6. Kobe Bean

Nel novembre del 1977 i Sixers partirono a razzo infilando una striscia di quattordici vittorie e una sola sconfitta. Travolsero i Celtics a Boston per 121-112 il venerdì prima del Ringraziamento, poi tornarono a Philly in aereo per giocare altre due partite in tre giorni, cogliendo altri due successi, sabato contro Milwaukee e martedì contro Houston, prima di partire la mattina presto di mercoledì per scendere in campo la sera tardi a Detroit, e saltare poi su un altro volo nel giorno dedicato al tacchino.

In una pausa di quel programma serratissimo, Joe e Pam trovarono il tempo di concepire un terzo figlio. La maggiore, Sharia, era nata nel 1976 e la seconda, Shaya, nel 1977. Infine, il 23 agosto 1978, esattamente nove mesi dopo quella partita casalinga alla vigilia del Ringraziamento, apparve sul nostro pianeta il loro primo e unico figlio maschio, mentre Joe coglieva altri successi estivi nella Baker League.

Nella linea genealogica della famiglia Bryant c’erano ben tre Joseph di fila, mentre i Cox potevano contare su tre John. Pam e Joe decisero però di chiamare il figlio Kobe, pare in seguito a una deliziosa cenetta che la coppia si era concessa presso una steak house giapponese nella vicina King of Prussia, Pennsylvania, durante la gravidanza di Pam. Entrambi, avrebbero spiegato, erano rimasti incantati dalla musicalità di quel nome, che loro pronunciavano «ko-bi», anziché «ko-be» come in giapponese.

Per non spezzare del tutto il consueto legame padre-figlio, decisero di dargli come secondo nome una versione ridotta del nomignolo paterno, cioè Bean. E così fu Kobe Bean Bryant.

A conferma, avrebbe commentato qualcuno in seguito, di quanto bizzarra fosse quella coppia. Ma erano gli anni Settanta, un decennio in cui le nuove generazioni consideravano superate le tradizioni del passato. Basti ricordare che il celebre medico-clown Patch Adams avrebbe chiamato suo figlio Atomic Zagnut.

Joe e Pam Bryant erano dunque in linea con lo spirito dei tempi quando decisero per Kobe Bean. Dopotutto, adoravano davvero quella bistecca. E col tempo la scelta si sarebbe dimostrata azzeccata, perché era un nome unico che avrebbe fatto presa dal punto di vista del marketing.

Presto, anche grazie al nome, loro figlio sarebbe diventato una star inconfondibile.

All’inizio, quando i giornali di Philadelphia accennavano al ragazzino, usavano sempre entrambi i nomi, come nella frase «il giovane Kobe Bean sembra promettente, come giocatore».

La scelta aveva un senso, avrebbe sostenuto qualcun altro, perché la carne Kobe è un alimento prelibato, trattato in modo particolare. Si ricava dai pregiati manzi di Kobe, allevati e accuditi per essere trasformati in un marchio esotico di valore, come sarebbe diventato poi lo stesso Kobe Bean Bryant.

Più del nome contava però il corredo genetico, osserva Paul Westhead. «Pam veniva da una famiglia di atleti. Chubby aveva talento, non era uno scarso. Sapeva giocare. Non aveva la taglia fisica di Joe, ma era un buon giocatore. Se uno avesse voluto azzardare un pronostico, diciamo che era prevedibile che il frutto di quell’unione avesse del talento».

A prescindere dal dna, il processo di creazione dei grandi campioni sembra cominciare spesso da una madre perfezionista. La figura di Pam Cox Bryant è sempre rimasta avvolta nel mistero perché, a differenza della madre di Michael Jordan, Deloris, non ha mai scritto un libro, non è mai finita sulle copertine di riviste patinate e non ha mai girato il mondo per provvedere al benessere della famiglia. Al contrario, ha sempre scelto di tenere un profilo basso.

Durante gli anni formativi del figlio, la spiccata tendenza di Pam a manipolare lavorando dietro le quinte le attirò l’ammirazione e l’ira di amici e parenti. Era piuttosto bella, dicevano tutti, spigliata, attraente, raffinata e affascinante, amante del buongusto e dei piaceri più ricercati che la vita potesse offrirle. Eppure, come suo padre, preferiva sempre tenersi alla larga dalla luce dei riflettori, che avrebbero illuminato invece la vita del figlio.

