Secondo Paul Westhead e Mo Howard, Joe Bryant sarebbe dovuto essere un talento di prima categoria anche nella Nba. Ma l’aggiunta di Jellybean al mix rendeva piuttosto insolito il roster dei Sixers, con un quintetto base di giocatori duri ed esperti e una panchina piena zeppa di giovani promesse.
Bryant aveva davanti a sé, nel ruolo di ala, eccellenti giocatori come Billy Cunningham, Steve Mix e George McGinnis. I rookie erano tutti giovanissimi, inesperti e discontinui, perciò il loro utilizzo fu molto limitato, almeno all’inizio della stagione.
I ragazzi che uscivano dalla panchina, Free, Dawkins e Bryant, vennero presto ribattezzati «l’Artiglieria pesante», vista la loro predisposizione ad aprire il fuoco da qualsiasi posizione. Dopo essere stato per anni il beniamino del pubblico, è chiaro che Bryant avesse una visione piuttosto rosea del mondo, e la prima stagione Nba fu per lui un brusco risveglio.
«Joe vedeva il campo un po’ a sprazzi» ricorda Pat Williams. «Era dura per lui ottenere il minutaggio che desiderava. Era molto creativo nella gestione della palla. Era un giocatore spettacolare, e aveva quel soprannome fantastico. Ricordo molte partite con lui in campo e la folla in delirio. Non sono sicuro che la cosa piacesse ai suoi allenatori, ma era uno showman. Dava sempre quella sensazione, quando entrava in campo».
Il capoallenatore era Gene Shue. «Un veterano che ne aveva viste di tutti i colori» racconta Williams. «All’improvviso gli mettemmo a disposizione quest’arsenale di campioni in erba».
Come molti coach di quell’epoca, Shue non aveva la stoffa dell’«insegnante». Insegnare non faceva parte dei requisiti del ruolo, come sarebbe stato invece la norma nel Ventunesimo secolo, quando le squadre Nba avrebbero cominciato a scegliere con regolarità giocatori sempre più giovani. Nel 1975, il basket pro era ancora uno sport per uomini adulti.
«Gene era un veterano del basket, e si aspettava che i giocatori sapessero quello che facevano» dice Pat Williams. «Era lui stesso un ex professionista. Allenava da anni. Aveva allenato le grandi formazioni dei Bullets. Gene era Gene. Il suo approccio era: “A basket si gioca così”. E si aspettava che loro eseguissero».
I Sixers avevano scovato Darryl Dawkins in una high school della Florida, lo avevano tenuto nascosto prima del draft e lo avevano pagato perché passasse nei pro senza iscriversi al college. Fu uno dei primissimi giocatori a fare il salto dalla high school alla Nba (anche se, un anno prima, Moses Malone era passato direttamente dalla high school alla Aba).
«Shue si ritrovò una scuderia di giovani che volevano tutti la palla e volevano tutti stare in campo,» racconta Williams «ed era dura per loro ottenere il minutaggio che volevano. Avevamo Joe, avevamo Darryl, avevamo World B. Free, e ognuno di loro si sbatteva per cercare di giocare di più. Una situazione pazzesca, quella dei Sixers della stagione 75-76. Senz’altro un’avventura memorabile».
Siccome anche Bryant era impiegato poco e senza continuità, i cronisti del «Tribune», il quotidiano più letto tra la comunità afroamericana, erano furiosi per il trattamento riservatogli da Shue.
«Eravamo perplessi» afferma Mo Howard, parlando anche a nome di amici e conoscenti di Bryant, «perché non capivamo come mai nessuno si fosse accorto di che razza di giocatore era Joey. La gente andava alle partite solo per vedere lui, capisci? Io andavo per veder giocare Joey. Considera che l’ho sempre visto giocare in quel modo. Se era sul perimetro, e sparava un passaggio dietro la schiena, arrivava la ramanzina del coach. Se correva in contropiede, magari prendeva la palla a sei, sette metri dal canestro e si alzava in sospensione. Se sbagliava, arrivava un’altra ramanzina. Non eravamo abituati a vederlo trattato così, a Philadelphia».
