Dalla Simbologia delle chiese e degli ornamenti ecclesiastici, nel Razionale degli uffici divini (ca. 1290 d.C.) di Guglielmo Durando, vescovo di Mende:
III, 1-4: Le pitture e gli ornamenti che si trovano nelle chiese sono le letture e le scritture dei laici, alo cui riguardo Gregorio afferma:
Una cosa è adorare le pitture, altra cosa è imparare attraverso la storia rappresentata dalla pittura ciò che si deve adorare.
Quello che la scrittura mostra a coloro che la leggono, la pittura lo insegna agli ignoranti che la osservano. [...]
Gregorio sostiene che non dovrebbe essere permessa la distruzione delle pitture con il pretesto che esse non devono essere adorate, perché è evidente come la pittura commuova più della scrittura.
In effetti attraverso la pittura il fatto compiuto è posto dinanzi agli occhi, mentre con la scrittura la cosa che arriva è richiamata alla memoria, in qualche misura per sentito dire, cosa che commuove di meno l’anima.
I, 24-25: Le finestre della chiesa, che sono fatte di vetro trasparente, simboleggiano le divine Scritture che respingono il vento e la pioggia, impedendo l’ingresso a tutto ciò che potrebbe nuocere all’edificio e ai fedeli che sono riuniti al suo interno. Invece esse lasciano passare il chiarore del vero sole (Dio) nella chiesa, e cioè nel cuore dei fedeli, illuminando ciò che si trova nel suo seno. Esse sono più larghe all’interno, perché il senso mistico è più esteso e sorpassa il senso letterale. Inoltre le finestre rappresentano i cinque sensi del corpo: la loro forma significa che essi devono essere ristretti all’esterno, per non attirare dentro di sé la vanità di questo mondo, ed espandersi all’interno per ricevere più largamente i doni spirituali.
Le grate che sono davanti alle finestre rappresentano i Profeti e i Dottori della chiesa militante.7
Quando l’imperatore Costantino si convertì al cristianesimo, nel 312 d.C., il ruolo della creazione delle immagini subì una svolta di enorme portata rispetto all’antica Grecia e a Roma. Secondo l’interpretazione più fondamentalista della dottrina cristiana, infatti, le immagini figurative non dovevano esistere affatto.
Come osservò più tardi lo scrittore medievale Guglielmo Durando, la Bibbia censura in maniera esplicita la creazione di immagini in sei diverse occasioni. Il termine «immagine» corrisponde alla parola ebraica per «idolo». Era considerato idolatria adorare un’immagine fisica prodotta dalla mano dell’uomo. Solo Dio doveva essere adorato. Alla base del rifiuto ebraico delle immagini c’erano alcuni episodi-chiave dell’Antico Testamento, primi tra tutti la distruzione del vitello d’oro da parte di Mosè e i Dieci comandamenti. In maniera analoga l’immaginario protocristiano evitò ogni descrizione figurativa e scelse di ricorrere soltanto ai segni. In particolare la parola ebraica YHWH (Yahweh) – detto «il tetragramma» – serviva come segno della presenza di Dio Padre. Allo stesso modo Cristo veniva indicato abbreviando il suo nome greco – Christós – tramite «cristogrammi», come XP (chi ro in greco), IHC, IHS o ICX.
Al di fuori di questo clima proibizionistico la cristianità sviluppò comunque un arcano ed elaborato sistema di rappresentazione simbolica. Nel corso dei secoli il cristianesimo dovette gradualmente soccombere all’atavica esigenza di creare «idoli» a sostegno della devozione religiosa – rappresentazioni tangibili cui si attribuiscono poteri spirituali. La straordinaria elaborazione che portò le immagini cristiane a esprimere significati dottrinali si fondava sull’esigenza di aggirare gli espliciti divieti della Bibbia. Ciò non impedì che di quando in quando esplodessero episodi di iconoclastia fondamentalista, con immagini gettate per terra, mutilate o distrutte. Tuttavia il fatto che la Chiesa si costituisse come una struttura di dominio modellata secondo lo stile di Roma favorì l’uso delle immagini come strumento di potere.
