2. Paternità

Per tutta la sua giovinezza, il basket era stato per Joe Bryant come un’automobile di lusso in grado di trasportarlo là dove solo un pugno di altri ragazzi della sua comunità potevano sperare un giorno di arrivare. Lo stile di Jellybean era differente, molto personale. Era germogliato durante l’infanzia trascorsa a casa della nonna, nella zona ovest di Philadelphia, a pochi passi dai campetti in cemento che si trovavano tra la Quarantaduesima e Leidy Avenue. La nonna gli permetteva di andare a giocare tutti i giorni tranne la domenica, quando lo buttava giù dal letto all’alba per portarlo alle sei del mattino a santificare le feste presso la chiesa battista di New Bethlehem.

«Ci restavamo tutto il giorno» raccontò Bryant una volta.

I canti, le preghiere e la meditazione erano le basi del suo addestramento morale. Quello cestistico, invece, si svolgeva tutti gli altri giorni della settimana, sempre e solo al playground del quartiere.

Con l’avvicinarsi dell’adolescenza, la sua famiglia si trasferì nella parte sud-ovest della città, in una villetta a schiera traballante e piena di spifferi su Willows Avenue, non lontano dai campi di Kingsessing Avenue, che divennero presto il suo nuovo laboratorio professionale.

Willows Avenue era una stradina malfamata, come molte altre in quella zona di Philadelphia, ma comunque ombreggiata da una fila di alberelli sotto le cui fronde il padre di Jellybean, Big Joe, si sedeva a sorridere al mondo dal porticato di casa.

Nella maggior parte dei casi, il mondo ricambiava il sorriso. In un’altra epoca, Big Joe avrebbe potuto giocare a football, magari come difensore centrale degli Eagles. Superava il metro e novanta, aveva un torace possente e una corporatura massiccia. Anche girando in lungo e in largo per tutta Philadelphia, era impossibile trovare qualcuno che non ammirasse Big Joe, con quell’aria da orso, i modi amichevoli, tranquilli, e l’amore che provava per il figlio.

L’alta considerazione di cui godeva all’interno della comunità era motivo di grande soddisfazione per un uomo che era riuscito a crescere tre figli malgrado una situazione finanziaria a dir poco precaria. Ancora molti anni dopo, la gente più disparata si ricordava benissimo di Big Joe, o Pop Bryant, come lo chiamavano affettuosamente i ragazzi del vicinato. Negli anni, il «Philadelphia Tribune», che ogni tanto riportava le sue dichiarazioni nella sezione sportiva, lo aveva definito più di una volta «l’allegro signore di Willows Avenue».

Guardare il figlio sui campi da basket era una specie di elisir che infondeva gioia nell’animo di Big Joe. Aveva grandi mani carnose e una bella faccia rotonda che si apriva spesso in un sorriso contagioso, ma il suo senso della disciplina era ferreo, fedele al «chi risparmia la verga» dell’Antico Testamento. Un giorno raccontò al giornalista sportivo Julius Thompson di aver spesso intimato al figlio, quando usciva la sera, di non permettersi di «portare la luce in casa». In altre parole: di non rientrare all’alba. Il figlio aveva sfidato quella regola una sola volta, e Big Joe lo aveva steso con un diretto così potente che Jellybean ci aveva messo una ventina di minuti per riprendersi. Al risveglio, il messaggio era stato recepito alla perfezione, assicura Thompson.

Big Joe era una presenza imponente, ed era deciso a tenere d’occhio suo figlio. «Ovunque andasse Joe, c’era anche Pop Bryant» ricorda l’amico di famiglia Vontez Simpson.

«Big Joe si interessava di qualsiasi cosa» aggiunge lo storico giornalista sportivo di Philadelphia Dick Weiss. «Era fiero fino all’inverosimile di suo figlio».