Presto il seguito locale di cui godeva Jellybean diventò un peso. Ovunque andasse, Bryant si ritrovava a dover spiegare per quale motivo non giocasse di più, e non era semplice, perché non lo capiva nemmeno lui. Per la prima volta in vita sua, era costretto a guardare da fuori lo sport che adorava. La sua frustrazione era evidente.
«Andavamo tutti a veder giocare Joey, e il fatto che non riuscisse, come diciamo noi, ad “accendersi” – e sapevamo che poteva farlo –, beh, era frustrante anche per noi» spiega Mo Howard. «Soprattutto perché era uno di Philadelphia, soprattutto in casa. Era un esterno di due metri e sei capace di creare gioco e fare canestro. Giocava sempre per la squadra. Non faceva nulla per egoismo, dava tutto per far vincere la squadra. Era fatto così, Joey. Certo, magari ci metteva un pizzico di peperoncino in più rispetto alle altre guardie».
L’affetto che Shue provava per Bryant e al tempo stesso la sua frustrazione per lo stato delle cose sono ancora evidenti in un’intervista rilasciata dal vecchio coach quasi quarant’anni dopo.
«Joe giocava qualche minuto, ma quei ragazzi erano tutti molto giovani allora» ricordava Shue. «Volevano giocare di più, solo che non c’erano abbastanza minuti a disposizione. Mi è sempre piaciuto Joe Bryant. Mi piaceva anche World B. Free ma, ripeto, erano ragazzi molto, molto giovani. Darryl avrà avuto diciott’anni e Joe forse venti, World B. Free mi pare diciannove. Semplicemente non avevamo abbastanza minuti da dare a Joe per permettergli di eccellere, quindi giocava poco partendo dalla panchina».
Presto i Sixers si ritrovarono a dover gestire un problema con la stampa, poi con la comunità, il tutto mentre cercavano di ricostruirsi dopo la disastrosa stagione del 1973, che aveva trasformato l’atmosfera allo Spectrum, il palazzetto della città, in qualcosa di simile a quella di un mausoleo. Shue era stato ingaggiato per ribaltare la situazione in campo, ma i tifosi volevano veder giocare Bryant.
«Nel 1973 non c’erano giornalisti sportivi al seguito» ha raccontato il coach. «Non c’era copertura, non c’erano tifosi. Giocavano per una manciata di persone al massimo. Quella è stata la peggior squadra nella storia del basket».
Nella sua prima stagione da head coach, Shue portò il totale delle vittorie a venticinque, nella seconda a trentaquattro, e nel primo anno di Bryant riuscì a totalizzare quarantasei vittorie e a strappare l’accesso ai playoff.
Con le vittorie, la stampa riprese a garantire la copertura delle partite, racconta ancora Shue. «Ecco che all’improvviso i giornalisti sono tornati strisciando. Ad un tratto eravamo di nuovo una squadra, e quelli sono tornati strisciando».
I cronisti sportivi che seguivano i Sixers ricordano che Dawkins, Free e Bryant spingevano per far pubblicare articoli su di loro e sul loro scarso utilizzo.
«Non biasimo i giocatori per quello» ha affermato Shue, ancora sensibile all’argomento a quarant’anni di distanza. «La colpa è dei giornalisti, perché andavano sempre a caccia di notizie e di dichiarazioni negative, ogni giorno a chiedere “ma perché non giochi di più?” e via dicendo. Prendevano Darryl, prendevano Joe o World B. Free, e i ragazzi tiravano fuori la loro frustrazione perché non giocavano. E quelli hanno scritto un sacco di falsità sulla squadra, tirando fuori ragioni che non c’entravano. I ragazzi volevano solo giocare di più».
Tutti speravano che la presenza di Jellybean potesse risolvere un vecchio problema che affliggeva il basket di Philadelphia, fin dal titolo vinto dai Warriors nella primissima stagione Nba, grazie all’apporto di un tiratore bianco uscito da Kentucky di nome Joe Fulks. I Warriors vinsero di nuovo il titolo nel 1956, ancora con campioni di pelle bianca, tra cui spiccavano Paul Arizin, Neil Johnston e Tom Gola, che era uno dei tanti giocatori della squadra originario di Philadelphia. «Ma non riuscivano mai a far appassionare la gente di North Philly, cioè la comunità nera,» spiega Dick Weiss «eppure avevano giocatori favolosi».
