore tenuto in alta considerazione, che quella primavera era stato Mvp della fase Southeastern Regional del torneo Ncaa. In un primo momento, i due giocatori svolsero alcuni esercizi di tiro. Poi Bryant si misurò uno contro uno con il fortissimo senior del college e lo batté nettamente, arrivando anche a schiacciargli in faccia.
Quell’istante cancellò dalla testa di Kobe qualsiasi dubbio su come se la sarebbe cavata nel basket di college. Bryant avrebbe voluto tanto presentarsi ai camp pre-draft per confrontarsi con i migliori giocatori universitari, ma il suo agente e suo padre non glielo avevano permesso. Aveva invece svolto provini individuali per squadre come Phoenix (dove aveva giocato un accesissimo uno contro uno contro il lungo Todd Fuller), New York, New Jersey (da cui era stato visto in tre diverse occasioni, e dove aveva tirato molto bene, oltre ad aver sviluppato un ottimo legame con coach John Calipari, che lo aveva assistito in tutti gli esercizi), e Boston.
Secondo Vaccaro, i Lakers interruppero il secondo allenamento dopo appena venti minuti. West si alzò dalla sua postazione sotto uno dei due canestri e si diresse a passo spedito verso metà campo, dove afferrò il braccio di Sonny Vaccaro e gli disse di fermare tutto.
«Basta così» sussurrò West a Vaccaro. «Lo prendiamo».
«Fu una delle più grandi soddisfazioni della mia vita» ha raccontato Vaccaro nel 2015. «Sentire Jerry West che mi diceva che avevo visto giusto con quel ragazzo».
Pochi minuti dopo, West disse a Bryant la stessa cosa: la franchigia avrebbe fatto tutto il possibile per arrivare a sceglierlo.
Molto tempo dopo, negli ambienti dei Lakers si sarebbe diffusa la voce che West considerava il provino di Bryant il migliore che avesse mai visto in vita sua. O almeno, questo confidò West al leggendario telecronista dei Lakers Chick Hearn, che raccontò spesso l’aneddoto negli anni a venire. West aveva sempre sostenuto che, come scout, potevi vedere quello che un giocatore sapeva fare in campo, ma che era molto più difficile, quasi impossibile, leggere il cuore di un giocatore, che era poi il segreto della vera grandezza. Il provino di Bryant però era stato così stupefacente che, secondo Jerry West, aveva rivelato anche tutto il suo cuore, come era accaduto in precedenza anche davanti agli occhi di Tony DiLeo. Era tutto riassunto lì, in un certo senso. Nelle sue doti tecniche, nell’incredibile quantità di lavoro individuale che quel ragazzo doveva aver svolto per entrare in possesso di movenze così immacolate, di quella capacità sublime di muovere i piedi, di eseguire finte e fondamentali, nelle ore che dovevano essere state necessarie per giungere a quel livello di perfezione.
Quando Bryant fece ritorno in albergo, chiamò Tellem, che gli chiese nervosamente come fosse andata. Bryant gli disse che era andata bene.
«Ti adoro, ragazzo» balbettò un emozionatissimo Tellem (alla cui figura è parzialmente ispirata la miniserie televisiva della Hbo Arli$$). Il ragazzo raccomandò al suo agente di «darsi una calmata», ma è probabile che quello fu un momento di grande euforia per entrambi.
Eppure, malgrado l’evidente infatuazione di West per Bryant, era tutt’altro che fatta. Prima di tutto i Lakers dovevano trovare il modo per scalare posizioni nel draft, arrivando a scegliere abbastanza in alto per prendere Bryant. Dopo un’attenta analisi stabilirono che, tra le prime, l’unica squadra che avrebbe potuto prenderlo erano i Nets, dove sia Calipari sia i dirigenti John Nash e Willis Reed erano rimasti favorevolmente impressionati. I Nets avevano l’ottava scelta. Le squadre successive erano già orientate verso altri giocatori, il che significava che i Lakers avrebbero potuto prenderlo come tredicesima scelta organizzando una trade con gli Charlotte Hornets.