«Big Joe Bryant era un uomo fantastico, davvero speciale» ricorda Paul Westhead, che avrebbe poi allenato Jellybean alla La Salle University. «Tutti in città conoscevano il padre di Joe. Aveva molto a cuore il bene di suo figlio e della famiglia. E quando dico bene, intendo tutto ciò che avrebbe fatto di loro delle brave persone. Era un uomo delizioso».

Con l’avanzare dell’età, quando i problemi di peso e il diabete cominciarono a farsi sentire, Big Joe prese l’abitudine di camminare con un bastone, ma anche in quelle condizioni non mancava mai di andare a vedere una partita – di Jellybean prima, di Kobe poi. A conferma di quanto smisurato fosse il suo amore, basti pensare che anni dopo, quando la sua salute era ormai compromessa, Big Joe andava lo stesso alle partite del nipote portandosi dietro la bombola di ossigeno.

VIA DALLA GEORGIA

È probabile che il padre di Jellybean avrebbe potuto raccontare parecchi aneddoti dolorosi, ma non gli piaceva perdere tempo a rimuginare sul passato. Si era tirato fuori dalla cosiddetta «Black Belt» della Georgia, una vasta porzione di territorio che attraversa tutto lo Stato in orizzontale, lungo la Highway 41, nel corso della grande migrazione degli afroamericani, fuggiti dal Sud all’inizio del Ventesimo secolo.

Philadelphia era stata una destinazione piuttosto comune di quella migrazione. In particolare l’area sud-ovest della città, caratterizzata nel Diciannovesimo secolo perlopiù da fattorie, tenute agricole e giardini botanici, aveva cominciato a mutare, attirando in un primo momento immigrati europei e in seguito afroamericani in cerca di lavoro, mentre si assisteva al fiorire di vari settori industriali, grazie all’insediamento di fabbriche di sapone e locomotive, serbatoi di stoccaggio, raffinerie e, nel 1927, di un aeroporto.

All’inizio del secolo la popolazione della cosiddetta Città del­l’amore fraterno era formata in maggioranza da bianchi caucasici, ma le cose avevano cominciato a cambiare negli anni Venti, Trenta e Quaranta del Novecento, quando milioni di neri iniziarono a spostarsi verso nord.

Ogni giorno i treni che arrivavano dal Sud scaricavano una quantità di afroamericani – o negri, come erano chiamati allora –, racconta Julius Thompson, uno dei primi giornalisti sportivi di colore a essere assunto da una grande testata della East Coast, il «Philadelphia Bulletin», nel 1970.

Rimasti senza lavoro in seguito al crollo dell’economia agricola all’inizio degli anni Trenta, gli immigrati non avevano altra scelta che raccogliere i pochi stracci e dirigersi verso le città del Nord, alla ricerca di un impiego e magari di una nuova vita. Uno dei motori della migrazione era la disperazione provocata dal crollo dei prezzi dei prodotti agricoli durante la Grande Depressione, che aveva posto fine ai sistemi economici ormai superati, basati sulla mezzadria e sulle grandi piantagioni, dove si trovavano però gli unici lavori accessibili a molti afroamericani in un paese che da sempre aveva precluso loro ogni forma di istruzione scolastica.

Un’altra potente spinta all’immigrazione interna era fornita dalle bande di bianchi razzisti che per anni si erano accanite sulla popolazione di colore con una escalation di linciaggi, uno peggiore dell’altro, documentati spesso nel dettaglio dalle principali testate giornalistiche del Sud.

Il richiamo del Nord aumentò negli anni Quaranta, con l’incremento dei posti di lavoro al servizio dell’industria bellica nei cantieri navali di Philadelphia e di altre città, e le opportunità addirittura aumentarono dopo la fine della guerra, quando l’economia tornò a crescere.

In Georgia, Big Joe Bryant si era spezzato la schiena nei campi accanto al padre – il primo di una serie di tre Joe Bryant consecutivi –, al ritmo di sessanta ore di lavoro alla settimana pagate pochi spiccioli al giorno. I registri anagrafici dell’epoca indicano che il nonno di Big Joe era nato in schiavitù dopo il 1840 e aveva trascorso la vita, come suo figlio dopo di lui, lavorando nelle dure e spietate piantagioni del Sud.

