21. California Stars

Lui la chiamava «la faccia da spettro», quella inespressiva, priva di emozioni, con cui usciva dallo spogliatoio dopo una sconfitta, affrettandosi a raggiungere la propria Mercedes coupé e scomparire. Mentre lasciava il Forum dopo l’atto conclusivo di quella scoraggiante stagione 1999, gli chiesero cosa avrebbe fatto in estate. «Basket» replicò seccamente. «Non esiste nient’altro».

In realtà c’era molto di più nei suoi programmi, e nel corso dei mesi successivi tutto gli sarebbe piombato addosso alla velocità di un treno in corsa.

In apparenza, le cose sembravano andare bene per la famiglia Bryant nell’autunno del 1999. Il figlio avrebbe giocato per Phil Jackson, il cui nome e la cui reputazione bastavano a tranquillizzare tutti. Era l’unico che poteva risolvere i problemi di spogliatoio dei Lakers. Dopotutto era stato proprio lui, il grande Phil Jackson, il coach dei sei titoli dei Bulls, a dichiarare pubblicamente che considerava Kobe un giocatore «jordanesco». Cosa poteva andare storto?

Per tre stagioni, Joe Bryant aveva temuto in modo costante e ossessivo che il rapporto tra Kobe e i Lakers potesse crollare come un castello di carte. Adesso il futuro di suo figlio sembrava finalmente orientato nella giusta direzione. Il modo in cui Joe aveva patito gli alti e bassi della carriera del figlio aveva sempre influenzato le dinamiche familiari, sostiene la solita amica di famiglia, allora molto vicina ai Bryant. «Era completamente accecato da Kobe, da come andavano le cose, dai suoi allenatori e da ciò che avrebbero dovuto o non dovuto fare. Sarebbe stato meglio se Joe si fosse fatto un po’ da parte, smettendo di interferire, ma se qualcuno provava a dirglielo, lui alzava i tacchi e se ne andava. Non ti puoi comportare in quel modo, quando sei il genitore di un giocatore. Covava dentro di sé una frustrazione incredibile».

Era come se Joe, l’uomo più affabile del mondo, fosse incapace perfino di stare ad ascoltare quando si toccava l’argomento del figlio.

Se Kobe era riuscito a staccarsi emotivamente da un sacco di persone del passato, Joe continuava a mantenere i contatti. Parlava spesso con Sam Rines, Gary Charles e Sonny Hill, spiriti affini sempre pronti a chiacchierare con lui, quando si alzava alle prime luci dell’alba in California mentre a Est erano già le nove del mattino.

Per alcuni dei suoi vecchi amici, era ovvio che Joe fosse preoccupato sul serio che il figlio non riuscisse a legare con Shaq. Questo era un grosso problema, molto più grave dei problemi incontrati da Joe ai tempi dei Sixers, perché il giovane Joe riconosceva l’autorità e il carisma di Julius Erving e degli altri veterani della squadra. Ma era stato proprio lui a crescere il figlio in modo differente.

«Sai che ti dico?» ripeteva spesso Charles a Joe quando discutevano dei problemi tra Kobe e Shaq. «È per questo che Kobe è quello che è, ed è per questo che si trova dove si trova. Io la chiamo fiducia in sé stesso».

Esattamente come Gregg Downer, Charles sostiene di aver capito molto prima che Kobe arrivasse a Los Angeles che la sua natura competitiva avrebbe finito per creargli dei problemi, «ma è per questo che è diventato quello che è diventato».

Anche Rines era dell’opinione che Kobe non dovesse arretrare di fronte a O’Neal. Ascoltando i racconti di Joe, Rines era sbalordito dagli sviluppi, pubblici e privati, nella vita della giovane star. Sempre alla ricerca di fondi per la sua squadra nella Aau, Rines parlava abbastanza spesso con Joe in quel periodo. Al coach era stato promesso un sostegno futuro sia da Adidas sia dalla stessa famiglia Bryant, ma nulla di significativo si era poi concretizzato.

In realtà, un altro grosso problema tormentava la mente di Joe Bryant nell’autunno del 1999. Suo figlio era ricco, sì, ma Joe aveva un disperato bisogno di soldi.

La situazione metteva in risalto un problema che non era mai stato esplicitato da quando suo figlio aveva preso parte al Tonight Show, prima dell’inizio della stagione da rookie, e aveva detto a Jay Leno che ormai passava lui la paghetta ai genitori.

La sensazione diffusa era che i Bryant non stessero solo tenendo sotto controllo la vita del figlio, ma che volessero controllare il suo conto in banca.

«Vivevano sulle sue spalle» racconta Sam Rines, ripensando a tutta quella situazione. «Era come se dicessero: “Sono anche soldi nostri”».

Il contratto ritoccato di Kobe con Adidas aveva messo la parola fine alle provvigioni per il padre. Sonny Vaccaro calcolava che la compagnia avesse versato a Joe circa trecentomila dollari in due anni, ma adesso non erano più previsti pagamenti diretti.

In cerca dunque di nuove entrate e di un futuro stabile, Joe Bryant, che allora aveva appena quarantacinque anni, sembrava covare due idee di fondo. La prima era cercare di convincere il figlio a rilevare la proprietà di una squadra di basket italiana, che Joe avrebbe gestito finché Kobe era all’apice della carriera. Quando poi Kobe avesse deciso di ritirarsi dalla Nba, avrebbe preso il posto del padre giocando o dirigendo la squadra in Italia, o magari entrambe le cose.

La seconda idea nasceva dalla consapevolezza che la trattativa per il contratto di sponsorizzazione gli aveva fatto guadagnare un sacco di soldi. Ma dal momento che i rapporti tra Joe e Adidas erano giunti al capolinea, Joe cominciò a pensare di lavorare di nuovo dietro le quinte per portare Kobe a cambiare partnership, nonostante gli affari tra il figlio e l’azienda europea andassero a gonfie vele. Un mossa del genere, se fosse andata in porto, avrebbe potuto sistemare le finanze di Joe per anni.

Nessuno poteva sospettare, all’epoca, che le idee di Joe avrebbero finito per stravolgere l’intero mercato delle calzature.

Trovare un nuovo sponsor richiedeva tempo e delicatezza, ma la squadra italiana era qualcosa che si poteva realizzare subito, già in quell’autunno del 1999.

«Joe voleva farlo a tutti i costi» spiega l’amica di famiglia. «Kobe invece pensava che fosse una follia. Tutti la ritenevano una pessima idea, ma Joe era convinto che fosse possibile solo in virtù del fatto che aveva vissuto in Italia. Era certo di riuscirci, anche se nessuno, e ripeto nessuno, pensava che fosse un’idea valida».

In realtà, almeno un aspetto del piano di Joe allettava il figlio. Per molto tempo aveva ripensato agli anni trascorsi in Italia con una sorta di affetto nostalgico e considerava l’Italia il posto ideale per crescere la sua famiglia, lontano dai pericoli della violenta società americana.

«I miei bambini potrebbero crescere senza la paura costante delle sparatorie nelle scuole, di tutta la follia che c’è qui» aveva confidato a un giornalista. «Mi piacerebbe vivere circondato da quel tipo di pace e di serenità».

È per questo che Kobe assecondò l’idea del padre. Quell’autunno, Joe e Kobe posarono insieme per la stampa quando annunciarono, insieme a Arn Tellem, di aver acquistato la prestigiosa Olimpia Milano, l’equivalente italiano dei New York Yankees. Bryant scelse come socio l’imprenditore del settore caseario Pasquale Caputo, che aveva fatto fortuna in Wisconsin ma era nato in Italia. L’accordo prevedeva che le due parti mettessero sul piatto una cifra stimata di due milioni di dollari a testa.

Joe venne incaricato di mandare avanti la squadra ma, sfortunatamente, non possedeva alcuna esperienza nel campo del business management.

«Cercò di gestirla come se fosse una squadra Nba» ha spiegato un avvocato che aveva partecipato alle operazioni legate all’affare. «Ma non era possibile».

Il padre subì una dura lezione in materia di gestione delle risorse economiche. Pagò troppo alcuni giocatori e, a causa anche di altri problemi concomitanti, la società si trovò subito in cattive acque dal punto di vista contabile. A quanto si sa, Kobe dovette versare sempre più denaro nelle casse societarie, che cominciavano a somigliare a un pozzo senza fondo, con le entrate che non arrivavano nemmeno lontanamente a coprire le spese. È difficile stabilire con esattezza, dice Sonny Vaccaro, quanti milioni Bryant sperperò in quell’impresa prima di decidere di staccare la spina. Il conto in banca della star dei Lakers era di tutto rispetto ma, nel giro di pochi mesi, divenne chiaro che nemmeno lui aveva le risorse astronomiche necessarie a tirare fuori dai guai una società che si trovava dall’altra parte del mondo.

«La causa del crollo era quella: Kobe non aveva abbastanza soldi» ricorda Sam Rines. «Quando ne parlai con Joe, capii che Joe sapeva di aver combinato un casino. Pensava di poterne uscire e sosteneva che Kobe non aveva colto il quadro nel suo insieme».

«Forse Kobe pensava che comprando una squadra in Italia avrebbe tenuto Joe impegnato con qualcos’altro, ma la mossa si rivelò un disastro» racconta l’amica di famiglia. «Non aveva idea di cosa stesse facendo. Non c’era verso di convincerlo. Non ti potevi mettere in mezzo. Nessuno era in grado di fare niente».

«Credo che ci sia stato un problema di comunicazione,» sostiene Sam Rines «ma credo anche che molti si approfittassero di Kobe, spingendolo a prendere delle decisioni, perché Kobe aveva fretta di dimostrare di essere un uomo. In pratica credo che quando una persona si mette in testa di dimostrare di essere un uomo adulto, e ci sono dei soldi di mezzo, c’è un sacco di gente che cerca di convincerti a fare quello che vuole lei».

All’inizio dell’autunno successivo, nel 2000, Bryant e Caputo avrebbero permesso a un gruppo di imprenditori italiani di subentrare alla guida della squadra, giusto per non farla affondare. Nel giro di neanche un anno, la più prestigiosa squadra italiana era sull’orlo della bancarotta, secondo il parere dell’avvocato che aveva seguito l’operazione. Mentre sulla stampa americana quel crac fu confinato in qualche trafiletto, in Italia ne parlarono tutti, e l’Italia era un posto che stava molto a cuore a Kobe Bryant.

«Buttarono al vento milioni di dollari» ricorda Sonny Vaccaro. «Una cosa imbarazzante».

Quello fu un momento terribile, continua Vaccaro, perché Kobe adorava suo padre, per lui era stato un idolo, e adesso ne era rimasto profondamente deluso.

«È allora che perse la fiducia nel padre» sostiene Vaccaro, e Rines la pensa come lui. Bryant non si sbottonò mai troppo in merito a quel disastro, a parte sostenere che era riconducibile a una serie di malintesi e alla mancanza di comunicazione.

Le ingenti perdite legate all’Olimpia Milano finirono per danneggiare anche la vecchia squadra di Aau di Bryant. «Kobe ci aveva promesso soldi e altri aiuti,» ha raccontato Rines nel 2015 «ma non si materializzò niente. Poi i rapporti tra Joe e Kobe si incrinarono, e a quel punto capimmo che era finita. Adesso saranno quattro o cinque anni che non parlo con Joe. Parlavamo spesso in passato, e lui mi diceva sempre: “Abbi pazienza, devo ricostruire il rapporto”».

Forse sarebbe stato possibile ricostruirlo se un’altra grande forza non fosse intervenuta nella vita di Kobe, proprio nell’autunno del 1999.