Per impedire che la franchigia del New Jersey lo scegliesse, Tellem doveva convincere i Nets che Bryant si sarebbe rifiutato di giocare per loro, e che piuttosto sarebbe andato a giocare in Italia se fosse stato necessario. Nel frattempo, Jerry West doveva evitare in tutti i modi di far trapelare alle squadre rivali, compresi gli stessi Nets, la sua intenzione di scegliere proprio Kobe Bryant.
I Nets avevano bisogno di giocatori, non di ritrovarsi a gestire un ragazzino scontento. Nei provini che aveva svolto per loro, Nash e Calipari avevano capito che Bryant era un giocatore eccezionale, ma Tellem riuscì a convincere la proprietà dei Nets che la minaccia che Bryant andasse a giocare in Italia era reale e concreta. Bryant adorava l’Italia, spiegò Tellem, e preferiva giocare laggiù piuttosto che finire in una modesta squadra della Nba. Tellem riuscì dunque a insinuare il germe del dubbio nei vertici della franchigia del New Jersey.
Quando giunse il loro momento di scegliere, a malincuore i Nets fecero marcia indietro e scelsero la guardia di Villanova Kerry Kittles.
La sera del draft, Vaccaro, con i nervi a fior di pelle, era seduto insieme a Bryant nella green room, la zona che la Nba riserva a un ristretto numero di giocatori in predicato di essere scelti al primo giro. Insieme a loro, oltre a Tellem, c’erano i genitori, le due sorelle, lo zio Chubby e il cugino John. Poco prima che l’evento iniziasse, Gary Charles informò Joe dell’accordo ormai concluso.
«Joe» gli chiese Charles. «Tutto a posto con Kobe? Sta per andare a L.A.».
«Che cosa?» disse Joe.
«Sì» gli disse Charles. «Stiamo facendo uno scambio. Cerca di tenere la bocca chiusa. Kobe se la caverà alla grande».
«Merda» disse Joe tutto eccitato. «Certo che ci sta bene!».
A quel punto, Joe e Arn Tellem diedero la notizia a Kobe nella green room. Anche se Kobe era molto agitato per l’importanza del momento, trascorse tutto il tempo prima della chiamata ridendo insieme a Lorenzen Wright, che sarebbe poi finito ai Clippers e che era seduto proprio accanto al gruppo dei Bryant. I due scherzarono nervosamente mentre seguivano lo svolgersi del draft confrontandolo con i loro pronostici.
Quando i Nets scelsero Kittles, Bryant capì che stava per passare ai Lakers.
Allen Iverson da Georgetown, Stephon Marbury da Georgia Tech, il centro della University of Massachussets Marcus Camby, il freshman della University of California Shareef Abdur-Rahim e la guardia di Connecticut Ray Allen furono tra i giocatori scelti prima di Kobe. Alla tredicesima chiamata arrivò finalmente il suo turno, quando lo scelsero gli Charlotte Hornets.
Gli Hornets erano tra le poche squadre per cui Bryant non aveva svolto un provino nelle settimane precedenti al draft. E neanche un’ora dopo la sua chiamata, i giornalisti accreditati iniziarono a vagliare le ipotesi di un possibile scambio in arrivo.
Il general manager degli Hornets Bob Bass confermò che la squadra aveva raggiunto un accordo con i Lakers prima del draft. In cambio della scelta di un misterioso giocatore di gradimento dei Lakers, la franchigia californiana avrebbe girato agli Hornets i diritti sul vecchio centro Vlade Divac. I Lakers avevano poi comunicato agli Hornets che il prescelto era Bryant soltanto cinque minuti prima che toccasse a loro.
«Noi non prendiamo ragazzini delle high school» disse poi l’allenatore degli Hornets Dave Cowens. «Non l’abbiamo scelto per la nostra squadra. Non crediamo che sia pronto per dare subito un contributo».
A prescindere dalle affermazioni di Cowens, cominciò presto a spargersi la voce che Tellem avesse forzato lo scambio perché Bryant voleva un mercato più grande, che offrisse migliori opportunità di esposizione mediatica.