Come molti altri, Big Joe Bryant era dunque un giovane in fuga quando arrivò a Philadelphia, ma la vita che si era lasciato alle spalle gli aveva comunque offerto alcuni doni, tra i quali la resilienza e un carattere indomito. Il senso di paternità era chiaramente ben radicato nel clan dei Bryant. Dopo aver completato da giovane il passaggio dalla campagna alla città, Big Joe si fece una famiglia e insieme alla moglie mise al mondo tre figli. Li adorava tutti e tre, ma stravedeva in particolare per il primogenito, che portava il suo nome.

«Làsciatelo dire, agli occhi di Mr B, Joe non faceva mai nulla di male» ricorda l’amico di famiglia Mo Howard.

Il viaggio nel basket di Jellybean cominciò da adolescente, quando trascorreva ore e ore a tirare a un canestro appeso a un palo elettrico su Willows Avenue. Da lì si spostò ai campetti di Cobbs Creek Parkway, dove l’agonismo era più feroce. In seguito cominciò a girare tutti i campi della periferia sud-ovest di Philadelphia, soprattutto quelli fra la Quarantottesima e Woodland Avenue, fino al grande playground di Kingsessing Avenue.

Jellybean era spaventosamente magro ma grazie alla sua statura i ragazzi più in gamba dei campetti lo chiamavano a giocare insieme a loro. Per Joe era un bel colpo di fortuna. Essendo così esile, imparò a destreggiarsi sul perimetro. Quelle ore trascorse sul cemento, a misurarsi contro ragazzi più grandi di lui, lo aiutarono a costruirsi un’identità: cominciò a considerarsi un giocatore di basket. Anni dopo, suo figlio Kobe avrebbe fatto lo stesso. Era una qualità che condividevano – l’amore per il basket e la consapevolezza del loro destino.

«Adorava il basket. Voleva sempre giocare, provare di continuo quella sensazione» dice Julius Thompson a proposito di Jellybean, ma avrebbe potuto tranquillamente parlare di Kobe.

Uno dei primi idoli di Jellybean era Earl «The Pearl» Monroe, che aveva militato nella squadra della John Bartram High all’inizio degli anni Sessanta. Monroe aveva un controllo di palla favoloso e con una stagione fantastica aveva trascinato la Bartram al titolo della Philly Public League nel 1963, quando il piccolo Joe Bryant aveva appena nove anni. Le squadre della Public League erano così forti, così fisiche, che le altre high school di Philadelphia non volevano che partecipassero al torneo dello Stato. «Se le avessero ammesse, le squadre della Public League avrebbero vinto tutti gli anni» sostiene Vontez Simpson, riportando una convinzione diffusa.

«C’erano un sacco di grandi giocatori nella Public League, a quei tempi» spiega Dick Weiss.

«Non ho mai visto così tanti atleti di talento uscire dalla stessa città» dice Julius Thompson, che seguiva la Public League per conto del «Bulletin». «Continuavano a sbucarne di nuovi, per tutti gli anni Sessanta e Settanta».

Presto, Earl Monroe passò alla Winston-Salem State, per poi fare il salto nei pro, prima nei vecchi Baltimore Bullets e quindi nelle file dei New York Knicks. Fu una specie di meteora nel cielo per il giovane Joe Bryant e per altri della sua generazione. Lo stesso vale per le stelle dei 76ers – gente come Wali Jones, Chet Walker, Hal Greer, Luke Jackson e il grande Wilt Chamberlain – che nella stagione 1966-67 vinsero il titolo Nba, quando Joe Bryant aveva dodici anni. Poco tempo dopo, Bryant diventò fan di Kenny Durrett, ai tempi in forza a La Salle.

