Quel volto scuro sembra divertito, colto in un mezzo sorrisetto tra una distesa di ragazzi bianchi, nella foto ricordo di un campo estivo, in Italia. Si trova nell’angolo in basso a destra della foto, davanti a due file di italiani sorridenti. Sono tutti più grandi di lui, ma, a giudicare dall’espressione, il giovane Kobe Bryant sa di essere già un giocatore migliore di quanto potranno mai diventare tutti gli altri. Sopra di loro torreggia la figura di un sorridente Joe Bryant, ospite d’onore del campo, il viso irradiato dalla sua stessa luce.
Jellybean sorrideva sempre, ma gli amici dell’epoca ricordano che Kobe era esattamente l’opposto, soprattutto quando si metteva la divisa da basket.
«Aveva sempre una faccia seria, sempre seria, quando giocava» ricorda Michele Rotella, un ragazzo più grande che si batteva spesso con Kobe in un campetto sulle colline toscane a Cireglio, frazione di Pistoia. «Non sorrideva mai. Era molto determinato».
«Era sempre così serio quando faceva qualcosa che aveva a che fare con lo sport, sempre così intenso» ricorda sua sorella Sharia.
«La mentalità di Kobe era concentrata su vincere, vincere, vincere» afferma Giacomo Vittori, altro amico d’infanzia italiano.
«Quando Kobe aveva otto anni e io undici, giocavamo nello stesso campionato» ricordava Sharia nel 1999. «Gli altri ragazzini volevano solo giocare, mentre lui diceva sempre: “Io voglio vincere”. Una volta mancavano solo trenta secondi ed eravamo sotto di due, e lui continuava a dire: “Datemi la palla”. Era concentratissimo. Era sempre così, lui».
Kobe racconta di essersi reso conto di poter decidere le partite da solo molto presto, «fin da quando ero piccolo, a nove o dieci anni, quando giocavo a minibasket. Quando la partita arriva alla giocata decisiva e tu ti trovi con le spalle contro il muro, io sono pronto a combattere. Si tratta di combattere o fuggire, e io sono sempre stato un combattente».
Anni dopo, agli occhi degli allenatori dei Los Angeles Lakers, l’Italia sarebbe diventata il paese in cui Kobe aveva imparato a disprezzare i compagni meno esperti e con meno talento, per affidarsi unicamente alle proprie capacità. Quando nei Lakers giocava da egoista, alcuni dei suoi allenatori commentavano sottovoce che Kobe Bryant «era tornato in Italia».
«Era piuttosto individualista» ricorda Giacomo Vittori, aggiungendo che dipendeva dal fatto che Kobe era molto più forte degli altri. «Catturava l’attenzione di tutti. Era l’unico ragazzino di colore, a quei tempi, quindi lo conoscevano tutti. Era molto bravo».
Fu in questi anni che cominciarono a emergere alcuni specifici tratti del carattere che aveva in comune con la madre. Per lei era quasi un bambolotto, e le piaceva vestirlo di tutto punto come un ometto, con maglioncini raffinati e altri vestiti eleganti, dando l’impressione che fosse un adulto in miniatura più che un bambino.
Pam Bryant aveva una personalità carismatica e, fin da subito, qualcosa di simile si intuiva nei modi di Kobe. L’Italia, e il fatto di essere cresciuto in un ambiente imbevuto di cultura europea, avrebbe lasciato un segno indelebile in lui, facendone un personaggio davvero singolare, diverso dagli altri, soprattutto nel momento in cui approdò nel basket pro americano.
Al suo ingresso nella Nba, quando gli chiesero quanto fosse stata importante la sua esperienza in Italia, Kobe rispose: «A parte la mia grande elevazione, tutto il resto lo devo all’Italia».
L’Italia si rivelò l’ambiente ideale per tutta la famiglia. Il repertorio fantasioso di trucchi e passaggi spettacolari di Joe, che avevano fatto ululare le folle a Philadelphia, era molto apprezzato nel Bel paese. Bastò una partita perché Joe comprendesse che poteva guadagnare bene e al tempo stesso ritrovare l’amore dei tifosi, di cui sentiva tanto la mancanza.