Ancora una volta la stampa non perse tempo a sferrare un durissimo attacco, fomentando l’opinione pubblica nei confronti di un comportamento così oltraggioso. Le stazioni radio di Philadelphia, dal canto loro, cominciarono a chiedersi come facesse un ragazzo di soli diciassette anni a decidere chi poteva o non poteva sceglierlo al draft.
«A quanto pare Cowens non ha ricevuto una copia del piano di marketing di Kobe Bryant» sparò a zero «The Sporting News». «Questo è lo stato in cui vegeta la Nba di David Stern di questi tempi. I mocciosi hanno preso possesso della scuola materna. Questo non è più basket, ormai, è solo una questione di immagine».
Nel frattempo, la famiglia Bryant si riunì per uscire a festeggiare l’esito degli eventi, tutti tranne sua sorella Sharia, che non era dell’umore giusto. Al contrario, come avrebbe spiegato in seguito a Anthony Gilbert, tornò nella sua stanza e si lasciò andare a un pianto a dirotto.
SOUTH STREET
Lo scambio tra Charlotte e i Lakers rimase in sospeso per colpa di Vlade Divac, che adorava giocare a Los Angeles. Divac minacciò di ritirarsi piuttosto che accettare il trasferimento, poi cambiò idea e diede il via libera allo scambio. Anche così, lo scambio non poté essere finalizzato fino al 10 luglio per via di una moratoria fissata dalla lega su tutti gli scambi, in attesa che fosse ratificato il nuovo contratto collettivo tra la lega e l’associazione giocatori. Quando tutto andò in porto, Kobe Bryant divenne ufficialmente un Laker. Dal momento che aveva diciassette anni, i suoi genitori dovettero controfirmare il contratto che lo legava alla squadra fino al 23 agosto, quando Kobe avrebbe compiuto diciott’anni.
Durante il weekend del Quattro di Luglio, quando la questione del contratto era ancora in sospeso, Bryant incontrò Donnie Carr su South Street, a Philadelphia. I vecchi antagonisti fecero una lunga chiacchierata. Carr aveva cominciato ad apprezzare genuinamente Bryant e si era da tempo pentito che la sua affermazione: «Se lui è un professionista, lo sono anch’io», fosse arrivata per caso alle orecchie indiscrete di un giornalista. Quell’affermazione sarebbe stata fonte di scherno per il resto della sua vita. Sempre ben disposto nei confronti di Carr, Bryant quel giorno di luglio era su di giri, e si lanciò in una descrizione entusiasta degli incredibili sviluppi che aveva preso la sua vita. Allo sbigottito Carr, Bryant raccontò «che Jerry West e compagnia erano convinti che sarebbe diventato titolare nel giro di un anno, e che pensavano di scambiare Nick Van Exel e Eddie Jones per fare posto a lui».
In quelle parole c’era qualcosa di quasi surreale.
«Lo sapeva già allora» ricorda Carr. «Sapeva tutto. Già in quella chiacchierata su South Street, subito dopo il draft, mi disse che i dirigenti dei Lakers avevano un’altissima considerazione di lui».
Era difficile stabilire cosa fosse più stupefacente, le notizie in sé o il fatto che Bryant le snocciolasse lì in mezzo alla strada a Philadelphia, la città in cui Eddie Jones, beniamino dei tifosi dei Lakers, aveva giocato a Temple e passava gran parte del tempo libero durante la off season.
«In pratica mi disse che stava per diventare la squadra sua e di Shaq» racconta Carr. «Volevano che lui e Shaq formassero una sorta di accoppiata vincente, e per questo gli avrebbero fatto spazio in squadra. Io ero completamente sotto shock».
«Ma dici davvero?» ricorda di aver chiesto Carr a Bryant.
«Proprio così» fu la risposta di Bryant. «Dovrò lavorarci sopra, amico. Dicono che i pezzi grossi stravedono per me, che faranno spazio nel roster apposta per farmi giocare».
Non stavano parlando di una qualsiasi squadra di college. Si trattava dei Los Angeles Lakers. «Era una notizia incredibile,» spiega Carr «ma tutto quello che mi ha detto ha finito per realizzarsi. Ogni singola cosa. Era certo che sarebbe diventato una star della Nba. Mi stava dicendo che ormai la macchina si era messa in moto, e che non vedeva l’ora di diventare una stella dei Lakers».