Joe amava il gioco spettacolare e passava ore a perfezionare il palleggio in mezzo alle gambe, dietro la schiena, i passaggi no look, che la maggior parte dei lunghi di allora non prendeva nemmeno in considerazione.

Di lì a poco, la gente cominciò a capire che non c’era nulla che JB, il suo soprannome alla Shaw Junior High e più tardi alla Bartram, non sapesse fare con la palla da basket. Mostrava già una propensione, spiccata fino al punto di rasentare la genialità, per i fondamentali più creativi e fantasiosi, quelli che solo pochi eletti erano in grado di padroneggiare, gente del calibro di Earl The Pearl, Bob Cousy, i Globetrotters e «Pistol» Pete Maravich. Ovunque giocasse JB, la gente restava a bocca aperta. Nessuno si aspettava che un lungo potesse trattare la palla in quel modo.

UN MARE DI GUAI

All’inizio delle superiori, Jelly era alto quasi due metri e correva già a grandi falcate. Quando voleva andare da qualche parte, si metteva a correre e in breve arrivava a destinazione, stuzzicando l’interesse sia degli allenatori di atletica che degli scout di basket.

A un primo sguardo, potrebbe sembrare quasi che la città di Phila­delphia, verso la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, fosse una specie di dolce paradiso cestistico – ma c’è un elemento non secondario da considerare. La città era presa in ostaggio da una galassia di gang criminali che rendevano la vita difficile ai ragazzi che crescevano tra quelle strade violente. Il «Philadelphia Daily News» parlava di ben centosei gang diverse impegnate a contendersi la città, ciascuna radicata in un territorio specifico, i cui membri erano spesso provvisti di armi da fuoco artigianali. In quegli anni decine di giovani morirono a causa di scontri violenti per il controllo del territorio, che arrivavano a estendersi fino ai corridoi degli istituti scolastici.

La morsa delle gang sulla gioventù di Philadelphia era talmente stretta che spesso i ragazzi non potevano neppure recarsi a scuola – figuriamoci sopravviverci – se non entravano a far parte di una banda. La forza stava nel numero, e chi non si allineava pativa l’inferno.

«Nella mia città, Philadelphia, in Pennsylvania, le bande di ragazzi controllavano ogni centimetro di strada dove viveva la comunità nera. Era molto pericoloso muoversi tra le insidie di quella giungla urbana, per un teenager di colore» scrive Reginald S. Lewis, che da giovane aveva fatto parte di una gang.

Solo nel 1969, quando Joe Bryant era al primo anno alla Bartram High, in città si registrarono quarantacinque decessi collegati alla violenza delle gang. La selezione cominciava presto: le bande arruolavano i ragazzi già alle elementari.

Jellybean Bryant in qualche modo fu uno dei pochi fortunati. «Se non eri un atleta erano guai» racconta Julius Thompson. «Quelli che ce l’hanno fatta avevano una famiglia presente alle spalle».

«Per come la ricordo io,» spiega Gilbert Saunders «si trattava di avere una direzione. Come molti ragazzi, a Joe mancava un po’ di direzione. Ci voleva un appoggio, diciamo ambientale, per aiutare Joe Bryant a crescere».

Quell’appoggio ambientale a Bryant lo offrì il basket, che si rivelò la forza coesiva capace di tenere insieme tutti gli aspetti della sua vita. Oltre all’occhio vigile di Big Joe, alla gentilezza dei Saunders e agli allenatori della scuola pubblica, l’impatto maggiore sulle scelte di Bryant lo ebbe di sicuro il leggendario Sonny Hill, grande animatore dei tornei di basket cittadini. Hill non si lasciava sfuggire la minima occasione per risolvere incidenti e trasformare potenziali disastri in opportunità, ed esercitò un influsso simile sulla vita di moltissimi ragazzi di Philadelphia.

«Sonny Hill mi ha letteralmente salvato la vita» non manca di ripetere Gilbert Saunders. «La mia e quella di molti altri».