Proprio la sua famiglia è la dimostrazione più evidente della natura perfezionista di Pam. I suoi tre figli erano sempre ben vestiti, pettinati ed educati, fin dalla tenerissima età, impeccabili nel modo di parlare, di comportarsi e in generale di mostrarsi in pubblico.

«Se tutti crescessero i propri figli come i Bryant hanno cresciuto i loro tre, al mondo ci sarebbero un sacco di persone produttive in più» osserva Leon Douglas, ex compagno di Joe nel campionato italiano, che aveva avuto modo di osservare da vicino il gran lavoro di Pam.

Amici e parenti rimarcano anche che il fulcro dell’amore e delle attenzioni di Pam era Kobe, e che tra madre e figlio c’era un legame molto stretto.

«Quando Pam ha avuto finalmente un figlio maschio, era al settimo cielo» spiega un’amica di famiglia. «Lei adorava le bambine, intendiamoci, ma il centro del suo universo era Kobe. Forse perché un figlio maschio era quello che Joe desiderava di più, e lei voleva tenersi Joe a tutti i costi. Kobe diventava dunque il figlio che faceva quadrare tutti i conti».

L’affetto che Pam aveva riversato su Chubby durante l’adolescenza era stato la prova generale dello spettacolo principale, ovvero il rapporto con il figlio.

«Quando arrivò Kobe, Pam si illuminò letteralmente» ricorda Mo Howard. «Ora aveva un figlio e, a parte lui, credo che l’amore della sua vita fosse Chubby. Quanto si coccolava il fratello è una cosa da non credere. Ma adesso aveva un figlio tutto suo».

Pam era instancabile nel coltivare l’immagine di una famiglia perfetta. «Qualsiasi cosa succedesse all’interno della loro famiglia, il ritratto che proponeva a noi era sempre perfetto» spiega ancora l’amico. «Voglio dire, ogni volta che parlava di qualcuno, era sempre perfetto. Era quello il suo obiettivo, descrivere tutto come perfetto. Kobe, le sue figlie. Tutto quanto».

La perfezione che Pam vedeva intorno a sé era lo specchio del suo comportamento. «Pam era sempre bellissima,» aggiunge l’amica «molto dolce, molto disponibile, sempre gentile, e le sue figlie erano proprio come lei».

Quell’approccio si estendeva al conseguimento degli obiettivi da parte dei figli. Il fatto di essere dotati di un grande talento atletico naturale non poteva mai essere una scusa per i bambini, da cui ci si aspettava sempre che facessero i compiti e che fossero responsabili e giudiziosi.

Fin dalla prima infanzia, Kobe Bean venne allevato in una famiglia che suscitava ammirazione, e non solo da parte dei giornali di Philadelphia, ma ovunque andassero.

Pat Williams ricorda che i Bryant portavano con orgoglio il neo­nato allo Spectrum, l’impianto casalingo dei Sixers. «Quando la gente mi chiede “cosa ricordi di Kobe Bryant?”, rispondo sempre che mi ricordo i nonni che lo tenevano in braccio o nel passeggino durante le partite. Si può dire che sia cresciuto allo Spectrum. Il suo primo anno di vita in pratica lo ha trascorso con i Sixers».

Gilbert Saunders ricorda di aver incontrato Joe con il figlio al seguito, mentre usciva da un ascensore dopo una partitella estiva. Il giovane Kobe Bean era al volante di un’automobilina giocattolo.

«Era una Mercedes» precisa Saunders con un sorriso.

Jellybean era il ritratto del padre orgoglioso – quando non era in trasferta, ovviamente.

Più avanti, il legame cestistico tra Kobe Bryant e suo padre sarebbe stato sotto gli occhi di tutti. Durante gli anni formativi di Kobe, però, considerata la celebrità del padre e i viaggi frequenti a cui era obbligato come atleta professionista, è comprensibile che il primo legame forte Kobe lo abbia stretto con la madre. Le sorelle gli affibbiarono l’etichetta di inguaribile cocco di mamma.

Di conseguenza, il figlio finì per rispecchiare in buona parte la personalità di Pam, lontana anni luce dall’atteggiamento allegro e spensierato del padre.

«Dal punto di vista dell’entusiasmo, e dell’amore per il gioco, assomiglio più a mio padre» ha dichiarato Bryant nel 1999. «Ma sul campo, sono più come mia madre. Lei è una specie di pitbull».

«Il suo temperamento è proprio quello» ha aggiunto battendo le mani con un colpo secco. «Molto competitiva. Quindi si può dire che io abbia preso il meglio dai due mondi».