In un primo momento, Carr prese per buono tutto quello che Bryant gli diceva. Da avversari, i due avevano stretto un legame molto forte. Man mano che continuavano a parlare, però, un pensiero balenò nella mente di Carr.
«Ricordo di aver pensato: “Mi sembra un po’ fuori di testa. Non so se credere a questa storia”. Nick van Exel era uno dei migliori giocatori della Nba, in quel momento, mentre Kobe era appena uscito dalla high school, e Eddie Jones era stato due volte All-Star. Ho pensato: “Ma che cosa sta dicendo?”».
Carr rimase impressionato dalla sicurezza di Bryant. Non lo aveva mai visto così baldanzoso, eppure lo conosceva da parecchio. La differenza tra i due amici ero lo specchio fedele della rapidissima evoluzione che stava vivendo il business del basket pro.
«Ero uno dei migliori trenta giocatori della nazione» ricorda Carr, che era stato invitato da alcune tra le migliori università della Acc, del Big East e di tutte le principali conference.
La scelta di Joe Bryant come assistente allenatore a La Salle era stata pubblicamente criticata, ma Joe aveva zittito ogni critica reclutando Donnie Carr per conto di coach Speedy Morris e dei suoi Explorers.
«[Joe] era sempre molto loquace, molto amichevole» racconta Carr. «Mi corteggiò a lungo per convincermi ad andare a La Salle, e si parlò più volte della possibilità che Kobe e io potessimo finalmente giocare insieme. Scelsi La Salle proprio perché c’era quella possibilità, rinunciando a molte altre università prestigiose».
All’inizio della prima stagione con gli Explorers, Carr partì fortissimo segnando oltre 30 punti a partita, il miglior realizzatore del paese. Costituiva una tale minaccia che gli avversari cominciarono a raddoppiarlo in quasi tutte le partite. Concluse la stagione con una media di 23,9 punti segnati, sesto fra tutti i realizzatori di Division I, e subito si trovò ad affrontare il primo momento di verità.
Poteva correre il rischio di passare subito professionista, ora che le sue quotazioni erano al massimo. Era un azzardo, ma nel 1997 i dirigenti della Nba si erano innamorati alla follia dei giovani, un po’ come chi investe nei mercati del futuro. Le squadre erano attratte dai costi contenuti, dal maggior numero di stagioni e dal ritorno economico potenzialmente più alto che la scelta di un campione ancora in erba offriva.
Carr decise di seguire un percorso tradizionale, e rimase al college, dove continuò a fare canestri a ripetizione, arrivando in vetta alla classifica dei migliori realizzatori nella storia di La Salle, con oltre duemila punti segnati, davanti a gente del calibro di Tom Gola e Lionel Simmons. Al termine di quei quattro anni, però, le squadre della Nba avevano cominciato a considerare i senior del college alla stregua di merce scaduta sul bancone del supermercato. I ragazzini guadagnavano milioni, mentre i giocatori di vent’anni stentavano ad attirare l’attenzione del basket pro. Carr finì per giocare in Turchia, un campionato di alto livello in cui conservò intatte le proprie caratteristiche di grande realizzatore. Il basket era eccellente, i tifosi entusiasti, e Carr trascorse due anni fantastici fino a quando si infortunò gravemente al ginocchio. Con la sua carriera ormai conclusa, trascorse le stagioni successive osservando Bryant da lontano, imbattendosi nell’antico rivale di tanto in tanto.
«Se avessi saputo allora quello che so adesso, avrei fatto il salto» spiega Carr, ripensando alla sua decisione di non passare pro al termine della stagione da freshman. «Sono stato uno sciocco. Ho scelto di tornare. Il secondo anno è stato discreto. In generale la mia carriera è stata buona, ma ci mancavano sempre uno o due giocatori per raggiungere il top. Penso di non aver mai ottenuto la giusta considerazione perché non vincevamo abbastanza».
Carr ha un’opinione interessante riguardo al ruolo giocato da Jellybean nella decisione di Kobe. «Il consiglio migliore se l’è tenuto per il figlio».