A quei tempi, Philadelphia brulicava di tornei di basket di qualsiasi livello. «Ovunque giravi lo sguardo,» ricorda Julius Thompson «c’era gente che giocava a basket dalla mattina alla sera».

Nonostante ciò, quasi tutti i tornei migliori si disputavano nei sobborghi residenziali, almeno prima dell’arrivo di Hill.

«Sonny era a capo di un sindacato» spiega Thompson. «Per me è lui la leggenda del basket di Philadelphia. Era un ottimo politicante. Riusciva sempre a coinvolgere tutti».

Piccolo di statura e dotato di un fisico nervoso, Hill aveva giocato da guardia nella vecchia Eastern League ai tempi in cui la Nba aveva soltanto dieci squadre e pochissimi neri presenti nei roster. In seguito era diventato un noto telecronista sportivo, un dirigente sindacale e un organizzatore di eventi all’interno della comunità. Anche lui era cresciuto in strada, e conosceva benissimo le avversità che i giovani si trovavano ad affrontare sul campo come nella vita.

Nei primi anni Sessanta, Hill aveva fondato la Baker League, un torneo estivo riservato a giocatori professionisti che era diventato subito popolare perché vi aveva partecipato Bill Bradley dei New York Knicks per recuperare la forma, al suo ritorno da un anno sabbatico trascorso a studiare in Europa.

«Quando Sonny creò quel torneo, le partite si disputavano presso la chiesa battista di Great Hope» racconta Dick Weiss, noto giornalista sportivo di Philadelphia. «Ricordo che ci andavo per veder giocare Earl Monroe contro Bill Bradley quando Bradley era appena tornato dagli studi in Europa. Bradley usava la Baker League per prepararsi all’esordio nei Knicks, cercando di togliersi la ruggine giocando nella lega che più di tutte ricordava la Nba. Veniva a Philadelphia direttamente da Princeton, pur di giocare nella Baker League».

A quel tempo, le partite estive della Baker League erano spesso più accese di quelle della regular season della Nba, aggiunge Weiss.

Nel giro di poco, il torneo di Hill attirò altri giocatori di primo piano, da Wilt Chamberlain a Walt Frazier, e si guadagnò la fama di miglior torneo estivo del paese, in un’epoca in cui la Nba non aveva ancora creato le proprie summer league ufficiali.

Il successo della Baker League spinse Hill a costituire un altro torneo nel 1968, proprio l’anno in cui Joe Bryant passava dalle medie alle superiori. La Sonny Hill League forniva un’occasione di gioco strutturato ai migliori atleti di high school della regione e diventò in breve il laboratorio principale in cui Hill esercitava la propria influenza.

Le partite del torneo amatoriale erano programmate come partite di apertura per quelle della Baker League. «L’impianto era strapieno» ricorda Dick Weiss. «Diventò una specie di appuntamento fisso per tutta la comunità nera».

«Era come una grande festa» concorda Mo Howard, che giocò a sua volta nella Hill League prima di mettersi in luce alla corte di Lefty Driesell alla University of Maryland. «I miei primi ricordi di basket risalgono ai tempi della Baker League. Andavamo nel sotterraneo della parrocchia dove c’era questa bellissima palestra, e guardavamo giocare Bill Bradley, Cazzie Russell, Wali Jones, Hal Greer. Gente del loro calibro che veniva a giocare in un torneo estivo, e si battevano fino alla morte».

Quando Howard arrivò alle superiori, la Hill League era già attiva e dunque, dall’oggi al domani, Howard si ritrovò a giocare appena prima che scendessero in campo i professionisti della Baker League.

«Era un modo fantastico per ispirare i giovani,» racconta Howard «giocare prima di una partita della Baker League. C’era sempre un sacco di pubblico alle partite della Baker League, lo sapevamo tutti. Era scontato. Nelle nostre squadre giocavano i migliori “prospetti” delle high school. Ogni squadra aveva dieci o quindici ragazzi provenienti dai vari quartieri di Philadelphia, dove c’erano un bel po’ di scuole superiori. Quindi parliamo dei migliori in assoluto».