Mentre collaborava con Anthony Bannister e con il gruppo di artisti hip hop per cercare di finire l’album, alcuni dirigenti della Sony avevano provato a convincere Bryant a realizzare un disco tutto suo, tagliando fuori i ragazzi di Philadelphia. È probabile che la Sony avesse accettato di investire in quel progetto solo per la presenza di Kobe. Era stato quello l’unico motivo per cui la società aveva accettato di rischiare mezzo milione di dollari nell’impresa.

In più, lo stile di Bryant sembrava andare sempre meno d’accordo con quello più tagliente di Bannister. Era ovvio che Bryant non aveva mai visto le cose che raccontava Bannister, neppure nei film. Per tutta la sua adolescenza, Joe e Pam si erano assicurati che a casa loro non si potesse guardare alcun programma vietato ai minori. «Lo avevano protetto da qualsiasi spettacolo negativo, violento o troppo esplicito dal punto di vista sessuale» avrebbe raccontato in seguito a «Newsweek» Rebecca Tonahill, una delle amiche di Bryant nei primi anni a Los Angeles. «Pensavano di fargli un favore, ma in realtà non era così. Aveva bisogno di vedere anche programmi di quel genere, se non altro per avere punti di riferimento culturali in comune quando usciva con i compagni di squadra o i coetanei».

O per scrivere testi rap.

L’egocentrismo e la sicurezza in sé stesso del ragazzo, oltre all’influenza della Sony, spinsero Kobe a prendere quella decisione. Avrebbe terminato il disco da solo. Secondo il ricordo dell’amica di famiglia, gli artisti di Philadelphia fecero le valigie e se ne tornarono a casa, con grande sollievo di Pam Bryant.

Kobe e la Sony, nel frattempo, programmarono il lancio del progetto solista in concomitanza con l’All-Star Game del febbraio 2000. Bryant si sarebbe esibito in coppia con Tyra Banks, una delle tante celebrità presenti all’evento, a cui avrebbero partecipato anche Brandy, e Kelly Rowland e Beyoncé Knowles delle Destiny’s Child, con cui usciva ogni tanto in quel periodo. Anche Venus Williams sarebbe entrata a far parte di quella ristretta élite, dopo che Kobe le ebbe inviato un mazzo di rose congratulandosi con lei per essersi aggiudicata per la prima volta il torneo di Wimbledon.

In teoria, l’esibizione all’interno del weekend dell’All-Star Game poteva essere un’ottima idea, dal momento che sembrava poter proiettare Bryant nell’empireo delle star più grandi. In realtà, sia la canzone che l’esibizione nel suo insieme si rivelarono l’ennesimo disastro. Bryant rappava di voler trovare il vero amore, con il sottinteso che frequentava attrici e stelle dello spettacolo perché non avevano bisogno della sua fama e delle sue ricchezze.

L’accompagnamento della Banks consisteva nel sillabare questo ritornello:

k-o-b-e, i l-o-v-e you

I believe you are very fine

If you give me one chance, I promise to love you

And be with you forever more.

I critici stroncarono l’esibizione, definendola ridicola. In marzo Kobe fece un’apparizione a Los Angeles in occasione dei Soul Train Music Awards per promuovere il disco. Alle domande dei giornalisti, rispose misteriosamente in italiano.

Per quanto umiliante potesse essere stata quell’esperienza, gli regalò la relazione più importante della sua vita. Nell’autunno del 1999, mentre stava girando il video di una delle sue canzoni, incontrò una ballerina molto graziosa, Vanessa Cornejo Urbieta Laine, diciassette anni, pare scoperta tra la folla da un produttore a un concerto hip hop. Si trovava negli studi di registrazione, accompagnata dalla madre, per prendere parte a un video di Snoop Dogg proprio mentre Bryant stava girando il suo.

Come avrebbe spiegato in seguito Bryant, fu amore a prima vista. Nel giro di pochi giorni, Kobe aveva sommerso di rose gli uffici della scuola superiore nella contea di Orange dove la ragazza studiava, come segno del proprio amore. E quando Kobe cominciò a presentarsi all’uscita della scuola con la Mercedes, per darle un passaggio, si creò un tale caos e una tale confusione che Vanessa dovette rassegnarsi a terminare l’anno studiando da casa.

Anche se ballava nei video di hip hop, Vanessa era la classica brava ragazza cattolica, coccolata e protetta dalla famiglia tanto quanto Bryant era stato accudito dalla propria. Sua madre era divorziata e risposata, e Vanessa aveva preso il nome del patrigno. In seguito, il «Los Angeles Times» raccontò che la famiglia aveva problemi economici.

Come capita spesso ai giovani innamorati, i due avevano un progetto preciso, cioè trascorrere più tempo possibile insieme. Pam, che in passato aveva spezzato il cuore di suo padre innamorandosi di Jellybean, dovette convivere a sua volta con una grandissima delusione. Col passare del tempo, i Bryant si ritrovarono intrappolati in un conflitto reso ancora più complicato dai milioni di Kobe, dagli strascichi delle vicende legate alla squadra italiana e dal fatto che Vanessa Cornejo Urbieta Laine possedeva una personalità coriacea quanto quella di Pam.

«E Pam era una che non scherzava affatto» osserva Gary Charles.

Senza ombra di dubbio, sugli avvenimenti dei diciotto mesi successivi ci sarebbe stato ben poco da scherzare.

«Il fatto è che Kobe si era chiuso così tanto in sé stesso che, quando alla fine si è aperto un po’, è caduto all’istante cotto come una pera» spiega Charles.

Questi eventi clamorosi – la profonda delusione datagli dal padre e l’improvvisa infatuazione per una fata dai capelli neri – portarono a sconvolgimenti epocali nella vita di Kobe. Molte persone che lo conoscevano fin da bambino intuivano che un cambiamento era alle porte.

«Ad un certo punto, i ragazzi iniziano a pensare con la loro testa» osserva Charles. «All’inizio, quando sono ancora giovani, danno ascolto al padre, alla madre e alle persone che gli stanno intorno, ma poi alle loro orecchie giungono voci diverse e cominciano a pensare in modo autonomo e a sviluppare idee personali su quello che vogliono fare nella vita».

LA ROADSTER

Nell’autunno del 1999, quando Phil Jackson era ormai destinato ad assumere il controllo dei Lakers, il presidente di Adidas, Peter Moore, riuscì a realizzare quella che, nella sua visione, era la scarpa perfetta per Kobe, un modello chiamato appunto «the Kobe», pronto per essere distribuito all’inizio della stagione ormai alle porte.

La scarpa si ispirava chiaramente all’Audi TT Roadster, con un design slanciato in linea col nuovo millennio. «Per me era un punto di contatto ideale tra lo sport, il basket, lo stile e la moda» ricorda Moore. «Sono arrivato perfino ad assumere i progettisti che avevano lavorato sul concept originale dell’Audi per collaborare al design della scarpa».

Moore considerava la Roadster un elemento di rottura dal punto di vista del design e desiderava ottenere lo stesso effetto con la scarpa di Bryant.

«La prima volta che gli ho mostrato il modello, spiegandogli quello che avevamo in mente, si capiva che era molto eccitato, perché gli si è illuminato il volto» afferma Moore. «È stato molto divertente. Aveva colto appieno lo spirito e capito che si trattava di uno scarto rispetto al passato. Gli sembrava tutto molto cool. Anche il colore giallo era molto cool».

La scarpa piacque perfino ai genitori di Bryant, racconta Moore, il che era un bel sollievo perché «tutta la famiglia era un po’ ossessionata, un po’ fuori di testa. L’idea della TT però piaceva a tutti. Magari non la comprendevano fino in fondo, e io mi sono guardato bene dal mettermi a spiegare ogni dettaglio».

Poi arrivò il momento di girare uno spot decisivo per il lancio dell’idea di base. «La prima cosa che si vede è un tizio vestito di pelle nera dalla testa ai piedi, con indosso un casco» spiega Moore. «Poi il tizio inforca una moto Ducati e la lancia a tutta velocità per le strade di L.A., fino all’arena del basket».

Una volta lì, l’inquadratura mostra Bryant che appoggia un piede a terra mostrando la nuova scarpa, si toglie il casco e si avvia all’interno del nuovissimo Staples Center, che è a sua volta un capolavoro di design. «Guidava velocissimo e faceva un sacco di curve e sterzate» racconta Moore. «Replicava alla perfezione il modo di giocare di Kobe. Abbiamo pensato: “Per il ragazzo questo sarà un nuovo punto di partenza”».

La motocicletta era la metafora ideale della spregiudicatezza di Kobe. Il motociclista, ovviamente, era una controfigura. I regolamenti dello spettacolo, le polizze assicurative e le clausole del contratto con i Lakers gli impedivano categoricamente di guidare una moto, anche se in seguito se ne sarebbe comprate un paio per scorrazzare nella California del Sud.

«Lo spot era tutto incentrato sullo stile, il basket non c’entrava niente» racconta Moore. L’obiettivo era permettere al segmento giovane del mercato di scoprire l’importanza dello stile fine a sé stesso, attraverso il semplice potere della suggestione visiva. «Avevo la sensazione che i giovani stessero cambiando» spiega Moore. «Presto avrebbero cominciato ad acquistare un prodotto lasciandosi ispirare più dallo stile, dal look, che dal basket».

In pratica, Moore stava ripartendo da dove si era fermato ai tempi di Jordan e del logo Jumpman, l’uomo che salta a gambe divaricate, che aveva finito per trascendere il semplice basket. La direzione impressa dai pubblicitari era lontana dall’obiettivo iniziale di Bryant, cioè ammiccare a un pubblico in prevalenza urbano, ma Adidas confidava nel fatto che quella nuova immagine si adattasse meglio al personaggio. Bryant però sembrava riluttante.

«In un certo senso aveva capito quello che stavo facendo, ma non è che ci credesse poi tanto» ricorda Moore. «Non pensava che fosse chissà quale punto di svolta, che fosse così importante o che fosse proprio quella l’immagine che intendeva trasmettere».

Soltanto in un secondo momento, Moore comprese che Bryant aveva i suoi motivi per prendersi una pausa, a prescindere da quanto azzeccata fosse l’idea di base. In pratica, avrebbe dovuto sfoggiare le nuove scarpe all’ultima moda all’interno di ogni spogliatoio, durante gli allenamenti e le partite. Era da tre anni ormai che la giovane star non faceva altro che quello e cominciava a non poterne più di essere sempre la pietra dello scandalo.

REGOLE DELLA STRADA

All’inizio della stagione 1999-2000, la vita privata di Bryant era già piuttosto impegnativa, tra il lancio della nuova scarpa, il contratto discografico e la nascente storia d’amore con Vanessa. In più, doveva scoprire i nuovi allenatori, due personaggi dall’approccio assai pragmatico alla professione del basket e poco propensi a divagazioni romantiche di qualsiasi tipo.

Tex Winter, il nuovo assistente allenatore dei Lakers, nonché il genio riconosciuto degli schemi d’attacco, adottò da subito un’aria da nonno saggio che aveva sempre funzionato nella vita di Bryant. Winter sapeva essere duro nel formulare i giudizi sui giocatori, ma con Bryant mise in chiaro fin dall’inizio che le sue critiche – piuttosto frequenti in verità – non erano mai rivolte al giocatore in quanto persona, ma alle sue azioni sul campo. In realtà, Winter era già affascinato dal suo nuovo discepolo, che studiava il gioco e si allenava con un fervore mai visto, per far sbocciare il proprio straordinario talento, e lo faceva con una dedizione perfino maggiore dell’immenso Michael Jordan. Winter aveva allenato Jordan più a lungo di qualsiasi altro coach, e con risultati eccellenti, eppure a livello personale il rapporto non era decollato.