Madre e figlio avevano lo stesso carattere, di solito adorabile, ma capace di mutare da un momento all’altro, irrigidendosi in una freddezza glaciale. Quella freddezza poteva spiazzare chi se la trovava di fronte all’improvviso. E, insieme alla tendenza agli scoppi d’ira, madre e figlio se ne sarebbero serviti per definire i parametri delle loro vite.

Il motore principale però restava il perfezionismo. Tex Winter, l’inventore del famoso attacco triangolo che ha lavorato gomito a gomito con Jordan e Bryant, ripeteva spesso che, fra i tanti tratti comuni alle due superstar, a spiccare di più era il loro perfezionismo. Per quanto riguarda i traguardi conseguiti da Bryant, è giusto dire che, sotto molti aspetti, è stata la madre a creare l’uomo.

MALINCONIA DA CAMPIONATO

Se mettere su famiglia aveva riempito di gioia la vita di Joe Bryant, la sua carriera continuava invece a procurargli emozioni diverse. Al termine della stagione ’77, la squadra aveva concluso uno scambio multimilionario con i New Jersey Nets, portando a Philadelphia Julius Erving, il leggendario «Doctor J», poco prima del fallimento definitivo della Aba. Tutt’a un tratto, Joe Bryant si ritrovò ancora più ai margini delle rotazioni di Gene Shue. Il minutaggio risicato di cui Jellybean si era lamentato durante l’anno da rookie sarebbe stato ora addirittura dimezzato.

«Aveva i suoi momenti» ricorda Pat Williams. «Nessuno dubitava del fatto che fosse un giocatore di talento, ed eravamo pienamente convinti di poter costruire il nostro futuro con quei giovani. Tuttavia, avevamo ora un nucleo di veterani che erano più avanti di loro. McGinnis, Julius, Steve Mix, Harvey Catchings, e cercavamo di inserire tra loro anche Darryl. Voglio dire, avevamo fin troppo talento in squadra».

Quando giocava, Jellybean faceva sempre parte della famigerata «Artiglieria pesante», il che non aiutava la sua crescita come giocatore, sostiene Mo Howard. «Quei ragazzi della seconda unità se ne fregavano alla grande. Non gliene fregava proprio niente di niente. Gli toccava giocare dietro a Julius e agli altri, e sembrava che pensassero: “Quando ci mette dentro, facciamo a modo nostro”. È da allora, immagino, che a Joe è rimasta appiccicata quella brutta etichetta».

Nel complesso, la squadra era abbastanza disunita.

«In quello spogliatoio non era difficile fare una bella intervista» ricorda Dick Weiss, che scriveva dei Sixers. «Non ce n’era uno a cui non piacesse parlare. Julius era il migliore perché era il professionista perfetto. Poi c’era un gruppetto di ragazzi aperti e disponibili, e altri molto divertenti come Steve Mix e Caldwell Jones».

Il giovane e massiccio Darryl Dawkins, soprannominato «Chocolate Thunder», Tuono di cioccolato, era un aspirante poeta, e affermava di provenire dal pianeta Lovetron. Lloyd Free avrebbe presto cambiato nome in World B. Free.

«Darryl ti faceva piegare dalle risate» ricorda Weiss. «Lloyd Free e Joe erano pronti a raccontare qualunque cosa. Bastava aprire il taccuino, e ci pensavano loro a riempirtelo».

McGinnis rilasciava interviste fumando una sigaretta. A volte, Jellybean parodiava quell’abitudine, facendosi intervistare fumando e suonando una chitarra immaginaria.

«Una volta chiesi a Joe come andavano le cose nei Sixers, perché mi sembrava un gruppo di grande talento» ricorda Vontez Simpson. «Lui mi rispose che mancava qualcuno che desse l’esempio e tenesse tutti in riga. I giovani si ritrovavano pieni di soldi a fare baldoria dopo le partite». Joe raccontò a Simpson che Erving non partecipava quasi mai ai festini, ma allo stesso tempo non era il tipo che si metteva a dire agli altri come vivere la propria vita.

Sul campo, tutti i Sixers dovettero fare qualche aggiustamento per giocare accanto a un fenomeno come Doctor J. «Andavano tutti d’accordo» racconta Dick Weiss. «Julius dettava la linea per tutti. Non era come nella Aba, dove era una specie di superuomo, ma era ancora dannatamente in gamba».