Poi arrivò Wilt Chamberlain, all’inizio degli anni Sessanta, e questo aiutò a riempire un po’ di posti a sedere, aggiunge Weiss. «Quei Philadelphia Warriors, con Wilt, Arizin e Gola, erano fantastici. Ancora oggi c’è gente a Philadelphia che sostiene che Wilt sia stato il giocatore più forte di tutti i tempi».
Nonostante i successi in campo, i Warriors vennero svenduti alla West Coast al termine della stagione 1962, in cui Wilt Chamberlain aveva fatto registrare una media irreale di 50,4 punti e 25,7 rimbalzi a partita. Nel marzo di quell’anno, «Wilt the Stilt», figlio prediletto di Philadelphia se mai ce n’è stato uno, segnò 100 punti in una partita, e la squadra arrivò fino alle finali di conference.
Il trasloco dei Warriors dopo una stagione così incredibile, ha scritto il giornalista del «Philadelphia Inquirer» Frank Fitzpatrick, lasciò «una ferita indelebile»: «E anche se il tempo ha finito per lenire il dolore, non mi ha offerto nessuna illuminazione. Non capivo quella scelta allora e non la capisco ancora oggi, a cinquantatré anni di distanza».
Lo storico proprietario dei Philadelphia Warriors, Eddie Gottlieb, avrebbe portato con sé nella tomba, nel 1979, le ragioni della sua decisione. Ai tempi della cessione, i Warriors erano quinti per affluenza di pubblico, con circa 5500 spettatori a partita, in una lega formata allora da sole nove squadre (il che indica quanto diversa fosse l’incidenza della Nba nello sport americano).
Dopo la partenza dei Warriors, i Syracuse Nationals si spostarono a loro volta a Philadelphia e divennero i 76ers, che riportarono a casa Chamberlain e con lui vinsero un titolo Nba nel 1967, per poi cederlo ai Lakers l’anno successivo.
Insomma, essere un tifoso di basket pro a Philadelphia era un’esperienza faticosa e altalenante, e i Sixers speravano di riuscire a fidelizzare la tifoseria con un’infusione di talento locale. Dal momento però che lo si vedeva poco in campo, spiega Weiss, la vicenda di Jellybean contribuì solo a far infuriare ancora di più i fan. «Ecco perché Philadelphia, per un sacco di tempo, si è guardata bene dallo scegliere altri giocatori nati qui. Perché se un nativo di Philadelphia avesse finito per non giocare, si sarebbero guastati i rapporti con la tifoseria. Perché i tifosi venivano e ci chiedevano come mai il ragazzo di Philly non entrava in campo. La stessa storia che è successa con Joe».
In quella prima stagione, gran parte dei problemi in campo nascevano, come sosteneva Shue, dalla giovane età, dall’inesperienza e dalla discontinuità di rendimento dei tre talentuosi rookie. Spesso alle matricole è concesso del tempo per ambientarsi al ritmo della Nba, ma la dirigenza sentiva la pressione che i tifosi e i giornalisti esercitavano perché venisse dato spazio a Joe.
Il «Philadelphia Tribune», considerato dalla franchigia una delle testate strategiche per attirare la comunità nera, fece capire di non gradire il modo in cui veniva gestito Joe Bryant dopo appena poche settimane dall’inizio della stagione.
LA POLITICA DI SHUE GIOCA CON IL FUTURO DI JOE BRYANT, dichiarò il quotidiano il 13 dicembre 1975.
La percezione allora dominante rispetto ai giocatori «istrionici» (showboat players) non faceva che complicare la situazione. Negli anni Quaranta, quando la Nba era prevalentemente bianca, la lega faticava a vendere biglietti, ma riuscì a risollevarsi abbinando alle partite le esibizioni degli Harlem Globetrotters. E questo è considerato un elemento chiave per la sopravvivenza della lega durante quei primi, difficili anni.
Man mano che la Nba si affermava, i Minneapolis Lakers, una squadra composta solo di giocatori bianchi, e gli Harlem Globetrotters, tutti neri, si diedero battaglia in una serie di partite, a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta, piuttosto accese. Considerate le tensioni razziali nell’America di quei tempi, è comprensibile come la situazione potesse favorire la comprensione reciproca e al contempo l’animosità tra gli esponenti delle due razze.