In Bryant, Winter vedeva la classe assoluta, indebolita solo dalla sua cieca ambizione e da una scarsissima esperienza in materia di gioco di squadra. Quello sarebbe stato il punto di partenza di una splendida relazione – Bryant ribattezzò subito Winter «Yoda» –, sviluppata attraverso lunghe ore trascorse a studiare, analizzare e chiacchierare di basket. Da una parte, il maestro del gioco di squadra, il purista senza eguali nella storia di una lega impura come la Nba. Dall’altra, il giovane genio prigioniero della propria favola, spinto a folle velocità dai suoi stessi sogni e dalle sue spasmodiche aspettative.

Per quanto riguarda Phil Jackson, invece, appena ufficializzato il suo ingaggio per la panchina dei Lakers, Bryant aveva acquistato il suo libro Basket & Zen. Sacred Hoops ed era andato a salutarlo nell’hotel in cui alloggiava. In un primo momento, Jackson sembrò interessato al ragazzo, ma il nuovo coach aveva anche un modo tutto suo di tenere la gente a distanza, con i silenzi e le lunghe pause che lasciavano interdetti i giocatori che cercavano di decifrarlo. Jackson era lì per vincere il campionato, mentre quella giovane forza della natura con la maglia numero 8 voleva diventare una star. Bryant intuì subito che la loro relazione non sarebbe stata tutta rose e fiori.

Jackson e Winter si erano portati dietro lo staff tecnico con cui avevano condiviso l’avventura dei sei, magici titoli con i Chicago Bulls di Michael Jordan.

L’ex preparatore atletico dei Bulls, Chip Schaefer, arrivò ai Lakers con l’incarico di osservatore e scout. Forse più di qualsiasi altro membro dello staff, aveva vissuto in prima persona ogni momento del lungo regno di Jordan. «Quelle formazioni erano così unite, così mature, adulte e responsabili» ricorda Schaefer. «È stata una benedizione allenare e lavorare con un gruppo simile. Non avrei potuto augurarmi di meglio».

Gli uomini dello staff stavano già provando a immaginare come sarebbe stato lavorare tra il fascino di Hollywood e dei leggendari Lakers. Non ci misero molto a capire che i gialloviola, nell’autunno del 1999, non godevano neanche lontanamente della coesione dei Bulls di Phil Jackson.

Anche se le dinamiche di gruppo erano sballate, Schaefer rimase sorpreso nel trovare in Bryant «un personaggio molto professionale e un agonista senza pari, con una dedizione incredibile a un unico obiettivo, diventare il migliore, spinta a un livello che non avevo mai riscontrato nella mia carriera. Era vero e genuino».

All’inizio della sua collaborazione con i Lakers, il settantasettenne Winter, che aveva alle spalle mezzo secolo di esperienza come allenatore, ebbe la pazienza di ascoltare i giocatori che si sfogavano e svisceravano i problemi della squadra, e pensò tra sé e sé che sarebbe stato quasi impossibile vincere il titolo al primo anno.

Appena una stagione prima, i Lakers avevano talento da vendere, ma Buss aveva dilapidato gran parte di quel patrimonio. I nuovi allenatori presero in esame la situazione e conclusero che avevano bisogno della ex stella di Chicago, Scottie Pippen, che si era trasferito a Houston dopo il ritiro di Jordan, quando i Bulls avevano smantellato la squadra pluricampione della Nba.

Jackson disse chiaro e tondo, con insistenza, sia a Buss che a West, di avere un bisogno vitale del tuttofare Pippen, che era stato l’anima dei grandi Bulls. Anche se uno scambio con i Rockets era tutt’altro che irrealizzabile, West rimaneva contrario ed era chiaramente turbato dall’idea che un manipolatore come Jackson potesse prendere il controllo della sua squadra.

«Gli do sei settimane di tempo» disse West allo scagnozzo di Jackson, Charley Rosen, mentre osservavano lo sciame di giornalisti che attorniava la squadra per il media day, all’apertura del training camp, in autunno. Col senno di poi, quell’osservazione fu un errore grossolano, perché, prima ancora di iniziare la stagione, accese la miccia del risentimento che aveva già incrinato fin dal primo momento il delicato rapporto tra West e Jackson. In più, si trattava di un messaggio palesemente assurdo, il classico esempio di nervosismo gratuito che West aveva infuso nella franchigia per anni. Questo comportamento spinse Jackson e i suoi collaboratori a considerare West come una persona che in qualche modo minava la loro autorità, soprattutto agli occhi di Bryant, come Rosen e diversi altri membri dello staff avrebbero ammesso più avanti. Jackson cominciò a sospettare che per esercitare un controllo sui Lakers non dovesse solo misurare la propria volontà contro quella di Bryant, ma anche contro quella di West.

Buss, da parte sua, rispose di non avere il denaro per inseguire il trentaquattrenne Pippen, così i Lakers fecero marcia indietro, permettendo ai Portland Trail Blazers di cogliere al volo l’occasione. La rinuncia contribuì ad aumentare le difficoltà per i Lakers di Jackson. Pippen conosceva l’attacco triangolo di Winter come le sue tasche, era un difensore unico e aveva il carisma giusto per provare ad aggiustare i rapporti compromessi tra Kobe e Shaq, almeno secondo gli uomini di Jackson.

«[Pippen] è perfetto per il tipo di sistema che ho intenzione di applicare» dichiarò Jackson, per poi aggiungere: «Se io avessi un conto in banca paragonabile a quello di Paul Allen [il proprietario dei Portland Trail Blazers] chiuderei la questione personalmente».

Quel commento mandò su tutte le furie Buss, che aveva offerto a Jackson la cifra astronomica di otto milioni di dollari a stagione per allenare la squadra.

Soffocando a fatica la delusione, Jackson si dedicò alla sfida principale, ovvero stabilire le gerarchie all’interno della squadra.

Fin dal primo giorno di allenamento, Jackson collocò al centro del suo progetto Shaquille O’Neal, affidando una grande responsabilità al gigantesco centro – due metri e sedici per centoquarantasette chili. «Questa squadra deve porsi l’obiettivo di vincere sessanta partite» disse Jackson ai giornalisti di L.A. all’inizio del training camp. «Secondo me è un obiettivo realistico».

A metà di quel pensiero si prese una pausa e guardò in direzione di O’Neal, seduto lì vicino. «Passeremo la palla dentro a Shaq,» continuò Jackson «e lui avrà la responsabilità di distribuirla ai compagni. Sarà un bene per la squadra, ma anche per lui».

Durante la stagione precedente, Kurt Rambis aveva tentato di introdurre alcuni schemi per permettere alla nuova arma offensiva Glen Rice di tirare uscendo dai blocchi. O’Neal aveva provato a eseguirli per qualche settimana, poi aveva informato Rambis, dopo un meeting tra giocatori, che quegli schemi dovevano sparire.

«Se devo giocare in una squadra in cui ogni volta che passiamo la metà campo dobbiamo per forza chiamare uno schema, per me è arrivata l’ora di smettere» confidò O’Neal in seguito. «Vorrebbe dire che non sono più un centro efficace. Se è così, significa che vogliono utilizzarmi come una pedina per portare blocchi. Non voglio giocare in quel modo. Voglio poter correre e fare il pazzo, lanciare occhiate ai tifosi e fare facce buffe. Se devo chiudere la carriera portando blocchi agli altri, è meglio che smetta. Vuol dire che non ho più il talento dentro di me».

I sei titoli che scintillavano nel curriculum di Phil Jackson cambiarono su due piedi quel modo di pensare, racconta Schaefer. «Mi ricordo perfino il primo discorso di Phil, nella palestra della University of California, a Santa Barbara. Era l’autunno del 1999. Mi vennero in mente i vecchi spot televisivi della EF Hutton (quando lui parlava, la gente stava ad ascoltare). Quei ragazzi non vedevano l’ora di farsi allenare, di avere una guida. Si sarebbe sentito cadere uno spillo. Ho pensato: “Dài, spruzza ancora un po’ di quella polvere magica. Danne un po’ anche a me. Dammi le tue perle di saggezza”. Quel gruppo, fin dall’inizio, era pronto a farsi guidare da lui. Volevano tutto ed erano pronti ad assorbire tutto».

Malgrado l’entusiasmo generale, il pensiero di imparare a muoversi nell’attacco triangolo di Winter metteva molti a disagio. Obbligava i giocatori a registrare le mosse della difesa e a scegliere, invece di eseguire semplicemente schemi preordinati. In pratica, il triangolo richiedeva che le ali su ciascun lato del campo giocassero come un quarterback nel football: dovevano «leggere» la difesa per poi iniziare una sequenza di passaggi e di tagli per contrastare le scelte degli avversari.

Dopo anni trascorsi a studiare il sistema di Winter a Chicago, Jackson sapeva benissimo cosa fare per avviare il processo nella giusta direzione. A Chicago, Winter era rimasto sbalordito dal rapporto stretto che Jackson era riuscito a instaurare con Jordan. «Quando hai una relazione così forte con la tua star, il resto della squadra si allinea sempre, in un modo o nell’altro» spiega l’anziano assistente. «Phil ha messo grande impegno nel costruire il suo rapporto con Michael».

A Los Angeles, la priorità assoluta per Jackson era sviluppare una relazione analoga con O’Neal. Sapeva che O’Neal era motivato dall’idea di segnare molti punti, e il triangolo era costruito in modo da mettere il giocatore in post nella condizione di andare spesso a canestro. Così Jackson fece un accordo con il suo nuovo centro. Se O’Neal avesse dimostrato la leadership che Jackson cercava, il sistema gli avrebbe dato la possibilità di segnare una valanga di punti.

Se O’Neal non fosse stato pronto o non avesse compreso i dettami del triangolo fin dal training camp, Bryant si sarebbe candidato volontariamente per l’incarico di realizzatore principe. Schaefer ricorda bene le prime sessioni autunnali di allenamento, in cui i giocatori stentavano a comprendere l’attacco.

«Kobe fece una battuta fantastica» racconta Schaefer. «Disse: “Ma voialtri non prendete la Tnt?”. I Bulls passavano di continuo in televisione, perciò era come se lui conoscesse già l’attacco, in ogni dettaglio. Prima ancora del primo allenamento, già sapeva tutto. Cioè, conosceva almeno le posizioni chiave sul campo. Conosceva i movimenti base. Sapeva cosa poteva trarre da una determinata situazione. Una cosa davvero stupefacente».

«Quante partite dei Bulls hai visto?» chiedeva ai suoi compagni. «Non hai guardato con attenzione? Come fai a non prestare attenzione a questa roba?».

«Era di un’intelligenza pazzesca» osserva Schaefer. «Se avesse deciso di andare al college, si sarebbe potuto laureare a pieni voti in qualsiasi materia».

Anche O’Neal comunque era sveglio e imparò in fretta a destreggiarsi nel nuovo attacco, racconta Winter, aggiungendo che di solito i giocatori di post erano più veloci a imparare il sistema perché le loro opzioni sono più semplici rispetto a quelle degli esterni.

Se per un verso Bryant era pronto per il triangolo, dall’altro non lo era. Il sistema richiedeva che la palla si muovesse di continuo tra i giocatori in campo. Chiunque interrompesse il flusso, provando a giocare uno contro uno invece di cercare l’uomo libero, era etichettato come un ball stopper.

Per anni, Bryant sarebbe stato considerato un esperto del triangolo. Winter lo elogiava di continuo, ma Bryant era spesso anche un ball stopper, fatto piuttosto frustrante anche se non del tutto inaspettato per Winter e Jackson. Si trattava infatti di un problema noto perché anche Jordan era stato un ball stopper. Per Winter era diventato quasi un incarico full time, sera dopo sera, quello di convincere Jordan a passare la palla ai compagni. In alcune partite le raccomandazioni di Winter funzionavano, e tutto l’attacco girava molto meglio.