Sbalorditi dalla sua abilità con la palla, gli italiani avrebbero usato spesso un’espressione per descrivere il modo di giocare di Joe, «una bellezza».
Senza dubbio, l’Italia si rivelò un posto meraviglioso per la giovane famiglia Bryant, un fattore di coesione che servì a rinsaldare i rapporti tra di loro. L’Italia, tuttavia, alimentò e rinforzò anche altri aspetti, di cui sul momento i Bryant non erano consapevoli, che era difficile cogliere in mezzo alla passione da cui erano circondati, ma che finirono per introdurre nelle loro vite una certa dose di freddezza, che il giovane Kobe Bryant avrebbe presto incorporato nella propria esistenza.
Proprio come in America, la famiglia Bryant cambiò residenza parecchie volte anche in Italia, elevando a norma quel senso di alienazione che avrebbe accompagnato Kobe per tutta la vita. Da bambino Kobe faceva sempre fatica a stringere nuove amicizie, e appena succedeva era già ora di dire ciao.
La prima casa italiana dei Bryant fu a Rieti, dove la famiglia si trasferì e Kobe iniziò ad andare a scuola qualche settimana dopo il suo sesto compleanno. Sharia aveva otto anni, Shaya sette. Era una antica cittadina pochi chilometri a nordest di Roma, nel cuore della terra dei Sabini, le cui donne, secondo la leggenda, erano state rapite dai Romani per incrementare la popolazione della città appena fondata da Romolo. Attraversata dal fiume Velino e con un bel lago panoramico, quella regione montuosa era diventata meta ideale per vacanze riposanti, ed era particolarmente apprezzata dai papi.
A Rieti i Bryant si adattarono bene. La squadra fornì alla famiglia alloggio e automobile. Non conoscevano la lingua ma i bambini passavano i pomeriggi a impararla con giochi di parole. In pochi mesi riuscirono a crearsi una situazione confortevole in un mondo completamente diverso da quello che si erano lasciati alle spalle. L’esperienza unì molto i vari membri della famiglia.
«Stavamo bene, lì» ricordò in seguito Kobe. «Eravamo a nostro agio. Sviluppammo quel tipo di mentalità, in Italia. La cosa importante è la solidità della famiglia. Quando hai quella, tutto il resto va bene. Che tu segni cinquanta punti o nessuno, la tua famiglia sarà sempre lì per te. Gli italiani la pensano allo stesso modo. È un popolo dal cuore caldo».
Così la famiglia divenne il caposaldo di quella fiducia in sé stesso che suo padre continuava a infondergli. Joe Bryant spiegò in seguito di essere sempre stato schiavo della propria mancanza di autostima, a cui attribuiva, almeno in parte, la responsabilità dei propri fallimenti. Sembrava deciso a fare in modo che suo figlio non ereditasse le sue stesse debolezze.
A incrementare la fiducia di Kobe fu la sua totale immersione nel basket, fin da bambino, quando partecipava alle trasferte del padre sul pullman della squadra. Tutte le squadre pro, inoltre, avevano un settore giovanile, e il fatto di giocare in una squadra giovanile e di andare agli allenamenti con suo padre servì a costruire in Kobe le basi della sua comprensione del gioco.
Col senno di poi, si può dire che la parentesi in Italia gli abbia offerto la scuola di basket più completa che si possa immaginare. «Ho cominciato lì a giocare,» ha raccontato Kobe «ed era fantastico, perché ho imparato prima di tutto i fondamentali. Credo che la maggior parte dei ragazzini in America imparino subito a palleggiare in modo creativo. In Italia ti insegnano i veri fondamentali e non le stupidaggini».
Ancora una volta affiorava, in ogni occasione, un’acuta comprensione delle «stupidaggini» che avevano segnato la carriera del padre.
Alcuni allenatori in seguito si sarebbero dichiarati di parere diverso, sostenendo che l’esperienza in Italia avesse in qualche modo «disconnesso» Kobe dal resto del mondo, rendendolo un compagno di squadra quantomeno sospetto. Eppure, perfino i suoi detrattori non potevano negare la pulizia dei diversi elementi del suo stile. «Credo che, di fatto, l’Italia sia stata la base del suo gioco» osserva Leon Douglas, compagno di squadra di Joe in Italia. «Ha imparato tutti gli aspetti del gioco laggiù, studiandolo nei minimi dettagli».