In quel clima arroventato perfino un gesto tecnico come la schiacciata divenne oggetto di disputa. Jim Pollard, atleta formidabile, stella dei Minneapolis Lakers, spiegò una volta che i giocatori bianchi in grado di schiacciare venivano guardati con disprezzo perché il gesto era considerato «istrionico» o irridente per gli avversari.
Così, perfino i Globetrotters, che pure offrivano spettacolo a piene mani grazie al sensazionale trattamento di palla e alle scenette che preparavano per i tifosi, negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale evitavano di schiacciare. La schiacciata, semplicemente, non faceva parte del gioco.
Col passare del tempo, però, il dibattito sull’istrionismo nel basket si sarebbe dimostrato molto più complicato, trascendendo le questioni razziali. Nel 1970 arrivò come rookie negli Atlanta Hawks uno dei giocatori più spettacolari nella storia del basket, Pistol Pete Maravich. Gli Hawks gli accordarono un contratto da due milioni di dollari rifiutando al contempo di concedere un modesto incremento di salario a veterani affermati come Lenny Wilkens e Joe Caldwell, che prendevano meno di centomila dollari l’anno.
Richie Guerin, coach degli Hawks, era considerato uno degli allenatori più determinati della lega. Aveva trasformato gli Hawks in una squadra vincente instillando nei giocatori un approccio alle gare molto combattivo. «Lo stile di Pete era offensivo per me e per i suoi compagni di squadra» raccontò Guerin nel 1992, a proposito delle due stagioni in cui aveva allenato Maravich agli Hawks.
Quello era ancora il punto di vista dominante nel 1976, e influenzò anche il modo in cui venne recepita la creatività di Jellybean. Ma prima ancora di decidere se fare o no l’istrione, Bryant doveva almeno entrare in campo.
In gennaio, una delle stelle della squadra, Billy Cunningham, subì un infortunio al ginocchio, liberando minuti per Bryant. Fedele alla sua natura istrionica, Bryant aveva preso l’abitudine di attaccare il canestro e concludere con spettacolari schiacciate che ridicolizzavano spesso i centri avversari. Lo fece per esempio agli inizi di gennaio contro i due metri e dieci di Elmore Smith dei Milwaukee Bucks, festeggiando l’impresa agitando il pugno.
La sua energia era palpabile. «Ho soltanto una gran voglia di giocare» raccontò al «Delaware Country Times». «È questo che mi fa restare qui. Ogni volta che posso entrare, ci metto tutto il cuore che ho».
«Joe Bryant sta diventando un vero giocatore» disse Shue ai giornalisti, quella sera. «Il miglioramento più evidente riguarda la sua fiducia, la sua sicurezza. All’inizio dell’anno faceva fatica a sfruttare al massimo le sue qualità, anche perché gli tenevo il guinzaglio corto, continuavo a metterlo e toglierlo dalle partite».
In febbraio, Bryant disse ai giornalisti increduli che sperava ancora di riuscire ad aggiudicarsi il trofeo di Rookie of the Year.
«Quel trofeo è un mio obiettivo». Non lo avrebbe raggiunto. Fu Alvan Adams a vincerlo, grazie a una media di oltre 19 punti e 9 rimbalzi a partita che spinse i Phoenix Suns alle Nba Finals. Nel corso della regular season, Jellybean scese in campo in 75 gare, totalizzando una media di 16 minuti, 7,4 punti e 3,7 rimbalzi, cifre discrete per un rookie ma non sufficienti a soddisfare le aspettative di Bryant e dell’intera comunità. Bryant non venne neppure scelto per il quintetto ideale dei rookie, anche se il «Tribune» lo scelse come miglior rookie dell’anno e miglior ala del campionato, confermando l’affetto che la comunità nera di Philadelphia provava per il suo figlio prediletto.
I Sixers chiusero la stagione con quarantasei vittorie e trovarono i Buffalo Braves al primo turno dei playoff, in una serie al meglio delle tre partite. Bryant giocò poco in gara 1, persa da Philly, poi segnò dodici punti nella vittoria in gara 2 che riportò la serie in parità.