Winter capì subito che Bryant avrebbe finito per somigliare molto a Jordan anche sotto quel punto di vista, ma Bryant era peggio, perché almeno Jordan tre anni al college con Dean Smith li aveva fatti, e il primo assistente di Dean Smith era Bill Guthridge, che aveva giocato il triangolo a Kansas State sotto Tex Winter ed era poi stato primo assistente di Winter per diversi anni.

Guthridge aveva introdotto molti princìpi del triangolo nel sistema disciplinato di North Carolina, e Jordan aveva giocato all’interno di quel sistema per tutta la sua permanenza al college.

Per quanto riguarda la difesa, i nuovi allenatori dei Lakers, come i loro predecessori, non gradivano la tendenza di Bryant ad andare sempre a caccia della palla. Capitava spesso che lasciasse libero il proprio uomo per mettersi a inseguire la palla, nella speranza di rubarla per partire in contropiede in campo aperto e magari concludere l’azione con una schiacciata spettacolare. Anche Jordan ogni tanto si ostinava a cercare di rubare palla, ma Bryant ci cascava di continuo e indeboliva tutta la difesa, a prescindere dal valore delle sue belle schiacciate.

I veterani della squadra speravano che Jackson cominciasse subito a punire Bryant, ricorda Derek Fisher. Questo però non avvenne. «Aspettò un bel po’ prima di cominciare. Non lo fece subito il primo giorno» racconta Fisher. «Diede prima a Kobe la possibilità di farsi conoscere. Credo che Jackson volesse vedere con i suoi occhi come stavano le cose, quale fosse il grado di partecipazione di Kobe agli allenamenti e alle partite, cosa provavamo noi nei suoi confronti e cosa lui provava per noi. Phil aspettò di vedere con i suoi occhi prima di emettere giudizi e stabilire se fosse necessario compiere degli aggiustamenti. Non si presentò dicendo subito a Kobe che doveva modificare il suo gioco o contenere la sua creatività. Diede tempo alle cose di maturare, poi iniziò a dire qualcosa qua e là, dove gli sembrava il caso. Non riprendeva mai Kobe in modo che sembrasse che Kobe fosse l’unico in squadra che aveva bisogno di fare degli aggiustamenti o di migliorare in certi aspetti specifici».

Questo tipo di pazienza era il marchio di fabbrica del coach. Una volta Jackson spiegò che le sue decisioni si basavano spesso sulla lettura del libro Gli insegnamenti di don Juan di Carlos Castaneda. «Osservate ogni sentiero con attenzione e deliberatamente. Tentate tutte le volte che vi sembra necessario. Poi ponete a voi stessi, e soltanto a voi, una domanda… Questo percorso ha un cuore? Se ce l’ha, è il percorso giusto. Se non ce l’ha, è inutile».

Un’altra novità introdotta da Jackson fu lo psicologo George Mum­ford, esperto di meditazione. Il suo compito sarebbe stato quello di insegnare ai giocatori ad ampliare la loro consapevolezza e a sviluppare le tecniche di respirazione. Da diversi anni, le squadre di O’Neal subivano un crollo emotivo nei playoff. Phil Jackson voleva che imparassero a respirare quando scattava il momento del «panico di Shaq».

All’inizio, le cose sembravano andare piuttosto bene, fino a quando, nel primo quarto della prima amichevole, giocata in Kansas il 13 ottobre, Kobe si ruppe la mano destra. Sottovalutando la gravità dell’infortunio, rientrò in partita e chiuse con 18 punti, 5 assist, 4 recuperi e nessuna palla persa in trenta minuti di gioco. Quando più tardi si sottopose a una lastra, arrivò la diagnosi. Avrebbe saltato le prime sei settimane della stagione, per un totale di quindici partite. I Lakers ne persero quattro.

«Vincemmo sessantasette partite quell’anno» osserva Schaefer. «Non è difficile immaginare che forse, con la presenza di Kobe, chissà, magari saremmo arrivati a settanta vittorie in regular season. Sicuramente avremmo vinto almeno un paio di partite in più. Chi lo sa, magari saremmo arrivati a sessantotto, sessantanove, settanta vittorie».

Anche un contrattempo serio come la frattura alla mano di Bryant si rivelò tuttavia una fortuna, perché diede modo allo staff tecnico di forgiare l’identità della squadra.

Dopo il mancato ingaggio di Pippen, Jackson aveva messo in atto il piano di riserva, andando a prendere sul mercato dei free agent l’ex Bull Ron Harper, che avrebbe dato stabilità e maturità a tutta la compagine, specialmente dopo il rientro di Bryant. Ogni volta che lo straripante agonismo della giovane guardia sembrava fuori controllo, Harper riusciva a tranquillizzarlo e a riportarlo sul binario giusto.

Un test importante Bryant lo affrontò quando fu costretto a sedersi in panchina per assistere a una prestazione clamorosa di Vince Carter e dei suoi Toronto Raptors, che sconfissero i Lakers e resero Bryant ancora più smanioso di scendere in campo.

Il suo rientro, tuttavia, non sarebbe arrivato fino al primo dicembre, quando segnò 19 punti uscendo dalla panchina in una vittoria su Golden State.

«Avere a disposizione l’energia di Kobe è un grande vantaggio» dichiarò Jackson. «In questo momento è una specie di ragazzo selvaggio, molto impulsivo. Sta ancora cercando la propria dimensione».

«Perdio, mi è venuto il mal di testa dall’eccitazione» disse Bryant ai giornalisti. «La testa mi stava letteralmente esplodendo. Nel primo tempo, mi sembrava di essere sotto anfetamine o qualcosa di simile, non riuscivo a calmarmi».

Per i Lakers, in quel mese di dicembre, l’energia frenetica di Bryant ebbe quasi l’effetto di un carburante super arricchito. E da subito i giornalisti cominciarono a interrogarsi sulla compatibilità di Bryant e O’Neal, dal momento che l’energia di Bryant sembrava stravolgere ogni volta l’attacco dei Lakers.

«Non mi aspetto problemi particolari» rispose Jackson. «Se arriveranno, li affronteremo al nostro interno».

Nella partita successiva, Bryant stoppò un tiro di Pippen nel finale, suggellando la vittoria dei Lakers su Portland.

ALCHIMIA

Mentre inseriva gradualmente Bryant nella rotazione, Jackson provò ancora una volta a risolvere i problemi di affiatamento e gli automatismi dei Lakers. Si trattava di un processo cominciato nel training camp. «Metteremo fine almeno in parte alle chiacchiere, ai mugugni e alle lamentele che circolano in tutto il personale della squadra» aveva promesso il coach fin dal primo giorno.

L’idea di fondo era che l’utilizzo di un attacco strutturato potesse aiutare a distendere i rapporti tra O’Neal e Bryant. Eppure, in molte conversazioni private, gli allenatori continuavano a riscontrare una rabbia repressa di O’Neal e degli altri veterani nei confronti di Bryant.

In un primo momento, né Jackson né i suoi collaboratori avevano compreso quanto fossero profonde le divisioni all’interno del gruppo. Al termine della stagione, Winter confidò di essere rimasto scioccato dal livello di animosità di O’Neal verso Bryant al momento dell’insediamento del nuovo staff tecnico.

«C’era un pozzo d’odio in fondo al suo cuore» disse Winter.

Durante le riunioni di squadra, O’Neal non le mandava certo a dire. «Diceva cose davvero terribili» raccontò Winter. «Kobe ascoltava tutto e tirava dritto per la sua strada».

Il punto di vista di O’Neal era semplice: i Lakers non potevano vincere il titolo con Bryant. Un’opinione che aveva espresso più di una volta anche alla dirigenza. Durante la off season, l’ex compagno di O’Neal, Penny Hardaway, aveva contattato Shaq per sondare la possibilità di raggiungerlo nella nuova squadra. Il centro aveva colto la palla al balzo e aveva informato subito i vertici. Il messaggio sottinteso era che bisognava cedere Bryant, ma la dirigenza si rifiutò di abboccare all’amo.

Winter rivelò che durante la stagione, mentre gli allenatori lavoravano per sanare il conflitto tra i giocatori, tutti erano stati informati che se gli sforzi dello staff tecnico non avessero funzionato, se non fossero riusciti a creare un’alchimia, ci sarebbero stati grossi cambiamenti.

Era abbastanza chiaro che la squadra non aveva alcuna intenzione di cedere il gigantesco O’Neal, il che voleva dire che sarebbe toccato a Bryant fare le valigie.

Nel 2015, Charley Rosen ha rivelato che un possibile scambio in realtà era stato discusso per mandare Bryant a Detroit al posto del talentuoso Grant Hill.

«I Pistons hanno fatto un’offerta» ha raccontato Rosen. «Ora, Grant Hill era il compagno di squadra ideale, un giocatore intelligente che probabilmente avrebbe imparato il triangolo all’istante, lo avrebbe abbracciato fin da subito. Giocava per la squadra ed era all’apice della carriera. Qualche dubbio c’era, legato ai suoi numerosi infortuni, ma Kobe durante quel primo anno era davvero un problema per Phil. Così gli ho detto: “Accetta lo scambio. Manda via quel ragazzino del cazzo. Ti sta facendo diventare matto. Non esegue, non va d’accordo con nessuno. Hai la possibilità di prendere questo tizio che è una specie di santo, al confronto, dentro e fuori dal campo”».

«Fallo, fallo» ripeteva Rosen a Jackson. «Ma Phil non ha voluto ascoltarmi. Una delle ragioni era la differenza di età. Hill aveva cinque anni più di Kobe».

C’era però un altro motivo importante per cui Jackson non scelse di accettare lo scambio. «Kobe ha il fuoco nelle vene» confidò il coach a Rosen. «Ha uno spirito competitivo che mi aiuta a relazionarmi con lui, è una cosa che apprezzo molto».

A Chicago, Jackson e Jordan erano stati gli uomini più competitivi di tutta l’organizzazione dei Bulls, afferma Rosen. A Los Angeles, seppure in un modo più grezzo e irritante, Jackson aveva ritrovato quella stessa personalità competitiva. Come Gregg Downer prima di lui, il coach si trovava di fronte alla sfida di «gestire quella personalità».

All’inizio, sembrava evidente che Jackson avesse deciso di schierarsi dalla parte di O’Neal, così toccò a Winter sostenere la causa di Bryant.

«Kobe era molto frustrato» ricorda Ric Bucher «perché gli sembrava che Phil stesse dalla parte di Shaq, e Phil lo faceva perché sapeva che Shaq aveva lo spogliatoio dalla sua. Era molto più inserito. Chi in realtà Phil rispettava di più? Io credo che in assoluto rispettasse di più Kobe, ma che stesse cercando di conquistare con diplomazia lo spogliatoio. Aveva bisogno di avere Shaq al suo fianco. Aveva bisogno di Shaq più di quanto avesse bisogno di Kobe, perché Kobe era comunque su un’isola tutta sua. Questa cosa Kobe l’aveva presa malissimo, perché guardava Shaq e pensava: “Quello non lavora quanto me. Non è in forma, è solo un ciccione. Lui è un pagliaccio, mentre io mi faccio un mazzo così, e sono io che dovrei fare un passo indietro rispetto a quello lì?”. Sapete, è una di quelle cose che, se fosse stato più grande, più maturo, probabilmente sarebbe riuscito a gestire in modo diverso. O forse no, chissà. Credo che tutti a volte avvertiamo un senso di ingiustizia. Vogliamo essere ricompensati per le cose che facciamo, e quando vediamo qualcuno che non lavora quanto noi che viene gratificato o considerato di più, immagino sia una cosa che dà fastidio a tutti. È solo questione di come ciascuno di noi reagisce di fronte a un’ingiustizia».