NOTIZIE ESTIVE
Quell’estate Shaquille O’Neal fece impazzire di gioia l’intera California del Sud, firmando un contratto che lo legava ai Lakers per oltre centoventi milioni di dollari.
Sotto molti aspetti, la firma di O’Neal poneva fine a una ricerca iniziata cinque anni prima, al momento dell’annuncio della sieropositività di Magic Johnson. La caccia si era trascinata per cinque, lunghe stagioni, mentre West si macerava nei dubbi, provando disperatamente a trovare una soluzione. Nel frattempo, i Lakers arrancavano inanellando una serie di stagioni deludenti. E West, che durante le partite era sempre un fascio di nervi, era diventato ormai il ritratto dell’angoscia, al punto che spesso si rifugiava nel parcheggio del Forum, incapace di tollerare i momenti decisivi delle partite. Oppure si piazzava alle spalle degli uscieri nel settore 26, e sbirciava le azioni con il corpo contratto dalla tensione.
Alcuni opinionisti erano perplessi all’idea che O’Neal potesse decidere di abbandonare Orlando, rinunciando alla possibilità di fare coppia con la giovane guardia Anfernee «Penny» Hardaway. La Espn dichiarò che O’Neal non sarebbe mai stato così stolto da andarsene, perché giocare a Orlando gli dava le migliori chance di vincere il titolo.
Altri invece cominciarono a mettere in discussione l’alchimia dello spogliatoio dei Magic. Secondo alcune, la massiccia operazione di marketing incentrata su Hardaway, denominata «Li’l Penny», aveva creato un personaggio così invadente da mettere in ombra perfino un gigante come O’Neal. Un altro fattore importante era che Hardaway era stato selezionato nel primo quintetto Nba, mentre la presenza di Hakeem Olajuwon e David Robinson aveva impedito a O’Neal di ottenere lo stesso riconoscimento.
Altro aspetto da non sottovalutare erano le sconfitte riportate da Orlando nei playoff del 1995 e 1996. Nel ’95 i Magic erano stati sconfitti per 4-0 dagli Houston Rockets nelle Nba Finals. Nel 1996 erano stati invece i Bulls a infliggergli un altrettanto sonoro 4-0 nelle finali di conference. O’Neal, solitamente gioviale, aveva pianto dopo entrambe le batoste – e quelle erano le uniche volte in vita sua in cui aveva pianto per il basket, a parte quel giorno, quando era un junior alla high school, che la sua squadra aveva perso l’imbattibilità stagionale proprio nella finale per il titolo dello Stato. E a Orlando, era sulle spalle di O’Neal, non su quelle di Hardaway, degli allenatori o dei compagni che gravava il peso di quelle sconfitte.
O’Neal sapeva che i Lakers riservavano da sempre un’attenzione speciale ai propri campioni. West, in particolare, era stato a sua volta una superstar. Conosceva le pressioni, i fraintendimenti, i problemi che i grandi giocatori dovevano affrontare. Probabilmente nessun altro dirigente della Nba si spingeva fino al punto in cui arrivava West per proteggere e coccolare le sue stelle.
E poi c’era la grande tradizione dei Lakers. I rapporti stretti con Hollywood, l’atmosfera magica del Forum… erano tutti elementi che allettavano O’Neal. Lavorare a Los Angeles voleva dire per Shaq approfittare della vicinanza di Hollywood per sviluppare i suoi interessi extra cestistici, nel campo della musica rap e del cinema.
West e il suo staff capirono che la possibilità di far firmare O’Neal era concreta, ma che il costo dell’operazione poteva sfiorare i cento milioni di dollari, una cifra abbastanza alta da spaventare la maggior parte dei corteggiatori. La situazione costringeva West a cercare il modo di liberare spazio nel salary cap per poter offrire al grande centro il contratto che meritava. «Devi essere pronto a scambiare anche tutti i giocatori della squadra, se necessario, pur di arrivare a un uomo del valore di Shaquille O’Neal» dichiarò in quei giorni.