Alla vigilia di gara 3, il «Tribune» pubblicò un articolo su Pam, intitolato MISS J.B., UNA SIGNORA DI VENT’ANNI. Il fatto che quel quotidiano dedicasse un articolo alla moglie di un giocatore che aveva un impatto limitato sulle ambizioni dei Sixers nei playoff è indicativo del livello di notorietà di cui godevano i Bryant all’interno della comunità.
«Joey e io parliamo spessissimo di basket» disse Pam al giornalista, aggiungendo che capiva che il suo compito era di incoraggiarlo e aiutarlo a rimanere concentrato e pronto a livello mentale, nonostante le frustrazioni.
Pam raccontò al «Tribune» che né lei né suo marito avevano molto tempo da dedicare alle rispettive famiglie d’origine. I suoi genitori vivevano poco lontano. Lei e Joe avevano abitato insieme a loro per un certo periodo, fino a quando gli sposini avevano acquistato una bella casa non molto lontano, verso Lower Merion, nei sobborghi ricchi della città. Non tornavano spesso a Southwest Philly, disse, aggiungendo che Big Joe la chiamava ancora spesso, come aveva fatto durante la gravidanza, per avere notizie della nipotina Sharia, arrivata nel mese di marzo.
Nonostante gli alti e bassi di quella prima stagione, la casa dei Bryant era presto diventata una specie di rifugio, ricorda Mo Howard. «Era una bella casa. Andavamo lì dopo le partite. Restavamo spesso a guardare la tv. Oppure ad ascoltare musica, mangiare, cose così. E a fine stagione eravamo sempre lì. Ci allenavamo di giorno, poi andavamo da Pam e Joey e passavamo del tempo insieme perché, sapete, erano tra i pochi ad avere l’aria condizionata, a quei tempi».
Il giorno successivo all’uscita dell’articolo, i Sixers persero la partita decisiva con i Braves, 124-123. Jellybean uscì per falli dopo aver segnato nove punti.
IL PROCESSO
A tre settimane dal termine della stagione, la vita di Jellybean fu completamente stravolta dalla sua rocambolesca fuga dalla polizia, conclusa con la distruzione della macchina e l’inevitabile arresto. Un evento assurdo, difficile da accettare per Big Joe e Sonny Hill come per i tanti amici e sostenitori di Bryant. Ma quello più devastato era proprio Jellybean.
«Era a pezzi» ricorda l’ex general manager dei Sixers, Pat Williams. «Pensò subito al peggio. La fine della sua carriera, il disprezzo degli abitanti della città. Era un incubo per lui».
In quel periodo si finiva in galera anche alla prima trasgressione, per reati connessi all’uso di droghe, e spesso per detenzioni lunghe. Nel suo caso c’era l’aggravante della minaccia alla sicurezza stradale. Joe Bryant aveva violato i limiti di velocità guidando un’auto a fari spenti, fuggendo alla polizia, arrecando gravi danni a proprietà private. Con la cocaina trovata nell’auto, il giudice avrebbe potuto benissimo calcare la mano e infliggergli una condanna esemplare.
Sua moglie Pam parlò immediatamente con un inviato del «Tribune», affermando che sarebbe rimasta accanto al marito «fino alla fine».
Qualcuno pensò che la situazione potesse causare un colpo apoplettico a John Cox, ma la famiglia Cox era già incappata in guai con la legge nell’agosto del 1974, quando Chubby era stato coinvolto in un caso di scippo che lo aveva spedito in tribunale con diversi capi d’accusa. Chubby era alla guida della sua macchina con un gruppo di amici quando gli venne in mente di suggerire a uno di loro di saltare giù dall’auto e strappare la borsetta a una donna. Chubby giurò poi che si trattava di uno scherzo, ma l’incidente si gonfiò a tal punto che i giornalisti cominciarono a bussare alla porta di casa Cox in cerca di dettagli, per poi scrivere articoli da incubo su tutti i quotidiani di Philadelphia.
Era stato Richie Phillips, l’ex procuratore che un anno dopo sarebbe diventato l’agente di Jellybean, a difendere Chubby Cox in quella circostanza, e alla fine era riuscito a farlo assolvere da ogni imputazione. A quel punto il giovane passò alla University of San Francisco, dove giocò alla grande accanto a Bill Cartwright.