Nel corso della sua carriera, ogni volta che si rendeva conto che gli mancava qualcosa, Bryant ha sempre dimostrato di possedere un’etica del lavoro grazie alla quale poter costruire, un pezzo dopo l’altro, il proprio repertorio agonistico, con un’insistenza quasi maniacale, altro prodotto della sua esperienza italiana.
In effetti, sembrava non smettere mai di lavorare sul proprio gioco, perfino in quella tenera età. Quando non giocava, guardava videocassette di campioni Nba, ricorda Vittorio, che ha passato molto tempo insieme a Kobe da bambino. «Kobe voleva sempre giocare a basket. Sempre».
Negli anni successivi, Kobe dimostrò di aver già compreso il potere della concentrazione e sviluppò quello che in seguito avrebbe denominato «il codice». Sapeva fin da bambino che voleva diventare un giocatore di basket professionista, il che voleva dire non potersi permettere nessuna lacuna nel suo curriculum vitae. E l’Italia si rivelò essenziale nel fare di lui il giocatore che voleva diventare. Malgrado le persone fossero eccentriche e l’atmosfera in generale rilassata, in Italia ogni ambiente e situazione trasudava passione, dalle numerose cattedrali e chiese antiche ai palazzetti dello sport, sempre pieni di tifosi che cantavano e ballavano.
Quell’esperienza fu decisiva nel forgiare la sua proverbiale, incrollabile fiducia in sé stesso, almeno quanto l’insistenza di Joe nel cercare di radicarla nel suo cuore. Quella stessa fiducia, però, man mano che cresceva, lo portò a disprezzare sempre di più chi stava in campo con lui. In seguito, alcuni suoi ex compagni in Italia hanno raccontato il senso di frustrazione che provavano per il modo in cui li trattava. Arrivarono a lamentarsi a tal punto che gli allenatori italiani cominciarono a sostituire Kobe durante le partite per dare spazio agli altri e permettere anche a loro di crescere.
«Da giovane mi cacciavo sempre nei guai, facevo sempre andare la lingua, parlavo e parlavo, e questo faceva arrabbiare ancora di più i ragazzi più grandi» ricorda Kobe.
È in Italia che i Bryant cominciarono a vedere il futuro di loro figlio, e lo spinsero a proseguire in quella direzione. «In Italia, i bambini di sette anni giocano con i canestri bassi» spiegava Joe a quel tempo. «In una partita, la squadra di Kobe ha segnato 22 punti, 16 fatti da lui. Allora lo hanno mandato a giocare con i bambini di dieci anni, e ha dominato anche lì. È anche cintura gialla di karate e ha preso lezioni di danza».
TEMPO IN FAMIGLIA
Stranieri in terra straniera, i piccoli Bryant e i loro genitori impararono cosa significava dipendere gli uni dagli altri. «Abbiamo dovuto adattarci a una cultura diversa» ha ricordato Kobe. «Perciò siamo diventati sempre più uniti. Era come andare in un altro mondo. Non conoscevamo nessuno laggiù, quindi potevamo contare solo su di noi, dovevamo stare sempre insieme».
Il salto culturale portò dei cambiamenti anche nella vita cestistica di Joe Bryant. Nonostante il calcio fosse molto più diffuso nel sud Europa, gli italiani seguivano comunque con molta passione le squadre di basket locali. In Italia, ogni squadra poteva avere al massimo due americani. I giocatori d’importazione di solito gradivano il livello degli stipendi e un calendario che permetteva di rimanere a contatto con la famiglia, a differenza del massacrante ritmo della Nba, che prevedeva dalle tre alle cinque partite a settimana, intervallate da viaggi continui.
In Italia il focus era più sugli allenamenti, che di regola si svolgevano due volte al giorno, il che sarebbe stato impensabile nel basket pro americano. Le partite, al contrario, avevano cadenza settimanale, si disputavano quasi sempre di domenica, e la stagione andava all’incirca da ottobre a maggio.