West pensava che un’offerta di circa 95 milioni di dollari potesse essere sufficiente per permettergli di aggiudicarsi l’ambito trofeo. In realtà, quella cifra si dimostrò parecchio più bassa del dovuto. Per creare altro spazio nel salary cap, nell’arco di sette stagioni, West fu costretto in pratica a regalare ai Vancouver Grizzlies sia la guardia Anthony Peeler che l’ala George Lynch.
«I Lakers avrebbero potuto mandare tutto a monte» racconta l’agente di O’Neal, Leonard Armato, che, proprio come Vaccaro, collaborava con l’industria delle calzature ed era riuscito ad aggiudicarsi la rappresentanza di O’Neal appena questi aveva lasciato la Louisiana State University. «Saranno stati sul punto di farlo in almeno un paio d’occasioni, ma West non lo lasciò accadere. Da giocatore era sempre stato decisivo nei momenti critici, e da dirigente non era cambiato».
Orlando ribatté con una clamorosa controfferta di 115 milioni, poi addirittura qualcosa in più. Pur di arrivare a offrire 123 milioni, i Lakers rinunciarono ai diritti su altri sette giocatori, compresi Magic Johnson e Sedale Threatt. Svuotare il roster di tutti quei giocatori sembrava un atto di pura follia. Se O’Neal avesse deciso di rimanere in Florida, i Lakers avrebbero sventrato la squadra per niente.
I Magic avrebbero potuto rilanciare ancora per cercare di trattenere il proprio free agent ma, come sosteneva anche O’Neal, non era il denaro il fattore decisivo. L’offerta di Orlando prevedeva un anticipo cash di circa venti milioni di dollari già nel primo anno, ma O’Neal aveva ormai deciso di spostarsi a Ovest.
«[I Lakers] sono una grande organizzazione » dichiarò in seguito O’Neal. «Quando ho deciso di trasferirmi, non è stato per i soldi, né per i film o per la musica rap. Quello che volevo davvero era sentirmi apprezzato, tutto qua. Alla fine è di questo che si tratta. Non sono i soldi. Chissenefrega dei soldi. Voglio dire, di quelli ne ho già un sacco».
Mettendo sotto contratto il centro, allora ventiquattrenne, i Lakers si erano aggiudicati il giocatore fisicamente più dominante del basket moderno, proseguendo così la tradizione dei grandi centri iniziata con George Mikan, e passata poi per Wilt Chamberlain e Kareem Abdul-Jabbar. Attorno a queste figure erano state allestite le formazioni che, al conteggio del 1996, avevano fruttato alla franchigia californiana dodici titoli Nba.
«Ripensando alla storia dei Lakers e al tempo che ho trascorso con questa squadra,» dichiarò West all’epoca «aver centrato questo traguardo è forse, in assoluto, la cosa più importante che abbia mai fatto».
Nel bel mezzo di tutte queste transazioni, il fatto di aver scelto Kobe Bryant al draft sembrava quasi una mossa secondaria, per quanto minuziosamente preparata.
Una volta che il suo contratto divenne ufficiale, Bryant si preparò a scendere in campo con la maglia dei Lakers nella Fila Summer Pro League, una delle competizioni estive che le franchigie Nba usavano per provare i giocatori. «Quando arrivò Kobe, nessuno sapeva bene cosa aspettarsi» ricorda Larry Drew, l’assistente allenatore dei Lakers incaricato di allenare la formazione estiva. «Sapevamo soltanto che aveva talento».
Molti osservatori ritenevano che la grande pubblicità che accompagnò l’arrivo di Shaquille O’Neal potesse in qualche modo mettere in secondo piano la presentazione di Kobe, togliendo almeno un po’ di pressione dalle spalle del rookie. Ma qualsiasi speranza di quel tipo svanì con la sua prima esibizione al Pyramid, la struttura da cinquemila spettatori in cui si svolgevano le partite della summer league di Long Beach. Di solito c’erano moltissimi posti vuoti, ma la prima partita di Bryant portò a un massiccio afflusso di pubblico, e furono più di duemila i tifosi che non riuscirono ad accedere all’evento.