Nel corso dei secoli cristiani una serie di scelte tesero a legittimare le immagini. Durando ci tiene in particolare a citare papa Gregorio Magno, che intorno al Seicento spiegò in due lettere quella che sarebbe diventata la giustificazione «standard» delle immagini: esse erano la Bibbia degli analfabeti. Gregorio aggiunse che le immagini potevano stimolare il sentimento religioso in modo che la devozione si rivolgesse al soggetto rappresentato e non alla rappresentazione. Durando, da parte sua, spiegò in maniera straordinariamente dettagliata come «leggere» ogni parte di una chiesa, e spiegò quali profondi significati fossero insiti sia nelle immagini figurative, sia nell’architettura: le travi lignee, ad esempio, indicherebbero il sostegno dato alla Chiesa dai predicatori.8
Supponiamo che in una chiesa ci sia un mosaico che raffigura Cristo nell’atto di insegnare a Pietro a «nutrire il mio gregge». Lo si potrà leggere a più livelli: in termini letterali come la storia pura e semplice dell’ordine impartito da Gesù, così come testimoniato dai suoi discepoli; in termini simbolici, dove il gregge designa i seguaci di Cristo, a sua volta caratterizzato come il Buon Pastore; a livello allegorico, intendendo l’ordine dato da Gesù nel senso che Pietro è stato prescelto per guidare la Chiesa; infine a livello anagogico, secondo l’interpretazione spirituale suprema, in base a cui Pietro siede alla destra del Padre.
Più di dieci secoli di arte cristiana danno prova di una sofisticata complessità che supera di molto il semplice proposito di istruire gli analfabeti.
Il crollo dell’impero romano – o meglio il processo accidentato della sua disintegrazione, trasformazione e parziale sopravvivenza nel corso del IV e del V secolo – portò alla divisione del mondo cristiano in un fragile impero d’Occidente, con al suo centro l’Italia, e nel potente impero bizantino, con capitale Costantinopoli (l’attuale Istanbul). Ciascuno di tali imperi sviluppò una propria tradizione pittorica, che finì per trasformare l’arte romana secondo modalità specifiche.
La raffinata lunetta musiva del Buon Pastore nel cosiddetto mausoleo di Galla Placidia a Ravenna, che fu la capitale dell’impero romano d’Occidente dal 401 al 476, mostra deliberatamente un’eco dell’arte romana. Un Cristo imberbe siede in un paesaggio roccioso, proprio come Orfeo tra gli animali, e dirige il suo gregge con una croce invece che col bastone da pastore. Le pecore sono rappresentate in una serie di pose artistiche e messe in prospettiva con abilità. Il mosaico, un mezzo espressivo resistente, composto di tesserae di vetro colorato e altri materiali, qui è usato sulle pareti invece che sulle pavimentazioni. Le tessere riflettenti sono disposte secondo angolature diverse, col risultato che le superfici del piccolo spazio a volta di questo edificio a croce brillano in maniera davvero visionaria.
Dopo la caduta dell’impero d’Occidente e la sua riconquista da parte dell’imperatore d’Oriente Giustiniano, a metà del VI secolo, la supremazia di Bisanzio su ciò che restava dei territori un tempo romani si consolidò. Nell’area mediterranea e mediorientale sorse un impero che sarebbe durato più di un millennio. A Costantinopoli le tendenze romanizzanti furono soppresse da due gravi episodi di iconoclastia, il primo tra il 726 e il 787, il secondo tra l’814 e l’842. Il documento riassuntivo di un Concilio iconoclasta tenuto nel 742 dichiarò che «dopo che Satana li ebbe corrotti, gli uomini adorarono la creatura invece del Creatore. Le leggi di Mosè e dei profeti cooperarono per rimuovere tale rovina [...]. Ma il summenzionato demiurgo del male [...] a poco a poco ripristinò l’idolatria sotto le mentite spoglie del cristianesimo». Di conseguenza tale Concilio decretò che la Chiesa avrebbe dovuto distruggere «qualunque sembianza che la malvagia arte dei pittori abbia ricavato da qualsiasi materiale e colore». La disputa si risolse più o meno a favore della creazione di immagini nell’842, quando un sinodo svoltosi a Costantinopoli andò in processione verso la grande chiesa (oggi moschea) di Hagia Sophia per ricollocarvi le immagini – un atto che la Chiesa ortodossa commemora tuttora.