McGinnis, ex leader della squadra, all’inizio faticò, ma presto comprese che le gerarchie erano cambiate. La realtà divenne ancora più evidente quando i Sixers raggiunsero le Finals del 1977 contro i Portland Trail Blazers guidati da Bill Walton.

«Non credo che Joe avesse minimamente immaginato che sarebbero arrivati a giocare per il titolo» ricorda Mo Howard.

Non era il tipo di pensiero ispirato che di solito passava per la testa di un giocatore al secondo anno, soprattutto uno frustrato come Jellybean.

Nel corso dei playoff, McGinnis iniziò a incontrare delle difficoltà, liberando come d’incanto un po’ di spazio per Jellybean. È curioso che fu la sua difesa a colpire allenatori e tifosi durante le Finals. I Sixers andarono a Portland e vinsero le prime due gare, ma le cose cominciarono a cambiare quando, verso la fine di gara 2, scoppiò una rissa fra Dawkins e l’ala grande di Portland, Maurice Lucas.

«Fino a quel momento sembrava che stessimo per spazzare via i Trail Blazers» ricorda Pat Williams. «Poi scoppiò la rissa».

Dopo la partita, Dawkins era furioso perché nessuno dei compagni era intervenuto in sua difesa durante lo scontro. (In realtà Doug Collins ci aveva provato, ma era stato steso inavvertitamente dallo stesso Dawkins). Il giovane centro si lanciò in una sfuriata negli spogliatoi, riversando la propria rabbia sui bagni e provocando un mezzo allagamento.

«Sradicò un lavandino, ribaltò un gabinetto, in pratica distrusse lo spogliatoio» ricorda Williams. «Era una furia umana di vent’anni, due metri e dieci per centoventi chili. Combinò un disastro vero e proprio».

Molto tempo dopo, qualcuno avrebbe ricordato con divertimento le scarpe e i vestiti costosi dei compagni che galleggiavano per lo spogliatoio, ma in quel momento a nessuno venne da ridere. Quell’episodio sembrò distruggere qualsiasi traccia di concentrazione e alchimia di squadra, osservò in seguito World B. Free. Nonostante il vantaggio di 2-0 nella serie, i Sixers non riuscirono a vincere nemmeno un’altra partita, perdendo le tre gare successive in casa.

Un contrito Darryl Dawkins, che non aveva smarrito la vena poetica, scrisse un’Ode a gara 6 in attesa della sfida decisiva. I Sixers giocarono bene ma persero di misura.

I loro guai proseguirono nelle prime cinque o sei gare della stagione successiva. Il nuovo proprietario della franchigia, F. Eugene Dixon, era molto irritato dal tira e molla sul rinnovo del contratto di coach Gene Shue, uno dei primi a ricorrere ai servizi di un agente, l’onnipresente Richie Phillips.

«Fitz Dixon non era contento» ricorda Williams. «Pensava che Shue volesse estorcergli più soldi soltanto perché lui era il nuovo proprietario».

Dixon era solito sedersi dietro la panchina della squadra, e una sera, dopo che la squadra si era espressa malissimo nella prima settimana di campionato, fece cenno a Williams, che si trovava nei box riservati alla stampa, di scendere verso il campo. Quando il general manager lo raggiunse, gli ordinò di silurare Shue e di prendere come nuovo coach l’ex Sixer Billy Cunningham.

«Fu irremovibile nella sua decisione» racconta Williams.

Shue e tutta la Nba rimasero scioccati da quella mossa, ma Cunningham, un beniamino del pubblico, appena arrivato guidò la squadra alla striscia di quattordici vittorie e una sconfitta nel famoso mese di novembre in cui fu concepito Kobe Bean.

Cunningham introdusse un approccio rigoroso. Joe Bryant aveva giocato abbastanza bene nei playoff da meritarsi un’estensione del contratto. Rimase a Philadelphia altre due stagioni, fino a quando Cunningham, insieme ai suoi assistenti Chuck Daly e Jack McMahon, decise di fare piazza pulita dell’anomalia chiamata «Artiglieria pesante».

Quando la squadra fu eliminata dai Bullets nei playoff del 1978, lo staff tecnico disse a Williams di scambiare sul mercato World B. Free.

«A quel punto avevamo scelto Mo Cheeks al draft,» ricorda Williams «e avevamo ceduto George McGinnis, mandandolo a Denver in cambio di Bobby Jones. Gli allenatori vennero da me e mi dissero che dovevamo mandare via Lloyd Free. A me piaceva un sacco Lloyd. Era un giocatore estremamente spettacolare, una grande arma offensiva, e non aveva paura di nulla».