Il difensore di Bryant era dunque Winter, che negli anni Quaranta era stato una star a Southern California insieme al futuro membro della Hall of Fame Bill Sharman. L’anziano assistente aveva subito colpito i giocatori dei Lakers con la sua abilità con la palla medica. Non aveva paura di nulla, proprio come Bryant: a Chicago aveva interpretato il ruolo del poliziotto cattivo, l’unico membro dello staff che osasse sfidare apertamente Jordan, cosa che Winter aveva fatto con una discreta frequenza, riprendendolo magari perché passava la palla a due mani dal petto o per qualsiasi altra infrazione.

Un giorno, Rosen era seduto a osservare l’allenamento dei Lakers quando Winter saltò all’improvviso davanti alla gigantesca sagoma di O’Neal lanciato a tutta velocità a canestro, con l’intenzione di prendere uno sfondamento.

«Gesù, questo tizio si farà ammazzare» pensò Rosen inorridito.

«Era pronto a prendere lo sfondamento,» ha raccontato Rosen «ma Shaq riuscì a frenare all’ultimo secondo, con Tex a un passo da lui».

Winter era fissato con il lavoro fondamentale sui perni, un fattore che Jordan, Pippen, Bryant, tutti i suoi giocatori avevano imparato a considerare prezioso, fatta eccezione forse per O’Neal e Elvin Hayes, che Winter aveva allenato anni prima agli Houston Rockets.

Una volta Hayes aveva definito Winter «l’Anticristo».

«Facevamo un sacco di lavoro sui perni» ricorda Schaefer con una risata. «Perno interno rovesciato, perno esterno rovesciato, giro frontale, giro dorsale e via dicendo, e Kobe era assolutamente affascinato dal lavoro sui piedi. Molti giocatori sono ottimi atleti e non ne hanno bisogno perché riescono a battere chiunque sfruttando il loro atletismo, ma credo che Kobe pensasse: “Ok, se sono più veloce del mio avversario e so muovere i piedi meglio di lui, il mio vantaggio sarà ancora più grande”».

Schaefer ricorda un giorno, durante quella prima stagione, in cui Winter e Bryant si fermarono a fine allenamento per lavorare sui dettagli: «Sai, di solito i ragazzi si trattengono a chiacchierare, a tirare qualche libero, si preparano a lasciare l’impianto, mentre quei due continuavano a lavorare a metà campo. Tex, che avrà avuto all’incirca ottant’anni all’epoca, non si limitava a spiegare ma si metteva proprio a dimostrare i movimenti, palla in mano. Mostrava una cosa e Kobe la imitava. Tex stava insegnando a quello che probabilmente era il miglior giocatore del mondo dettagli che il resto del pianeta avrebbe giudicato rudimentali, basilari, ma Kobe divorava tutto, lo adorava. Kobe era un lavoratore instancabile e aveva una vera e propria passione per l’allenamento. Se parliamo dei tratti in comune tra Kobe e Michael, beh, ecco, tutti e due amavano allenarsi, amavano il lavoro duro, amavano l’allenamento e amavano svolgere gli esercizi».

Winter, tuttavia, in panchina poteva combinarne di tutti i colori. Un giorno, durante la sua lunga carriera da capoallenatore al college, in un accesso di rabbia aveva aggredito fisicamente un giocatore. A Chicago, si dice che a volte lo dovessero trattenere se il centro Luc Longley, un perfetto gentiluomo australiano, si dimostrava un po’ troppo passivo. E a tratti perdeva le staffe perfino con Bryant.

«Tex gli stava col fiato sul collo per tutto il tempo, durante i time out, gli parlava all’orecchio di continuo,» ricorda Schaefer «e ci fu un momento in cui Kobe fu sul punto di averne abbastanza, perché Tex su questo non ha molto autocontrollo. È sicuramente la persona più diretta che puoi incontrare. Di conseguenza, diceva sempre a Kobe quello che pensava. C’è sempre il tempo e il modo giusto per criticare un giocatore, e quando esce dal campo e magari vuole bere un sorso di Gatorade, beh, non è sempre quello migliore. Credo però che quella fosse una delle cose che Kobe amasse di Tex. Com’era quel vecchio detto greco? Chi era, Diogene, quello che cercava l’uomo onesto? Credo che Tex rappresentasse proprio quello, per un sacco di gente. Tex non era capace di tradire la verità neanche a costo della vita. Credo che fosse quello che gente come Michael e Kobe apprezzavano in Tex. A loro piaceva farsi allenare e accettavano di buon grado una critica sincera».

Bryant aveva finalmente trovato qualcuno da ascoltare, almeno in parte.

«Credo che apprezzasse tutto quello che Tex gli diceva» afferma Schaefer.

L’EFFETTO MICHAEL

Con il rientro di Bryant in formazione, i Lakers ottennero sedici vittorie di fila che li traghettarono a grande velocità fino a gennaio inoltrato. Persero infine il 14 gennaio alla Conseco Fieldhouse, contro gli Indiana Pacers, e all’improvviso cominciarono a precipitare, ottenendo solo quattro vittorie nelle successive nove partite: all’orizzonte si affacciò quella vecchia sensazione di panico.

Le sconfitte furono mitigate per una sera da una vittoria casalinga nei confronti dei Denver Nuggets, con Jordan presente in tribuna e Bryant che mise a segno i suoi primi otto tiri, realizzando 27 punti nel solo primo tempo. «Sarà un caso, ma gioco sempre bene quando c’è lui a guardarmi» commentò Bryant in seguito. «Dovrebbe venire più spesso».

Quando il nuovo staff tecnico era sbarcato a Los Angeles, in autunno, i suoi membri avevano iniziato subito a fare paragoni tra i due fuoriclasse. Jordan aveva le mani più grandi, diceva Winter, ed era un po’ più forte fisicamente, perciò capace di tenere meglio la posizione in post basso. Tutti però non potevano che lodare la grande determinazione di entrambi. Per quanto riguarda il loro spirito competitivo, il fatto che Bryant quella sera non vedesse l’ora di dimostrare qualcosa a Jordan riassumeva in pieno la situazione. Da perfetti maschi alfa, era come se fossero ciascuno al vertice della propria montagna.

Anni dopo, in un servizio per Fox Sports, Jackson raccontò di aver messo di fronte Bryant e Jordan in una saletta dello Staples Center al termine di quella partita contro Denver. Il coach sperava che l’ex campione dei Bulls potesse raccomandare a Bryant di essere paziente, di «lasciare che il gioco andasse da lui».

Bryant era in attesa nella saletta quando entrò Jordan accompagnato da Jackson, ricordò il coach. «La prima cosa che Kobe disse fu: “Posso farti il culo uno contro uno in qualsiasi momento”».

Il giorno seguente, i giornali criticarono Bryant per «essersi fatto bello» di fronte a Jordan, e presto i Lakers ricominciarono ad accusarsi l’un l’altro e a scaricare tutti i problemi della squadra sulla sua smisurata ambizione.

Winter invece preferì puntare il dito sulla traballante difesa della squadra. «Ci facciamo battere da chiunque» disse il vecchio allenatore. «È tutto l’anno che non riusciamo a contenere le penetrazioni, né il pick and roll alto. Kobe ha grosse difficoltà con quel tipo di giocate, e lo stesso vale per Derek Fisher. Idem per i pick and roll laterali. La maggior parte degli attacchi di oggi si basano su questo, soprattutto contro di noi».

Lo staff tecnico non affrontava con la decisione necessaria il tema dell’alchimia di squadra, il che sembrava disturbare parecchio Winter. «Gran parte degli allenatori, compreso Phil, hanno sempre avuto in squadra una specie di capro espiatorio» spiegava Winter. «E io credo che lui stia molto attento a far sì che Kobe non finisca in quel ruolo, perché sa di avere tra le mani un campione e non vuole strapazzarlo troppo. Eppure sente di doverlo controllare».

Winter non ci mise molto ad arrivare alla conclusione che, invece, Jackson aveva scelto proprio Kobe come capro espiatorio, e lo fece notare spesso nel corso delle stagioni successive.

Se in un primo momento era sembrato che i giocatori accettassero l’attendismo di Jackson, che voleva concedere a Bryant il tempo di imparare dai propri errori, in seguito la squadra cominciò a premere affinché il coach rimettesse la giovane guardia al suo posto. Winter attribuì quel cambio di registro all’ascendente di O’Neal sui compagni, benché il giudizio negativo su Bryant era già diffuso e ben radicato all’interno dello spogliatoio.

«Quelli dello staff venivano a dirci che noi e loro vedevamo cose differenti quando guardavamo i filmati e studiavamo il gioco da fuori» spiegò Derek Fisher. «Loro non vedevano lo stesso egocentrismo o la ricerca smodata dell’uno contro uno che vedevamo noi. Quello che io ho cercato di spiegare ad alcuni degli altri ragazzi è che questo è il quarto anno che passiamo insieme io, Shaq, Robert, Rick, Travis, eppure abbiamo gli stessi problemi di sempre».

«È come nella relazione tra un uomo e una donna, dove ci si arrabbia per episodi del passato che continuano a tornare fuori» proseguiva Fisher. «È da lì che nascevano un bel po’ di problemi. Gli allenatori pensavano che molte magagne si sarebbero risolte col tempo, ma noi eravamo insofferenti perché ci eravamo già scontrati con problemi di quel tipo in passato».

Winter ribatteva che qualsiasi cosa facesse Kobe, O’Neal e gli altri avevano qualcosa da ridire, al punto da spingere l’anziano assistente a montare un video che provasse a O’Neal che in realtà Kobe stava interpretando il sistema nel modo giusto.

«Credo che Kobe stia davvero facendo di tutto per far arrivare la palla dentro a Shaq» dichiarò Winter man mano che la stagione procedeva. «Se c’è un problema, da quel punto di vista, e io sono fiducioso che riusciremo a risolverlo, è che non credo che Shaq apprezzi quello che Kobe sta facendo per cercare di aiutarlo a rendere al massimo».

L’argomento rimaneva aperto e piuttosto delicato da affrontare.

Jackson non si faceva certo problemi a sfidare Bryant o qualsiasi altro giocatore, osservò Rick Fox. «Lui è il nostro leader, adesso. Nell’approccio, l’ho visto affrontare gente a muso duro come mai avevo visto prima. Forse è ancora più severo di quanto possa esserlo uno di noi verso sé stesso. E questo la dice lunga. Sa quali tasti spingere per essere sicuro che tutti continuino a dare il massimo ogni giorno per migliorare».

Fin dall’inizio, Jackson mostrò di prediligere le dichiarazioni pungenti ai giornalisti nei confronti dei propri giocatori. Per esempio, disse a «Sports Illustrated» che nutriva forti dubbi sul fatto che O’Neal potesse essere un leader perché le sue pessime percentuali ai liberi gli impedivano di prendere per mano la squadra nei momenti decisivi delle partite.

«È molto diretto nelle sue critiche» affermò Fox. «Ma allo stesso tempo è molto diretto quando fa un complimento. Tutto sommato, direi che nella vita c’è di peggio di una persona che quando apre bocca dice la verità. A volte la verità fa male, e può ferire qualcuno. Ma l’obiettivo di Phil è tenere sotto controllo l’ego delle persone. È una linea sottile. È chiaro che sa molto bene quello che fa».

A O’Neal, Jackson ricordava il suo patrigno, un militare che trattava molto duramente Shaq quando era bambino. «È il mio padre bianco» diceva spesso O’Neal del nuovo coach.