10. Il buon pastore, mosaico, ca. 425, Ravenna, mausoleo di Galla Placidia.
Il genere principale di immagini ripristinate dalla Chiesa ortodossa orientale fu quello delle «icone», termine che non è altro che la parola greca per «immagini». Come possiamo vedere nella celebre Icona di Vladimir, lo stile è magnificamente non-naturalistico. Le forme, che si stagliano su uno sfondo dorato e lucente, sono decisamente piatte, a indicare che i corpi, le mani, i volti e i drappeggi appartengono al mondo ultraterreno. La qualità «artistica» di questa icona, dipinta a tempera con estrema finezza (usando l’uovo come legante) e riccamente ornata, potrebbe essere stata compromessa dai successivi restauri, e tuttavia mantiene intatta la sua potenza spirituale. L’icona, a suo tempo ritenuta miracolosa, divenne anche leggendaria quando, intorno al 1131, il patriarca di Costantinopoli la spedì a Kiev. Si tramanda infatti che i cavalli che la trasportavano si siano fermati nei pressi della città di Vladimir e si siano rifiutati di proseguire. A quel punto per accogliere degnamente l’icona fu eretta la cattedrale dell’Assunzione di Vladimir.
Se la confrontiamo alle opere dell’antichità classica, questa rappresentazione non sembra «reale». Per i fedeli che la adorano la sua realtà si colloca a un livello superiore. L’icona asserisce la presenza della Vergine nella sua veste di Theotokos, «Partoriente di Dio». Ascesa in cielo, l’immacolata Maria non segue le leggi di questo mondo ma adotta una sembianza eterna, immutabile, all’interno di uno spazio indefinito. Il suo sguardo solenne garantisce che non si sfugge agli imperativi spirituali.
11. Madonna e Bambino (Icona di Vladimir), tempera e foglia d’oro su tavola, ca. 1130, Mosca, Galleria Tretyakov.
La raffigurazione di madre e figlio guancia a guancia rientra in una ristretta serie di tipologie di Madonna-con-Bambino, che vediamo ripetersi infinite volte, a prescindere dalle date e dalla geografia. È semplicemente la Vergine. Non ci assomiglia; non è nel nostro regno né del nostro tempo, o di qualunque altro tempo; il suo spirito è presente a tutti gli effetti, tuttavia non è nell’immagine, bensì è percepibile trascendentalmente mediante l’immagine. I pittori di icone possono esser stati ammirati per l’alto livello del loro talento, e in qualche caso per aver inventato qualche nuova variante rispetto a temi seriali, e tuttavia restavano pur sempre degli strumenti per la realizzazione dell’immagine e non erano «artisti» con uno stile personale. In seguito, quando i fedeli ortodossi dell’Europa orientale si trovarono di fronte ai santi dipinti in maniera naturalistica dagli artisti europei, ciascuno dei quali sfoggiava il suo stile individuale, trovarono impossibile venerarli nel modo dovuto.
Le complicate fluttuazioni del potere in Europa dopo la caduta di Roma e l’ascesa dell’impero carolingio dei franchi nel IX secolo furono accompagnate dalla vasta diffusione del cristianesimo. Alcuni centri religiosi locali garantirono la stabilità necessaria a raggiungere un’espressione culturale di altissimo livello. Esempi supremi della qualità visiva e intellettuale raggiunta da quest’arte «regionale» sono i magnifici manoscritti miniati celtici, vale a dire i Vangeli di Lindisfarne, il Libro di Kells e il Libro di Durrow, nonché alcuni virtuosistici manufatti di metallo e croci in pietra prodotti nei principali centri del monachesimo in Irlanda e nel Northumberland. L’arte celtica dell’età cristiana sarà anche stata provinciale nelle sue origini, ma fu certamente internazionale quanto a raffinatezza.
La pagina Chi-Rho nel Libro di Kells, che apre il racconto della miracolosa generatio di Cristo (XP) nel Vangelo di Matteo, è una straordinaria festa per gli occhi. Complicati intrecci intessono dense volute di un’intricata musica visiva intorno alle due lettere, a loro volta inframmezzate da figure, teste, animali e piante stilizzati con amore. È un’arte pensata per essere contemplata a lungo. Un cronista del XII secolo, Giraldo Cambrense, colse bene ciò che essa richiede all’osservatore:
Qui viene raffigurato il volto della Maestà divina, là le mistiche immagini degli evangelisti [...]: qui l’aquila, là il bue, qui la faccia di un uomo, là quella di un leone, e altre quasi innumerevoli figure che, a guardarle superficialmente e, come siamo soliti, con poca attenzione, sembrano più una macchia di colore che un intreccio [...]; ma se ti predisporrai con tutto l’acume degli occhi ad osservarli più attentamente e penetrerai con calma e a fondo nei segreti di quell’arte, potrai notare delle trame così delicate e sottili, così compatte e serrate, annodate e strettamente connesse, e dipinte con colori tanto freschi, che davvero dovrai dire che tutte queste cose sono state realizzate, piuttosto che dalla diligenza degli uomini, dallo zelo degli angeli.9
Tutte le rappresentazioni figurative del Libro di Kells, siano esse la Vergine o il Bambino, gli evangelisti e i loro simboli o i numerosi angeli, sottostanno a una serie di stilizzazioni curvilinee di grande bellezza, senza il pericolo di produrre «idoli» realistici. Il piacere dei sensi è inteso come viatico verso la contemplazione celeste.