«Fu una decisione molto difficile per me» ricorda ancora Williams. «Loro erano convintissimi che così non saremmo riusciti ad arrivare dove volevamo. Io obiettai che ovunque fosse andato, Lloyd avrebbe segnato 35 punti di media, ma alla fine cominciai a proporlo in giro. Era il mio dovere. Feci il giro delle squadre e non cavai un ragno dal buco. Ad un certo punto Gene Shue, che era andato ad allenare a San Diego, mostrò un certo interesse. Niente di eccezionale, ma almeno era un inizio. Alla fine riuscii a mettere in piedi un accordo con cui mandammo a loro Lloyd Free per ottenere in cambio la prima scelta del 1984, che tra l’altro ci servì poi per prendere Charles Barkley».

Smantellata l’Artiglieria pesante, nel 1979 i Sixers raggiunsero di nuovo i playoff. Durante una serie decisiva contro San Antonio, Cunningham mise in campo Bryant solo per vederlo scagliare immediatamente un tiro da lontanissimo che mancò il bersaglio e aprì un contropiede agli Spurs.

Cunningham tolse subito Jellybean dal campo, e i Sixers finirono per perdere la partita.

«Billy tratteneva sempre il fiato quando metteva dentro Joe» spiega Pat Williams. «I coach dicevano: “Non riusciamo a gestirlo, a sfruttare il suo talento”».

«Ricordo bene quel tiro» afferma Mo Howard. «Dopo di allora non giocò più. Non entrò proprio più in campo. Ricordo chiaramente il tiro di cui parliamo. Forse il problema era solo che era appena entrato in campo. Quelli erano tiri che Joe si prendeva abitualmente».

In quattro anni a Philadelphia, Bryant non aveva fatto che lamentarsi con i giornalisti perché voleva essere scambiato. All’improvviso lo scambio divenne una possibilità concreta.

«Ci stavamo preparando per la stagione successiva, quando Billy, Chuck e il resto dello staff mi dissero di cedere Joe Bryant» ricorda Williams.

Williams chiamò i colleghi in giro per la lega, nel tentativo di scambiare Jellybean. «Nessuno mi offrì niente».

Finalmente, in ottobre, quando la nuova stagione era ormai sul punto di cominciare, il solito Gene Shue offrì la prima scelta della sua squadra al draft del 1986 in cambio di Joe Bryant. Quella scelta venne poi ceduta a Cleveland per prendere il centro di North Carolina Brad Daugherty.

«Ricordo quando chiamai Joe per dirgli dell’accordo» racconta Williams. «Credo che sia stato un sollievo per lui. Voleva giocare. Sapeva che era giunto il momento di andare via. Non vedeva l’ora di andare in una squadra dove avrebbe avuto la possibilità di fare quello che più desiderava».

Per i tifosi e gli amici di Bryant, il periodo ai Sixers fu una grande occasione sprecata.

«Era un personaggio speciale» osserva Mo Howard. «La gente di Philadelphia rispettava davvero lo stile di gioco di Joey. Ho pensato spesso che lo facessero entrare in campo solo per tenere buono il pubblico. Lo mettevano dentro, giocava un pochino e poi lo toglievano subito e lo lasciavano lì in panchina. Se gli avessero dato la possibilità di giocare superando i primi errori, o almeno quelli che erano considerati errori, avrebbe giocato ad altissimi livelli. Philadelphia aveva un sacco di ottimi atleti, ma Joey era speciale. Quello che sapeva fare lui gli altri se lo sognavano. Avrebbe potuto essere un altro George Gervin».

Nelle quattro stagioni ai Sixers, Jellybean aveva giocato almeno qualche minuto in tutte e cinque le posizioni e se l’era cavata bene sia come guardia che come ala, e perfino come centro.

Ripensandoci parecchi anni dopo, Pat Williams sostiene che Bryant era molto versatile ma non abbastanza bravo da eccellere in una delle posizioni in campo. Non era abbastanza rapido per essere una grande guardia, né abbastanza atletico per primeggiare come ala, né abbastanza forte sul piano fisico per imporsi come centro.

E poi era terribilmente incostante, fantastico in una partita, un mezzo disastro in quella successiva.

L’atmosfera festaiola di Philadelphia non era il massimo per una famiglia giovane con tre figli sotto i quattro anni d’età. Il clima di San Diego era senz’altro più gradito a Pam, e anche il clima in campo si rivelò migliore.