«Riesco sia a portare i bambini a scuola che a passare a prenderli nel pomeriggio» raccontò Joe al «Philadelphia Tribune».
Mentre nella Nba si era sentito spesso in gabbia, Jellybean si adattò in fretta al livello della competizione italiana e divenne immediatamente una star, tenendo una media di 30 punti a partita (molti degli italiani contro cui giocava erano più o meno diciottenni). Se sentiva di voler sfoderare qualche giocata spettacolare, non c’era nessun problema. I tifosi inventavano cori per celebrare le sue doti. «Sai chi è quel giocatore che gioca meglio di Magic e Jabbar?» recitava una delle canzoni a lui dedicate, che Kobe aveva imparato a memoria in italiano. «È Joseph, Joseph Bryant!».
A Rieti, nell’inverno del 1986, Joe fece registrare una media di 37,8 punti a partita. Il suo tifoso più appassionato era quel ragazzino che lo seguiva spesso agli allenamenti pomeridiani. «Giocava con un tale carisma» raccontò anni dopo Kobe, ripensando agli anni di suo padre in Europa. «Ho imparato da lui a divertirmi giocando».
Oltre a permettere a Joe di passare più tempo con i figli, il trasferimento aiutò la sua relazione con Pam, dopo le difficoltà incontrate dalla coppia quando Joe giocava in America.
«Pam e io passiamo molto più tempo insieme rispetto a quando giocavo nella Nba» confidò Joe a un giornalista nel 1986. «Siamo ottimi amici adesso. Siamo amici e amanti. Ci alleniamo insieme e andiamo a correre insieme. Corriamo per sette o otto chilometri al giorno. Pam arriva anche a dieci o dodici. Potremmo iscriverci a qualche gara l’anno prossimo».
«Pam non sopportava l’idea di lasciare Philadelphia, ma si è adattata molto bene» aggiunse.
Oltre a giocare a basket, Kobe e le sorelle prendevano lezioni di danza, e Shaya scoprì che il karate le piaceva quasi quanto piaceva a suo fratello. Le scuole dei bambini erano cattoliche, dirette da suore inflessibili, e la qualità dell’istruzione era eccellente.
«I ragazzi parlano così bene che li intervistano sulle tv nazionali» raccontava Joe. «Mio padre ogni tanto deve ricordargli di parlare anche inglese. Pam e io abbiamo imparato l’italiano quest’anno. Ora riesco a leggere le pagine sportive. E ho visto che trattano malissimo i calciatori che sbagliano una partita!».
Il calcio dominava l’orizzonte sportivo italiano, al punto che i pochi campi di basket all’aperto erano spesso adattati a campi di calcetto. Vivere in un paese straniero aveva già cominciato ad accentuare la tendenza a isolarsi che Kobe aveva ereditato dalla madre, rinforzata dal desiderio di mettersi a tirare da solo e di lavorare per migliorare il suo gioco. Se un ragazzino italiano si presentava al campetto, Bryant condivideva il canestro fino a quando non si raggiungeva un numero sufficiente per giocare a calcio. A quel punto, Kobe era costretto a cambiare sport, e la sua struttura fisica alta e longilinea si prestava molto bene a difendere i pali della porta. Altri raccontarono poi che era molto promettente anche come attaccante, grazie a una grande rapidità di piedi e a un buon controllo di palla.
Giocare a calcio era divertente, e da allora avrebbe seguito a vita le vicende della Serie A, ma il calcio era niente rispetto alla presa che il basket aveva su di lui.
Fu Pam, e non Joe, a compiere alla fine lo sforzo di appendere un canestro al muro di casa, dando ulteriore impulso sia al maniacale perfezionismo di Kobe sia alla sua abitudine di isolarsi dagli altri bambini.
I nonni a Philadelphia tenevano vivo il rapporto con la cultura americana mandando di continuo videocassette con registrazioni di eventi sportivi, perlopiù partite di basket, e programmi televisivi, con dosi massicce del Bill Cosby Show. Pare che Kobe fosse così impressionato da quello che vedeva nelle cassette che per un po’ prese anche lezioni di break dance. Ma il suo spettacolo preferito erano sempre le partite di basket, che arrivavano al ritmo di circa quaranta a stagione.