Visto che i ragazzi delle superiori scendevano in campo appena prima dei professionisti, non ci volle molto perché cominciassero a formarsi relazioni estemporanee, racconta Howard. «Come niente, capitava che Wali Jones venisse da me a dirmi: “Ragazzo, devi lavorare sulla tua mano sinistra”, o che Earl Monroe si raccomandasse: “Devi migliorare l’appoggio al tabellone”. Voglio dire, non solo potevamo parlare liberamente con gente come loro, ma spesso – non so dire come mai – erano loro a venire da noi. Da non credere».

A quei tempi, c’erano diverse manifestazioni riservate ai migliori studenti della zona e, fino all’arrivo della Hill League, la più rinomata era la Narberth League, che si giocava su campi all’aperto alla periferia di Philadelphia. Ciò che distingueva la Hill League dalle altre era che si giocava nel cuore della città, e al chiuso.

«Nel giro di poco tempo, la Sonny Hill League divenne la numero uno» ricorda Julius Thompson.

La Hill e la Baker League contribuirono a rinsaldare, nell’animo di chi giocava a basket a Philadelphia, un profondo senso di orgoglio e di appartenenza, fatto importante in quegli anni difficili, soprattutto quando a capo della polizia cittadina c’era Frank Rizzo, che ne sarebbe poi diventato anche sindaco, spiega Weiss. «Ovviamente negli anni Sessanta c’era parecchia rabbia in giro. C’era aria di rivolta ai tempi della vicenda di Martin Luther King. Era davvero pericoloso farsi beccare per strada sotto l’amministrazione Rizzo. C’era molta tensione tra bianchi e neri. Eppure il basket era l’unico sport che sembrava unire tutti quanti».

Hill fondò la Sonny Hill League in parte proprio per contrastare lo strapotere delle gang. Con una miriade di bande a sorvegliare i confini territoriali, era difficile per i ragazzi passare da un quartiere all’altro con i mezzi pubblici. Chi ci provava finiva spesso per farsi coinvolgere in qualche rissa di strada. Ma se un ragazzo girava con una borsa sportiva con il marchio della Sonny Hill League, di solito i membri delle gang lo lasciavano passare senza molestarlo, il che significava che i giocatori potevano disputare le partite pur provenendo dalle zone più disparate della città. Con intelligenza, Hill aveva reclutato parecchi rappresentanti delle forze dell’ordine in veste di allenatori e dirigenti, così le gang avevano capito presto che era meglio non dar fastidio ai giocatori della Hill League.

Nella lega vigeva inoltre una disciplina inflessibile. «Era vietato discutere con gli arbitri, o lasciarsi andare a qualsiasi tipo di intemperanza» ricorda Gilbert Saunders, che da giovane partecipò a vari tornei estivi. «A nessuno importava se giocavi bene. Dovevi essere responsabile delle tue azioni e del tuo comportamento».

«Sonny era fissato con la disciplina» concorda Dick Weiss. «Dovevi tenere la canottiera infilata nei pantaloncini per giocare. E non potevi discutere con gli arbitri, altrimenti interveniva lui di persona. Credeva fermamente che i ragazzi dovessero essere orgogliosi del proprio gioco, del proprio approccio, di voler fare le cose nel modo giusto».

La longevità e il successo della Hill League dipendevano dal singolare carisma e dal potere dello stesso Hill, afferma Weiss. «Riusciva a mettere in riga tutta la città, con quel torneo… Aveva un enorme peso politico all’interno della comunità, e fece leva su quello per fondare la lega».

È probabile che la lega di Hill fece crescere le quotazioni del basket all’interno della sfera cittadina, ma la cosa non faceva piacere a tutti. Qualcuno accusò Hill di sfruttare la propria influenza per indirizzare i giocatori migliori verso determinate scuole superiori, poi verso determinati college. Hill negava con decisione queste accuse e faceva di tutto per dimostrare il contrario.