«Ricordo ancora il giorno del suo arrivo» racconta Drew. «C’erano tutti i media possibili, e un sacco di gente che cantava il suo nome. L’impianto era stracolmo. Quel giorno non doveva neppure giocare, ma c’era già un’elettricità incredibile per il solo fatto che fosse lì».
Il giornalista Ric Bucher rammenta di aver visto Bryant per la prima volta nello spogliatoio, in quella summer league. «Era un ragazzino delle high school» racconta Bucher. «Mi ricordo di averlo visto ficcare letteralmente la divisa da gioco e le scarpe nel suo zainetto mentre i giornalisti lo intervistavano, e poi andarsene così, proprio come un ragazzino uscito da scuola».
Di solito i Lakers sfruttavano le partite della summer league per preparare i rookie e i giocatori più giovani agli adeguamenti necessari per giocare in prima squadra, racconta Drew. «Ma non riuscimmo a fare molto in quei primi giorni, perché non avevamo modo di allenarci. Nella summer league di solito abbiamo cinque o sei giorni per allenarci e far vedere ai giocatori quello che vogliamo fare. Lui invece arrivò quando stavamo già giocando, quindi lo buttammo in campo chiedendogli di giocare solo in modo istintivo. Era come un cagnolino appena uscito dalla gabbia. Saltellava dappertutto. Era chiaro che si trattava di un giocatore speciale. Si capiva dal modo baldanzoso in cui si muoveva. Era un ragazzino molto sicuro di sé, che non si tirava mai indietro e non aveva paura di confrontarsi con i professionisti».
Bryant mostrò subito di non avere problemi a farsi avanti e assumersi le sue responsabilità, al punto che arrivò a spiegare ai compagni cosa dovevano fare e dove dovevano mettersi sul campo. Gli altri rookie avevano quattro o cinque anni più di lui ma, se la cosa gli dava problemi, lui non lo diede a vedere.
«Tutto quello che voglio è scendere in campo per vincere» dichiarò all’inviato del «Los Angeles Times». «Se il coach ha bisogno che io sia un leader, lo sarò. E se vedo qualcosa che non va, dirò la mia, esattamente come farà Shaq, in qualunque situazione. È importante però che io resti sempre all’interno del collettivo».
La cosa più importante, la qualità superiore da autentica star che West e il proprietario dei Lakers cercavano disperatamente, si fece subito vedere. Kobe segnò 25 punti nella sua prima gara, 36 in un’altra, e tenne una media di 24,5 punti e circa 5 rimbalzi nelle quattro partite della manifestazione.
Gary Charles, che si trovava sulla West Coast con la sua squadra di Aau, portò Lamar Odom a veder giocare Bryant verso la fine della summer league. Bryant li scorse in uno dei settori in alto del palazzo e fece segno loro di scendere.
«Come va?» gli chiese Charles.
«Bene» gli rispose Bryant. «Li sto spazzando via tutti. Dovresti vedermi. Me li mangio tutti».
Charles cominciò a ridere e lo guardò, tutto orgoglioso nella sua divisa gialloviola.
«Gli dissi: “Kobe, non cambierai mai”» ha ricordato Charles nel 2015. «Era strafelice di giocare nei Lakers».
Kobe non vedeva l’ora di dimostrare a sé stesso di poter diventare una star, come speravano West e Buss, e la summer league gli fornì tutti gli elementi di cui aveva bisogno. «Sentivo di poter fare esattamente le cose che facevo a scuola, che non era poi così difficile» spiegò in seguito.
Gregg Downer non era stato nemmeno consultato in merito alla decisione di Bryant di passare professionista. Il coach aveva le proprie riserve, non tanto riguardo al gioco di Bryant quanto alla sua capacità di adattarsi così giovane alla vita in una grande città. Anche a lui erano state riportate le dichiarazioni spavalde che Bryant aveva rilasciato quell’estate a Philadelphia. «Quelle frasi da maschio alfa, del tipo “questa diventerà la mia squadra” e via dicendo» racconta il coach. «Dentro di me pensavo: “Questo non si tira indietro nemmeno di fronte a Shaquille O’Neal. Questo è capace di tirare un pugno in faccia perfino a Shaq”».