«Phil sta sempre addosso a Shaq, continuamente» raccontava la riserva dei Lakers John Salley. «Ma Shaq regge bene la situazione. Con lui quell’approccio funziona».

Tutti gli altri Lakers, inoltre, vedevano quanto Shaq rispettasse e obbedisse alla disciplina imposta da Jackson. Nel giro di breve tempo, Jackson era diventato il capobranco a Los Angeles. Per quanto riguardava O’Neal, sosteneva Winter, «la mia preoccupazione principale è che non voglio che si accontenti di quello che è. Vorrei che capisse dove sta sbagliando, anche quando va a tirare un libero… Non è facile allenarlo. Si risente subito se qualcuno gli dice che sta sbagliando qualcosa».

«Penso che Phil stia usando il guanto di velluto con Shaq» proseguiva Winter. «Credo che stia ancora cercando di leggere la situazione per comprendere quale sia la strategia più efficace per motivare uno come Shaq. Non credo ci sia già arrivato. Di sicuro io non l’ho ancora capito».

Di lì a poco cominciò ad aleggiare l’ombra dell’All-Star Game, il consueto test stagionale per verificare il grado di gelosia scatenata nella squadra dalle attenzioni riservate a Bryant. Per la prima volta dal 1997, era stata reintrodotta la gara delle schiacciate, di cui Bryant in teoria era ancora il campione in carica. Il ragazzo prese in considerazione l’idea di partecipare un’altra volta, soprattutto perché c’era in lizza Vince Carter, che tutti additavano come il nuovo fenomeno della specialità. Con delicatezza, Jackson suggerì a Bryant di lasciar perdere. Fisher raccontò poi che i Lakers sapevano che Bryant non vedeva l’ora di confrontarsi con Carter, ma che accantonò l’idea per evitare di attirare l’attenzione su un riconoscimento individuale che avrebbe oscurato gli obiettivi di squadra. Quella scelta si rivelò cruciale per la crescita del gruppo, anche se O’Neal, durante il riscaldamento dell’All-Star Game, imitò il palleggio incrociato di Bryant e scagliò la palla in tribuna per prendere in giro i frequenti turnover del compagno. Quell’ostilità palese doveva cessare, commentò Magic Johnson: Phil Jackson se ne doveva occupare al più presto.

Un altro momento importante, durante il weekend dell’All-Star Game, fu quando Gary Payton aiutò Bryant a comprendere la difesa sul pick and roll durante uno dei tempi morti della manifestazione. «Non credo che Gary sappia quanto mi sia stato d’aiuto» spiegò in seguito Bryant, che confermò in fretta i suoi miglioramenti tanto da essere scelto per il quintetto dei migliori difensori della stagione.

Anche l’esito rivedibile della sua performance musicale sembrò contribuire a ridimensionare la giovane star. Fisher arrivò perfino a suggerire che Bryant fosse uscito dall’esperienza dell’All-Star Game come un uomo diverso, più maturo e concentrato sul gioco di squadra.

Non va sottovalutata infine la presenza rassicurante di Ron Harper nella retroguardia dei Lakers, sostiene Chip Schaefer. «Significava molto, per Kobe. Di tutti i suoi compagni, credo che fosse Ron quello con cui era più felice di giocare. Aveva un grande rispetto per lui a livello personale. A quel punto, Kobe non aveva ancora vinto il suo primo titolo, mentre Ron ne aveva appena vinti tre con i Bulls. Agli occhi di Kobe, Ron era uno che poteva insegnargli parecchio».

«Kobe non era il tipo che accettava consigli dal primo che capita» ricorda ancora Schaefer. «Dovevi in qualche modo guadagnarti i galloni, diventare qualcuno che rispettasse abbastanza da prestare ascolto a quello che diceva. Non si metteva certo ad ascoltare chiunque».

Schaefer sostiene che Bryant apprezzava anche Tyronn Lue, la minuscola guardia al secondo anno con i Lakers. «Ricordo che una volta Tyronn perse un paio di palloni e fu richiamato in panchina, e un tifoso lo criticò aspramente dagli spalti. Beh, Kobe rispose ad alta voce al tifoso, per difendere Tyronn».

Vedere Bryant prendere le parti di un compagno suggeriva che un altro piccolo ma significativo passo in avanti era stato compiuto, osserva Schaefer.

Pur essendosi riavvicinato ai compagni, Bryant non riusciva a colmare la distanza che lo separava da Jackson. Si lamentava di non aver mai avuto fino a quel momento un colloquio a quattr’occhi con il coach, e continuava ad aspettare che si materializzasse quella possibilità, che invece non si concretizzò per anni. Cosa che disturbava Winter oltre ogni misura.

«Una delle doti più grandi di Phil è proprio questa: sa gestire le relazioni, sa quali tasti toccare con persone diverse» ha osservato Schaefer nel 2015. «Non allenava tutti allo stesso modo. Sapeva quali tasti toccare per tenere in riga Shaquille, quali per Kobe, quali per Rick Fox, e via dicendo.

«Ormai avrà le mani di un pianista, a forza di battere su quei tasti nel corso degli anni» proseguiva Schaefer. «Ma è chiaro che quel suo comportamento irritava oltremodo Kobe».

Jackson aveva scelto un approccio davvero insolito con Bryant, ricorda Scoop Jackson. «Phil dava a tutti dei libri da leggere. Lo sai qual è stato il primo libro che ha dato a Kobe? Una volta Kobe me lo ha detto in segreto. Te la racconto perché è una storia vera. Il primo libro che Phil gli ha dato, ed è stato questo a incasinare tutto nella sua testa, si intitolava Black Like Me».

Il libro, scritto dal giornalista John Howard Griffin, parlava di un uomo bianco che fingeva di essere nero agli inizi degli anni Sessanta.

«“Che cazzo è questa roba?” avrà pensato Kobe» ricorda Scoop Jackson. «Uno può anche fare tutti i giochetti mentali che vuole, ma quella era una provocazione bella e buona, per via delle implicazioni razziali. Glielo ha dato così, senza spiegazioni, niente di niente. E se conosco un po’ Phil, lo avrà fatto con la sua classica aria di supponenza».

Un membro dello staff di Jackson sottolineava che i libri scelti da Jackson per i giocatori avevano l’obiettivo di ampliare la loro coscienza di sé e del mondo che li circondava.

«Se volevi fare dei giochetti mentali, beh, dovevi sapere che Kobe era molto sveglio» osserva Scoop Jackson. «Comprendeva benissimo i giochetti mentali di Phil. E quello era pessimo. “Ma che cazzo?” mi ha detto Kobe. E io ho risposto: “Ehi, ehi, non so cosa dirti”».

«Kobe era molto diverso dal resto dei compagni, diciamo pure che era molto diverso dalla maggior parte dei giocatori della Nba» ha osservato Ric Bucher nel 2015. «Questa è l’altra cosa che apprezzavo di lui. In qualche modo, dal punto di vista della socialità, era sicuramente meno preparato rispetto a Jordan. Non aveva avuto le stesse opportunità di raffinarsi dal punto di vista dei rapporti sociali che aveva avuto Jordan prima di arrivare nella Nba. Ma sotto altri aspetti, siccome aveva vissuto in Italia e aveva viaggiato oltreoceano, era più sofisticato».

Qualsiasi cosa il coach proponesse, non faceva che confermare la sua unicità, diceva Bryant di Jackson durante la stagione. «Credo che l’aspetto della sua personalità che ha più influenzato lo spirito della squadra sia il fatto di essere una persona molto precisa. È molto selettivo e presta grande attenzione ai dettagli. Credo che questo sia mancato moltissimo alla squadra in passato. Avevamo la tendenza a guardare tutto in modo superficiale, senza approfondire».

Una vittoria di fine febbraio contro Portland inaugurò una nuova striscia vincente dei Lakers, questa volta di ben diciannove partite consecutive, nel corso della quale O’Neal festeggiò il compleanno segnando 61 punti in una serata. La striscia terminò con una sconfitta contro Washington a metà marzo, al termine della quale il neopresidente dei Wizards, Michael Jordan, si accese un sigaro alla faccia del suo ex allenatore.

Subito dopo aver perso contro Washington, i Lakers si lanciarono in un’altra serie di undici vittorie consecutive che li portarono a chiudere la regular season con un bilancio di 67-15. Nel mese di aprile subirono comunque un paio di cocenti sconfitte contro San Antonio, benché una proprio all’atto finale della stagione, in cui Tim Duncan, l’ala grande degli Spurs, fu tenuto a riposo e Jackson diede ampio minutaggio a rookie e riserve.

«Non era il modo migliore per chiudere una stagione da sessantasette vittorie, perdere le ultime due partite, di cui una in trasferta» ammise Fox.

Si trattava del secondo miglior record in regular season nella lunga storia della franchigia, dietro soltanto al 69-13 del 1972, quando le stelle della squadra erano Jerry West e Wilt Chamberlain.

I Lakers di Jackson si erano già assicurati il vantaggio del fattore campo nei playoff, e il coach continuava a tenere gli occhi puntati sull’obiettivo che li aspettava in fondo al cammino.

RULLO DI TAMBURI

Nonostante l’eccellente posizione in classifica, in primavera i fantasmi dei playoff precedenti aleggiavano ancora sulla testa dei Lakers, tanto da sembrare una parte integrante della loro identità. Jackson era pronto a ricorrere ai suoi rimedi stravaganti, come bruciare della salvia nello spogliatoio e suonare un tamburo rituale prima delle partite per aumentare la concentrazione dei giocatori. In genere quelle stravaganze erano accolte con un certo scetticismo, anche se alcuni giocatori ammettevano che il picchiare ritmico del coach sui tamburi accelerava il loro battito cardiaco.

George Mumford, che era stato preso per guidare i Lakers nella meditazione e nell’allenamento consapevole, come aveva fatto con Jordan e i Bulls a Chicago, diventò uno dei pochi elementi su cui Bryant e O’Neal andavano d’accordo. Bryant abbracciò le sessioni di consapevolezza perché offrivano un addestramento specifico dal punto di vista mentale, permeato dal buddismo Zen e indirizzato a ridurre lo stress pre-gara associato ai playoff, quando la pressione saliva in modo insostenibile. «È la nostra arma segreta» diceva O’Neal di Mumford.

Poi c’era il modo a dir poco originale con cui Jackson usava i filmati. Gli piaceva inframmezzare le immagini degli avversari con scene tratte da film famosi, una strategia efficace che aiutò i Lakers a metabolizzare l’approccio singolare del nuovo coach.

Come aveva fatto a Chicago, il coach sottopose i giocatori alla visione di una serie di pellicole di successo, per prepararli al viaggio nei playoff, dividendo un film intero in spezzoni che proiettava intervallandoli con sequenze dei Lakers e dei loro prossimi avversari, sfruttando determinate scene per stuzzicarli sulle loro scelte o su situazioni specifiche di gioco. Si partì con American History X, seguito dal Miglio verde. Jackson aveva l’abitudine di mettere in pausa il film in momenti strategici, a volte grotteschi, per sottolineare un particolare aspetto o concetto, suscitando spesso l’ilarità dei giocatori.

Derek Fisher notò che molte di quelle sessioni video sembravano mettere in rilievo una qualche mancanza da parte di Bryant. Eppure, il diretto interessato diceva che non gli dava fastidio essere additato. «È intrigante» sosteneva. «Mi piace cercare di capire a cosa stava davvero pensando Phil nel comporre le clip. Tutti i messaggi che ci infila dentro. È un aiuto. Personalmente mi diverte. La squadra le trova divertenti, e in effetti alcune lo sono. Altre vanno prese sul serio».

Jackson si servì di American History X per abbracciare il messaggio del film: la necessità del rifiuto di abbandonarsi all’odio.