«Un sacco di gente lo considerava un adulatore, interessato solo a sottrarre ragazzi agli altri tornei,» spiega Weiss «ma i suoi critici non capivano che Hill stava costruendo un senso di orgoglio, di appartenenza a Philadelphia. Non capivano quanto fosse importante che la città sviluppasse quell’orgoglio nei confronti di qualcosa di proprio».

Sonny Hill ricorda che Jellybean arrivò nella Hill League quando era in terza media o in prima superiore, ma non ci rimase. Pur essendo alto e atletico, gli mancava la maturità necessaria, ricorda Hill. «Ritornò circa un anno dopo ed era maturato parecchio. Credo che il merito fosse di suo padre».

Big Joe adorava la disciplina e la struttura della Hill League, al punto che continuò a lavorarci a lungo come volontario, anche dopo che entrambi i figli avevano smesso di prendere parte al torneo.

Fu in una di queste manifestazioni estive che Jellybean conobbe Mo Howard, e i due divennero subito grandi amici.

«Joey e io giocavamo insieme sia nella Narberth League che nella Hill League, e in un’altra squadra di un’altra lega» ricorda Howard. «La nostra estate era molto impegnativa. Anche senza contare i tornei minori. Eravamo sempre in campo. C’era sempre un posto in cui giocare, un’altra partita che stava per cominciare».

Al terzo anno di superiori, Jellybean e Mo Howard vinsero la Sonny Hill League con una squadra in cui militava, fra gli altri, Andre McCarter, che sarebbe poi andato a Ucla a giocare per John Wooden.

Poco dopo il padre di Howard, Edward, e Big Joe Bryant si conobbero e scoprirono di essere tutti e due della Georgia. Tra i due uomini si formò subito un legame solido.

«Erano entrambi genitori molto presenti» spiega Julius Thomp­son. «Si facevano in quattro per i loro figli».

«Nessuno andava in giro a testa alta più di Mr B e di mio padre» ricorda Howard con una risata. E, sia che lui e Jellybean giocassero insieme o in squadre diverse, quei due si sedevano uno accanto all’altro e parlavano senza sosta. «Proprio così,» aggiunge Howard «era come se fossero nati per incontrarsi. Mr B era alto e grosso. Mio padre invece era basso e robusto, faceva il camionista, e la prima persona che cercava appena entrava in palestra era Joe Bryant, Mr Big, come lo chiamavamo noi. C’era un rapporto molto vivo fra Joey e me, come tra i nostri padri».

Gli afroamericani della generazione precedente, ricorda Howard, non avevano le opportunità nel mondo dello sport di cui ora disponevano i giovani come Mo e Joe. «I nostri genitori pensavano: “Qualunque cosa facciate, ragazzi, qualsiasi successo o traguardo raggiungiate, dovete condividerli con noi”. Era quasi una conferma della loro identità. Vedere i loro figli esprimersi sul campo a quel livello li riempiva di orgoglio. Avevano due figli che erano ottimi giocatori di basket.

«Era questo che univa Mr B e mio padre. Si volevano un gran bene. Sappiamo benissimo come vanno le cose di solito. Quando un ragazzo sfonda nel mondo dello sport, specialmente un ragazzo di colore, il padre salta fuori soltanto quando il figlio comincia a fare soldi. I nostri erano con noi fin dall’inizio. Ci compravano le scarpe, ci compravano le calze, ci davano i soldi per gli hot dog dopo le partite. Erano parte integrante delle nostre vite. Venivano dappertutto insieme a noi. A proposito di sostegno, loro pensavano che se non si fossero fatti vedere, la gente avrebbe potuto pensare che non gliene fregava nulla dei loro figli. E lo dirò sempre, finché campo, mio padre e il signor Bryant, loro li conoscevano tutti, e tutti li rispettavano».