«Ci mandavano film e trasmissioni di qualsiasi tipo,» ha raccontato una volta Kobe «ma quelle che aspettavo più avidamente erano le partite di basket. Volevo vedere il basket perché in Italia mi toccava restare alzato fino alle tre di notte per vedere le partite della Nba, e il giorno dopo dovevo andare a scuola. Non se ne parlava. Quindi dovevo aspettare le cassette. Non vedevo l’ora che arrivasse il postino a consegnarle».
Presto Joe si abbonò a un servizio che consegnava direttamente a casa le cassette delle partite. Joe e Kobe le divoravano insieme, prendendo nota di tutte le giocate decisive, di particolari tecniche di piedi, sottolineando virate, finte di condizionamento e tagli senza palla, e studiando gli accorgimenti difensivi e offensivi delle varie squadre e delle loro star.
«Studiavo tutti quanti, da Magic a Bird, da Michael a Dominique Wilkins» ricorda Bryant. «Guardavo i loro movimenti e li aggiungevo al mio repertorio».
Da lì in poi, studiare i filmati delle partite sarebbe stata la prassi di tutta la sua carriera, un lavoro di solito riservato a quei secchioni degli assistenti allenatori. Una volta entrato della Nba, continuò a dedicare lunghe ore all’analisi delle proprie performance e a quelle dei suoi avversari, molto più di quanto qualsiasi altro giocatore americano avesse mai immaginato di fare.
In Italia, Kobe prese l’abitudine di sfruttare il fermo immagine e il ralenti per rivedere i movimenti sequenza dopo sequenza, spesso con suo padre che gli sottolineava i passaggi chiave. Quando Joe era via, Kobe proseguiva lo studio da solo, memorizzando virtualmente intere sequenze, soprattutto quelle che rivelavano le diverse abitudini dei giocatori. All’età di nove anni, aveva già messo insieme il suo primo video di scouting, dedicato a un giocatore relativamente sconosciuto, una guardia degli Hawks di nome John Battle. Anche se Michael Jordan stava cominciando proprio in quegli anni a incantare e conquistare la Nba, l’idolo incontrastato dei Bryant, durante l’infanzia di Kobe, restava Magic Johnson.
«Volevo guardare Magic» ricordava Kobe. «L’entusiasmo che metteva in ogni partita. Si vedeva quanto adorava giocare. E i suoi passaggi a tutto campo mi facevano impazzire».
I Lakers erano nel pieno dell’èra dello Showtime, la parata di titoli degli anni Ottanta impreziosita dalle giocate spettacolari di Magic, che fecero della franchigia californiana la più ambita dai canali televisivi. Dominata da un grande poster del playmaker dei Lakers, la camera di Kobe era un tempio dedicato a Magic, non a caso additato da suo padre come il campione per antonomasia.
Così Kobe guardava e riguardava le azioni migliori di Magic sul televisore di famiglia, abitudine che alcuni critici trovarono in seguito abbastanza sorprendente, considerato quanto poco dello stile del maestro degli assist fosse visibile nel gioco di Kobe nei pro.
Joe aveva mostrato al figlio anche qualche filmato di quando era più giovane, ma Kobe non ne aveva bisogno. Preferiva confrontarsi con il modello originale. Sfidava Joe uno contro uno ogni volta che poteva, ma con tutte le ore del giorno che dedicava agli allenamenti non era umanamente possibile che il padre giocasse abbastanza con il figlio da placarne la sete.
Così Kobe giocava da solo, disputando partite immaginarie contro sé stesso. «Basket ombra» lo chiamava lui. «Gioco contro la mia ombra».
Questo, ovviamente, richiedeva l’intenso sforzo di immaginare davanti a sé le star della Nba, impresse nella sua memoria dopo averle ammirate nei filmati. La sua dedizione ricordava molto da vicino quella di Jerry West, quarant’anni prima, quando era ancora un ragazzino ossuto delle colline del West Virginia e giocava per ore da solo in un campetto all’aperto.