Nel bel mezzo della delicata vicenda legale di Joe, Phillips si ritrovò piuttosto a suo agio nel duplice ruolo di agente e avvocato difensore. L’avvocato annunciò con aria fiduciosa ai giornalisti che il suo cliente sarebbe presto stato assolto da qualsiasi accusa, il che era piuttosto sorprendente, considerata la montagna di prove a suo carico.
L’udienza preliminare venne fissata per gli inizi di giugno. In questa fase processuale, di solito, l’accusa trasmetteva le prove a carico in modo che il caso arrivasse al gran giurì per un’accusa formale, mentre la difesa non presentava mai prove a discarico.
Phillips, però, forte della sua esperienza nell’ufficio del procuratore distrettuale, decise di accelerare il processo. Decise di presentare le prove della difesa fin dall’udienza preliminare, una mossa di pubbliche relazioni piuttosto inconsueta.
Benché fossero emesse quotidianamente sentenze durissime per accuse di droga, la cocaina non era percepita come una sostanza così nefasta nel 1976. La coca circolava già da anni, ma i cartelli sudamericani erano riusciti a invadere il mercato degli Stati Uniti solo nel corso di quel decennio, cominciando a ricoprire il paese di polvere bianca, che divenne subito molto in voga tra i personaggi più in vista dell’epoca della disco.
L’American Psychological Association non aveva ancora sancito ufficialmente che la droga creava dipendenza, e la coca sembrava affiorare dappertutto nella cultura americana, specialmente nella Nba, dove ora la modifica della struttura salariale metteva a disposizione dei giocatori quantità notevoli di contante.
Nel 1976 in tanti facevano sparire quel contante «su per il naso». La Nba si era guadaganta in fretta la reputazione di una lega infestata dalla droga.
«Si facevano tutti» ricorda Sonny Vaccaro. «E sottolineo tutti. In quegli anni, l’intera cultura della Nba girava intorno alla droga».
Pete Newell, allora general manager dei Lakers, ha raccontato in un’intervista del 1992 che la Nba toccò uno dei punti più bassi della sua storia proprio negli anni Settanta, quando i corridoi degli hotel dove alloggiavano le squadre erano impregnati dell’odore degli stupefacenti e decine di donne pedinavano i giocatori creando un’atmosfera di dissolutezza sessuale. Come se non bastasse, c’era sempre la cocaina a fare da afrodisiaco.
Molti giocatori diventarono dipendenti dal sesso, raccontò l’ex Laker Lou Hudson. «Ne erano letteralmente divorati».
I dirigenti delle squadre, continuava Newell, non sapevano come gestire la situazione, in un’epoca in cui la lega stessa non aveva una vera e propria policy in tema di droghe. Con Los Angeles trasformata in una specie di ground zero della controcultura, i Lakers iniziarono ad assumere poliziotti fuori servizio per tenere d’occhio gli spostamenti dei giocatori.
La strategia non sembrò rallentare di molto il treno della coca. Ron Carter, un rookie uscito dal Virginia Military Institute, arrivò ai Lakers nel 1978 e raccontò di un incredibile party in un club di L.A. organizzato in onore di Kareem Abdul-Jabbar da due attori famosi, tifosi sfegatati della franchigia californiana. Ad un certo punto, sui tavoli del club, erano spuntate enormi vasche portaghiaccio colme di polvere bianca.
«Tenete presente che noi non sapevamo un bel niente» spiega Pat Williams. «Avevamo sentito delle storie, giravano delle voci, ma noi del front office eravamo all’oscuro di tutto. Voglio dire, non avevamo idea di cosa stesse realmente succedendo. Poi un giorno prendo il giornale e scopro che Joe Bryant era stato arrestato a Fairmount Park».
Philadelphia non era che una delle tante squadre colte di sorpresa dal rapido evolversi della cultura popolare. Il caso di Jellybean fu uno dei primi a portare il problema sotto i riflettori dell’opinione pubblica.
«Un sacco di persone a Philly erano preoccupate per lui, perché era un loro beniamino e non volevano vederlo andare a fondo» spiega Dick Weiss, che seguiva da vicino i Sixers in quel periodo. «La Nba era piena di casi come il suo. Non ho mai capito come nessuno sia mai stato fermato al momento di salire in aereo per andare in trasferta. I giocatori se la portavano sempre dietro».