Malgrado il vantaggio del fattore campo e lo stato di grazia del collettivo, con le frequenti lamentele di O’Neal, convinto che la squadra non sarebbe riuscita a vincere un titolo con Bryant, e con il capoallenatore che non si faceva scrupoli a mettere in piazza gli errori di Bryant, una personalità più debole di quella di Kobe sarebbe probabilmente crollata sotto il peso psicologico dei playoff.

«La pressione si sente, si sente eccome» riconosceva Bryant. «Ma la cosa importante è come riesci a gestirla. Quando te la senti addosso, ciò che conta è come reagisci. Devi dare sempre il meglio di te. Ti devi preparare al meglio. Vai in campo e cerchi di eseguire alla perfezione. Poi vai a dormire sereno. Tutto qui. Il giorno dopo ti alzi e fai le stesse cose. Bisogna ridurre tutto all’essenziale».

Un proposito ammirevole, ma dietro le quinte la vita privata di Bryant era un’esplosione di fuochi d’artificio di altra natura, innescati dal fatto che nel mese di maggio aveva donato a Vanessa Laine un anello di fidanzamento del valore di centomila dollari. Quel gesto, insieme alla scoperta di Pam che il figlio aveva aiutato la famiglia di Vanessa a far fronte ai debiti, aveva aperto un conflitto insanabile in seno alla famiglia.

In mezzo alla tempesta, Bryant si tenne tutto per sé, al punto che le persone che lavoravano a stretto contatto con lui rimasero sorprese, molto tempo dopo, scoprendo gli eventi drammatici che si erano succeduti nella sua vita all’insaputa di tutti.

Pur essendo consapevoli solo in parte di questi sviluppi, Jackson e altri elementi della squadra, per non parlare del suo agente, avevano consigliato a Bryant di andarci piano con i preparativi per il matrimonio. La sensazione comune era che il coach giudicasse tutta la questione delle nozze di Bryant con un certo grado di condiscendenza.

Tex Winter, tuttavia, rimaneva saldamente dalla parte di Bryant.

«Oh, buon per te» gli aveva detto l’anziano assistente. «Adesso potrai finalmente staccare la testa dal basket una volta ogni tanto, e magari rilassarti un po’».

«Sai, Tex,» rispose Bryant «forse hai ragione».

«Respirate». È probabile che anche il consueto messaggio di Mumford aiutasse Bryant a sollevarsi un po’, benché perfino lo psicologo, pur cominciando ad assumere una certa importanza per la giovane star, fosse all’oscuro dei suoi problemi familiari.

Bryant si limitava a discutere con Mumford degli aspetti mentali della competizione, come del resto facevano i suoi compagni. «Era positivo perché dava a tutti la possibilità di parlare di quello che ci passava per la testa, l’eccitazione, la pressione» spiegava Bryant. «Credo che sia un bene parlare di queste cose. Di sicuro ha aiutato tutti noi a migliorare parecchio le nostre prestazioni, dico davvero. Mi meraviglio che le altre squadre non facciano niente di simile. Lavorare insieme a George ci aiuta a togliere di mezzo i problemi prima ancora che si materializzino».

L’ansia pre-gara, la pressione dei playoff possono arrivare a corrodere le prestazioni della squadra, spiegava Bryant. «Una volta che si insinua all’interno del gruppo e nella mente dei tuoi compagni, quella pressione può diventare distruttiva. Alcuni sanno come gestirla, altri no. La pressione ti può travolgere. Devi essere in grado di assorbirla e neutralizzarla».

Nonostante l’efficacia del lavoro di Mumford, lo staff tecnico era preoccupato della tenuta della squadra davanti allo stress dei playoff. «Tutte le volte in cui ci eravamo disuniti ed eravamo crollati come collettivo, eravamo sempre stati noi a ficcarci da soli in situazioni imbarazzanti» osservò Rick Fox.

Di sicuro i Lakers faticarono fin troppo a sbarazzarsi di Sacramento e Phoenix nei primi due turni (Bryant segnò il canestro decisivo sulla sirena per la grande vittoria in gara 2 contro Phoenix). Poi si ritrovarono ad affrontare Pippen e i Portland Trail Blazers per il titolo della Western Conference.

Nel corso della stagione, la squadra di Jackson aveva fatto progressi nell’esecuzione del triangolo, tranne che nelle partite con Portland, perché la padronanza del sistema aveva consentito a Pippen di istruire a dovere i compagni e trovare i giusti accorgimenti sul fronte difensivo. Con i Bulls, Winter e Jackson avevano usato di regola gli elementi più raffinati del triangolo per sorprendere gli avversari nei momenti decisivi dei playoff. La presenza di Pippen non dava molte speranze di poter sorprendere Portland in questa sfida cruciale.

In gara 1, i Lakers sopravvissero a un utilizzo furioso della tattica «Hack-a-Shaq» messa in atto da coach Mike Dunleavy. Continuando ad abbracciarlo, trattenerlo e colpirlo, i Blazers costrinsero O’Neal a tirare venticinque liberi nel solo ultimo quarto, ma l’unico risultato fu di prolungare la durata della gara ai limiti dell’irritazione. I Lakers sfruttarono le continue interruzioni per schierare la difesa a ogni possesso e alla fine la spuntarono.

A quel punto i Blazers cambiarono tattica e strapparono la vittoria in gara 2 con un sonante 106-77 allo Staples Center. I Lakers avevano giocato in modo piuttosto insolito, senza emozione né energia. A fine partita, lo staff tecnico sembrava stupefatto dall’accaduto. «Non ci aspettavamo una sconfitta di queste dimensioni» ammise Jackson.

A Portland, i Blazers riuscirono a contenere Bryant per la maggior parte del secondo tempo di gara 3, ma negli attimi cruciali Kobe fu comunque in grado di servire un assist al laser a Ron Harper per il canestro della vittoria. Bryant contribuì a difendere il risultato aiutando anche a stoppare un tentativo sulla sirena del centro di Portland Arvydas Sabonis, dopo che già nel possesso precedente aveva rubato un pallone importante.

«Dovevo rischiare. È tutta la stagione che giochiamo per arrivare a questo momento» disse Bryant, limitato da problemi di falli per gran parte del secondo tempo. «Non posso lasciare che un avversario si prenda un buon tiro solo perché ho cinque falli».

Sabonis chiese il fallo ma i replay mostrarono che si trattava di una stoppata pulita.

«È stata una vittoria importante per noi» disse Bryant. «Abbiamo fatto capire a Portland che non abbiamo intenzione di mollare, che siamo qui per dare battaglia».

La vittoria per 93-91 diede ai Lakers un vantaggio di 2-1 nella serie. Per la franchigia californiana, si trattava del primo successo in trasferta negli ultimi dieci anni in una finale di conference.

Con i Blazers ancora depressi per l’occasione sprecata, i Lakers strapparono un’altra vittoria in gara 4, anche in questo caso una partita segnata da una partenza a razzo dei Blazers e da una clamorosa rimonta finale per i Lakers.

Sul punteggio di 3-1, le squadre tornarono a L.A., dove i Blazers vinsero gara 5 , disputando una partita che rifletteva appieno l’agonismo indomito di Pippen. In quell’occasione, l’ala dei Blazers infranse il record di ogni epoca di palle recuperate nei playoff, detenuto dall’ex compagno Michael Jordan.

Non paghi di essersi colpevolmente addormentati nella partita che avrebbe potuto chiudere i giochi, i Lakers ci ricascarono in gara 6. Portland pareggiò la serie con altre grandi giocate di Pippen, mentre i Lakers ancora una volta sembrarono stranamente passivi. Soltanto sei volte nella storia una squadra era riuscita a vincere una serie dei playoff Nba dopo essere stata sotto 3-1, ma i Blazers sembravano in grado di riuscire nell’impresa.

Tornati allo Staples Center, i Blazers aprirono gara 7 mettendo i Lakers ancora una volta sotto in avvio e arrivando all’inizio dell’ultimo quarto con un vantaggio di 16 punti. Sembravano destinati a stroncare il sogno dei tifosi dei Lakers. In modo a dir poco misterioso, però, la squadra di Jackson riuscì a compiere un miracolo, dando vita alla più grande rimonta mai realizzata nel quarto periodo di una gara 7 nella storia della Nba.

Portland era avanti 75-60 con 10’28” da giocare, ma i Lakers fermarono l’attacco avversario per dieci possessi consecutivi. Una stoppata di Bryant su Bonzi Wells portò a un tiro da tre di Brian Shaw che ridusse lo svantaggio a dieci punti a 9’38” dal termine.

«Dopo un po’ perdi il contatto con la realtà» sostiene Glen Rice, descrivendo la rimonta. «Stavamo pensando: “Forza, non fermiamoci, continuiamo a pressare, andiamo fino in fondo, prendiamo solo buoni tiri e, se tutto va bene, gli avversari crolleranno nel finale”. Ed è andata proprio così».

Brian Shaw ricorda così i momenti decisivi della partita: «Eravamo sotto forse di 16 punti all’inizio dell’ultimo quarto, in casa, in gara 7. E Phil Jackson ci disse che ci stavamo concentrando troppo nel dare palla dentro a Shaq, che dovevamo tirare quando lui scaricava la palla fuori sui raddoppi. Quello ha dato la libertà a noi esterni di prenderci qualche tiro da tre e farci rientrare in partita. Credo di aver messo tre o quattro triple nell’ultimo quarto. E anche Rick Fox e Robert Horry hanno cominciato a segnare».

I Trail Blazers furono costretti ad allentare la morsa su O’Neal per uscire invece a marcare i tiratori, il che consentì allo stesso O’Neal di ricevere di nuovo la palla dentro in situazioni più vantaggiose.

«Era davvero un momento difficile per noi, sotto di 16 in casa, in gara 7» aggiunge Shaw. «Ricordo di aver pensato a quando giocavo con Shaq a Orlando ed eravamo stati spazzati via nelle Finals. Mi dicevo: “Dài, mica usciremo un’altra volta?”. Poi per fortuna siamo riusciti a riaprire la partita, e a quel punto Kobe e Shaq hanno preso in mano la situazione. Credo che sia stato quello il momento in cui Kobe è cresciuto, in cui è maturato. La sua grandezza si è cominciata a vedere in quel momento. Era una situazione di vita o di morte, e Kobe ha saputo fare delle giocate decisive. A ripensarci, quella resta sicuramente una delle più grandi partite dei Lakers nella storia dei playoff: era la prima volta che quel gruppo centrava l’obiettivo di raggiungere le Nba Finals. Kobe ha fatto giocate straordinarie. Quella formazione di Portland aveva degli ottimi giocatori. È stato allora che Kobe ha cominciato a crescere davvero».

La folla dello Staples trasmise alla squadra grande energia, e l’apice fu quando Bryant lanciò un alley-oop per una poderosa schiacciata di Shaq che portò i Lakers in vantaggio per 85-79. A fine partita, arrivò anche il sigillo di approvazione da parte di O’Neal: «Kobe è un grande giocatore».

«Quando si è avvicinato al canestro, ci siamo guardati negli occhi e lui mi ha lanciato la palla» raccontò poi O’Neal. «Io ho saltato, e a quel punto è stata una passeggiata».

«Per un istante ho pensato di averla lanciata troppo in alto» disse Bryant. «Shaq però ha saltato e l’ha presa lo stesso. E ho detto: “Cavolo!”».

Alla fine i Blazers non poterono far altro che guardare in silenzio, scioccati, distrutti, i Lakers che festeggiavano il ritorno nelle Nba Finals dopo quasi un decennio di assenza.

«Ci siamo ritrovati ad affrontare una strada in salita» dichiarò Jackson a fine gara, dopo aver visto la sua squadra cancellare uno svantaggio di sedici punti per vincere 89-84. «Ma siamo riusciti a rientrare».