«Nessun giocatore era disposto a parlare dell’argomento con i giornalisti» prosegue Weiss. «E a noi non veniva neanche in mente di farne chissà quale problema. Se accadesse oggi una cosa simile, sarebbe su tutti i giornali. A quei tempi era quasi un fatto culturale».
Anche così, l’arresto di Bryant riempì i titoli di testa dei quotidiani. L’episodio lo aveva depresso oltremisura ma, accanto a Richie Phillips come avvocato difensore, Joe poteva contare su un’altra forza che lavorava per lui: il rapporto con Sonny Hill, la cui organizzazione era piena zeppa di addetti alla libertà vigilata e altri rappresentanti della giustizia.
Come spiega Gilbert Saunders, Hill non aveva alcuna intenzione di perdere uno dei ragazzi che era riuscito a strappare alle strade di Philadelphia. E la conferma arrivò in occasione dell’insolita udienza preliminare del caso Bryant.
Jellybean arrivò nella stanza 285 del tribunale cittadino con un’espressione corrucciata e un elegante completo giacca e cravatta. Teneva in braccio l’adorabile figlioletta, Sharia, che portava un buffo cappello. Pam, con i capelli appena tagliati in un incantevole caschetto, camminava alla sua destra indossando un completo con i pantaloni attillati. Non sembrava certo una donna che ha partorito due mesi prima. Di fianco, i rappresentanti della coppia accompagnarono i Bryant lungo la corsia centrale dell’aula. Richie Phillips sfoggiava un completo a tre pezzi e gli occhiali da sole.
Phillips aveva convocato ben venti testimoni pronti a magnificare la personalità di Bryant, una tattica mai vista in un’udienza preliminare. Dell’elenco facevano parte anche l’allenatore e il general manager della squadra. La franchigia era appena stata ceduta ma lo storico proprietario Irv Kosloff provava un immenso affetto per Jellybean e volle essere presente a tutti i costi per prenderne le parti, e altrettanto fece il suo ex allenatore di atletica, il reverendo Eugene Festus, altro personaggio leggendario di Philadelphia che aveva combattuto la Prima guerra mondiale nel famosissimo corpo degli Harlem Hellfighters.
All’accusa non mancavano certo le prove a carico, ma nel corso dell’udienza – intitolata «Il Commonwealth contro Joseph Washington Bryant III» – il giudice J. Earl Simmons si affrettò a stabilire che la polizia aveva perquisito la vettura di Bryant senza che ce ne fossero gli estremi. Un’affermazione quantomeno curiosa, considerato il comportamento di Bryant nel corso di quella tremenda nottata.
Il giudice disse a Bryant: «Mi aspetto che lei d’ora in poi righi dritto. Lei occupa una posizione di riguardo all’interno della comunità e mi aspetto che ne sia all’altezza. […] Lei è un idolo per i giovani di Philadelphia. Mi auguro che continui a meritarsi tanta adorazione».
«La franchigia si schierò al suo fianco» ricorda Pat Williams. «Lui era commosso, molto sollevato e riconoscente. Credo che quella storia lo avesse spaventato a morte».
BRYANT L’HA FATTA FRANCA, titolò il «Delaware County Times» il giorno seguente, opinione condivisa da tutta la stampa locale.
Jellybean si sarebbe meritato almeno una bacchettata sulle dita, scrissero in molti. Invece «se l’è cavata con poco più di una sgridata» affermò il «Times».
Non ci furono punizioni, non ufficiali almeno, ma lo spettro di quell’episodio avrebbe perseguitato Bryant per il resto della sua carriera. Jellybean arrivò a pensare di aver subìto la peggiore delle condanne, contro la quale non c’era possibilità di patteggiamento.
Malgrado ciò, col tempo divenne evidente che il giudizio del tribunale aveva salvato la famiglia.
Senza quel giudice accondiscendente, Joe Bryant avrebbe potuto tranquillamente finire in prigione. E allora, è probabile che non avremmo mai avuto un Kobe Bean Bryant. E i tifosi dei Los Angeles Lakers non avrebbero mai potuto ammirare sul campo colui che si sarebbe autodefinito «Black Mamba», il mamba nero.