Nel momento del bisogno, Bryant fu il migliore della squadra per punti (25), rimbalzi (11) e assist (7), mentre O’Neal contribuì alla causa con 18 punti e 9 rimbalzi.

La gente stentava a credere ai propri occhi, quel momento di grande intesa tra il centro e la giovane guardia aveva sigillato la vittoria finale. Era come se Bryant si fosse rifiutato di farsi scoraggiare, e quella sua determinazione avesse finito per pagare proprio nel finale di stagione. «Credo che siano arrivati a rispettarsi a vicenda» dichiarò Winter, anche se gli allenatori non potevano mai sapere con certezza fino a che punto i giocatori stessero recitando per il pubblico e cosa invece sentissero sul serio. Scoop Jackson, per esempio, vide O’Neal correre attorno al campo a fine partita, desideroso di festeggiare con chiunque gli capitasse a tiro, tranne che con Kobe.

Quando gli chiesero di O’Neal, Bryant scrollò le spalle e disse: «Ognuno dei due fa le cose a modo suo. È quello che abbiamo fatto per tutta la stagione. Dipende sempre da quello di cui la squadra ha bisogno in determinate situazioni. Quindi, anche se ognuno di noi va per conto suo, alla fine l’importante è il bene comune».

INDIANA

All’inizio della serie che valeva il titolo, Ric Bucher fissò il proprio sguardo su Kobe Bryant. «Non dimenticherò mai il momento in cui lo vidi entrare in campo per la prima volta in una finale Nba» ricorda il giornalista. «Si mise ad ammirare il logo sul parquet e le decorazioni a bordocampo. Si capiva quanto fosse emozionato a essere lì e vedere le cose che vedeva, tutti quei piccoli dettagli che contraddistinguono le Nba Finals, e il fatto stesso di trovarsi lì a giocarle.

«In alcuni momenti tirava fuori quella incredibile mentalità da killer, quella volontà di sfidare con lo sguardo e di affrontare a viso aperto uomini cinque, dieci anni più vecchi di lui, ma in altri momenti ti rendevi conto che era ancora soltanto un ragazzo».

Il roster degli Indiana Pacers era pieno di veterani, guidati da Reggie Miller e allenati dal grande Larry Bird. Lo staff dei Lakers concentrò l’attenzione sull’obiettivo di limitare il grande potenziale offensivo degli avversari.

In gara 1, in realtà, i Pacers non sembrarono grandi tiratori. Reggie Miller mise a segno uno solo dei suoi sedici tiri, e i Lakers vinsero con relativa facilità, più che altro passando la palla sotto a O’Neal e guardandolo lavorare contro una difesa di Indiana che aveva inspiegabilmente deciso di non raddoppiarlo. I suoi 43 punti e 19 rimbalzi consegnarono ai Lakers la vittoria per 104-87.

«Il nostro attacco è disegnato in modo da allontanarsi dalla pressione della difesa» osservò Derek Fisher. «Contro Portland avevamo cercato di attaccarla di petto. Ora Indiana ha tentato di marcare Shaq con un solo difensore. Mi sorprenderei se non cambiassero strategia per gara 2».

E infatti, in gara 2, i Pacers cominciarono a raddoppiare, ma questo non impedì a L.A. di chiudere il primo quarto in vantaggio per 33-18.

All’inizio della partita, Bryant si era slogato la caviglia, ma aveva continuato a giocare sulla spinta dell’adrenalina. Nel terzo quarto il margine dei Lakers si ridusse a due soli punti, ma i canestri di Bryant e la strapotenza fisica sotto canestro di Shaq furono sufficienti ai Lakers per riprendere il controllo e ottenere una vittoria 111-104, che li portò sul 2-0 nella serie.

Con una caviglia gonfia come un melone, Bryant osservò gara 3 in stampelle, l’unica partita di una serie finale che avrebbe saltato nella sua lunga carriera. Alla fine Indiana ebbe la meglio, portando la serie sul 2-1 per i Lakers e preparando così il terreno al grande momento di Bryant in gara 4.

Nonostante la caviglia dolorante e poco mobile, Bryant affiancò a O’Neal nel pareggiare colpo su colpo i canestri dei Pacers nel finale di una partita che si protrasse fino ai supplementari, quando O’Neal commise il suo sesto fallo. All’improvviso, toccava a Bryant guidare i Lakers alla vittoria. E Kobe andò dal suo centro e gli disse di non preoccuparsi: ci avrebbe pensato lui.

Seduto lì accanto in tribuna stampa, Ric Bucher era affascinato. «Kobe giocava con una caviglia malconcia, eppure non si sarebbe fatto sfuggire quell’occasione per niente al mondo,» ricorda Bucher «con Shaq fuori per falli e un avversario di fronte come Reggie Miller. Era eccitato da quell’opportunità. Il pensiero che i Lakers potessero essere nei guai non gli passò neanche per la testa. Il modo in cui pensa Kobe è completamente diverso dal modo di pensare del resto del mondo. In tribuna stampa tutti dicevano: “Ragazzi, i Lakers sono nei guai”. Kobe invece pensava: “Adesso tocca a me”. La possibilità di fallire non lo sfiorò nemmeno».

A Chicago, in situazioni del genere, Jackson e Winter avevano aumentato le «spaziature» in campo per consentire a Jordan e compagni di lavorare con tagli backdoor e altri elementi a sorpresa. Ma con i Lakers allargare il campo non aveva mai funzionato, perché le squadre avversarie non si staccavano mai da O’Neal e continuavano a tenere ben protetta l’area. Allargare il campo poteva funzionare se O’Neal fosse stato disposto a sviluppare un tiro dalla media distanza, che gli avrebbe consentito di allontanarsi un po’ dal canestro, ma la cosa non avvenne mai.

Ora però il gigante era fuori dal campo, e Jackson schierò i Lakers più larghi per confondere i difensori e dare modo a Bryant di attaccare negli spazi. La caviglia dolorante lo costringeva ad accontentarsi di tiri in sospensione dalla media invece di proiettarsi dritto a canestro.

Nel supplementare, Bryant trascinò i Lakers e dimostrò in modo inconfutabile quanto si sbagliasse O’Neal nel pensare che con lui la squadra non avrebbe mai vinto.

«Il sistema ha funzionato alla perfezione» disse poi Bryant. «A volte, nell’ultimo quarto, l’attacco triangolo viene un po’ messo da parte, diciamo. Il sistema in sé ci permette di allargare il campo nei finali di partita e di penetrare. Di solito funziona perché con il triangolo tutti restano pericolosi per tutta la partita e le difese non si fidano a lasciare gli altri attaccanti per raddoppiare su di me. Non si fidano a staccarsi da Robert, come non si fidano a lasciare solo Rick per cercare di fermarmi, perché sanno che loro sono perfettamente in grado di mettere tiri pesanti.

«In gara 4 ha funzionato davvero bene» proseguì Kobe. «Siamo riusciti ad allargare il campo, e io ho messo un paio di tiri che ci hanno portato fino in fondo. Nel corso della stagione, ho desiderato spesso che ci fossero più spaziature. Dicevo sempre a Phil: “Perché non allarghiamo un po’ il campo?”. Ma lui rispondeva: “Non siamo ancora pronti. Ma ci arriveremo”. Io gli chiedevo di spaziarci di più perché così posso lavorare in modo più efficace. Ma sono contento che abbia aspettato fino ai playoff per sfruttare questa opzione».

A quel punto i Lakers avevano preso un vantaggio di 3-1 nella serie, ma in gara 5 arrivò una sconfitta che rimandò il confronto allo Staples Center, a Los Angeles. La città non festeggiava un titolo Nba in casa da quando Magic Johnson e Kareem Abdul-Jabbar avevano portato la squadra alla vittoria sui Detroit Pistons nelle Nba Finals del 1988.

La mattina di gara 6, Jackson si mise a suonare il tamburo nello spogliatoio, forse la più stravagante vigilia di una finale nella storia del basket pro americano. «Tutta la squadra sembrò eccitarsi al suono di quel tamburo» racconta Shaw.

In qualche modo il coach, con tutte le sue stranezze, i suoi tamburi e il rito della salvia, era riuscito a ricomporre una squadra profondamente divisa e a portare a termine una stagione fantastica, che quella sera visse il suo atto conclusivo.

Bryant tirò un terribile 8 su 27 dal campo e chiuse con 26 punti tutt’altro che belli da vedere. Prese però 10 rimbalzi e distribuì 4 assist, due dei quali a O’Neal nell’ultimo quarto, che i Lakers sfruttarono per recuperare lo svantaggio e mettere il naso avanti per la prima volta dall’inizio della partita.

«Nel quarto periodo, abbiamo trovato una situazione di gioco per la quale loro non avevano contromisure» commentò in seguito Jackson.

Il compito di mettere i tiri decisivi questa volta spettò a Fox e Horry, che spinsero i Lakers in vantaggio per 101-94, nonostante una sfilza di errori dalla lunetta da parte di O’Neal. A quel punto, i Pacers cominciarono a subire falli e a convertire tiri liberi, per arrivare poi a una tripla di Jalen Rose che pareggiò il confronto sul 103-103 con 5’08” da giocare.

Per qualche minuto l’inerzia della gara sembrò oscillare tra le due squadre finché i Pacers si riportarono di nuovo a un solo punto di distanza, 110-109, a 1’32” dalla fine. Il coach dei Lakers chiamò una variante che prevedeva un pick and roll, scelta piuttosto sorprendente, visto che i Lakers la usavano molto di rado.

O’Neal, che di solito odiava fungere da bloccante, si decise a creare dei blocchi alti spaventosi a favore di Bryant, per poi catapultarsi verso il canestro. Lo schema funzionò, Bryant trasformò qualche tiro libero importante, e i Lakers si imposero per 116-111, riportando il titolo in California dopo dodici stagioni.

«Siamo tornati alla situazione che aveva funzionato alla grande in gara 4, allargare il campo e penetrare, per poi attaccarli con decisione» disse Bryant. «Io sono riuscito ad andare in lunetta e a mettere qualche tiro libero».

«Credo che avessimo bisogno di Phil per farcela» aggiunse O’Neal. «Phil e il suo staff hanno saputo aiutare questa squadra a superare lo scoglio finale. Abbiamo sempre vinto cinquanta o sessanta partite. Poi però, quando ci trovavamo nei playoff, non riuscivamo mai a superare l’ultimo ostacolo. Avevamo anche il fattore campo nei playoff, eppure facevamo sempre qualche errore. Phil invece è stato in grado di mantenere il sangue freddo e ci ha obbligati a guardare i suoi film. Quando vedi un tipo come Phil, se sei un leader, capisci che non è preoccupato. Allora perché dovresti esserlo tu? Ci ha preparato molto bene».

«Credo ancora che se nel 2000 non fossero riusciti a completare la rimonta contro Portland in gara 7, non avrebbero vinto nessun titolo,» ha affermato J.A. Adande nel 2015 «perché i gravi problemi che minavano il loro rapporto sarebbero rimasti irrisolti, e non avrebbero avuto quel primo titolo vinto insieme a ricomporre il tutto. Si sarebbe inevitabilmente arrivati a una rottura. Quell’ultimo quarto contro Portland, secondo me, ha fatto la differenza fra tre titoli Nba e zero».

Anche se fragilissimo, quello straccio di legame che univa ora O’Neal e Bryant, grazie anche agli altri ottimi giocatori che avevano attorno, era in qualche modo sufficiente per scalare la montagna e iniziare a intravedere l’oceano di possibilità che avevano davanti, prima che la più cupa delle nebbie tornasse ad addensarsi sopra di loro.