Mano a mano che la Chiesa si istituzionalizzava in tutta Europa, la devozione cristiana prese ad adattarsi alla «magia spirituale» incorporata in immagini e oggetti. Ne danno vivida dimostrazione i reliquari, ovvero involucri che custodivano i resti (ad esempio un osso) di una persona divina, cui si attribuivano poteri terapeutici e che venivano venerati per se stessi. Essendo le immagini figurative di un santo, tali involucri si caratterizzavano per la loro magnificenza devozionale. L’abbazia di Conques, in Francia, riuscì ad acquisire, con mezzi invero dubbi, il teschio di santa Fede, una martire del IV secolo. Ciò ebbe l’effetto di far deviare attraverso la città il percorso dei pellegrini diretti a Santiago di Compostela. Il magnifico reliquiario di Santa Fede, composto da un involucro di placche dorate su di un corpo ligneo, è il prodotto di un processo di accrescimento. Il volto, anch’esso dorato, è molto anteriore, mentre la figura intronata è stata progressivamente adornata con pietre preziose e sfere di cristallo di roccia.
12. Libro di Kells, VIII secolo, monogramma Chi-Rho (folio 34r), Dublino, Trinity College Library.
Non sorprende che si sia avvertita l’esigenza di difendere la venerazione di un «idolo» così sontuoso, alto poco meno di un metro. Ecco allora Bernardo d’Angers passare in rassegna i numerosi miracoli di santa Fede e spiegare che in questo caso «non è un idolo impuro che viene adorato. [...] È un monumento pio, davanti al quale il cuore fedele si sente toccato più facilmente e fortemente dalla solennità e implora con maggior fervore la potente intercessione della santa per i suoi peccati».
13. Statua-reliquiario di santa Fede, oro, pietre preziose e legno, ca. 900, abbazia di Conques.
Mano a mano che il potere temporale del papato si andò consolidando, principalmente a Roma ma con qualche intermezzo in altre sedi, esso si pose al centro di una vasta rete di elementi disparati e indocili, che comprendeva anche la Chiesa occidentale. La maestà di tale potere risulta evidente dagli edifici. L’Europa è ancora costellata di imponenti cattedrali, abbazie e chiese, che furono sponsorizzate dalla Chiesa, dagli ordini monastici, da autocrati e autorità civili, più tardi anche da privati facoltosi. Per garantirsi l’entrata in Paradiso furono compiuti investimenti enormi.
La decorazione della magnifica cattedrale di Chartres, a sud-est di Parigi, ci dà un’idea precisa della scala e della qualità che caratterizzavano le decorazioni delle chiese medievali. La cattedrale si gloriava di una reliquia veneratissima, la Sancta camisa, la tunica indossata dalla Vergine al momento di partorire Gesù. La decorazione scultorea, tanto all’interno quanto all’esterno, era pensata per mettere in soggezione. L’ampio portale centrale della facciata ovest è dominato dalla figura di Cristo, colto nella sua maestà giudicante e accompagnato dai simboli dei quattro evangelisti. Gesù è circondato dai vegliardi dell’Apocalisse di Giovanni, disposti su tre archi e seduti sui loro troni, e sovrasta un colonnato occupato dai suoi discepoli, tutti in piedi. Fiancheggiano il portale una serie di re e regine, che rappresentano la genealogia regale di Gesù nel Vecchio Testamento. Ogni elemento trasmette autorevolezza ed è progettato non per esercitare un’attrattiva di tipo naturalistico, ma per concorrere alla disciplinata armonia dell’imponente struttura architettonica.
Originariamente l’espressione «arte gotica» – l’«arte dei goti» – aveva valore dispregiativo, ma a partire dal 1200 divenne sinonimo del predominio dell’arte cristiana nei campi della pittura, della scultura, dell’architettura, delle vetrate, degli oggetti in metallo. Gli stili dell’arte gotica erano complessi, audaci, spesso lineari, e quasi sempre si distinguevano dal classicismo antico, anche quando traevano ispirazione dagli esempi romani. Col tempo l’arte gotica arrivò a includere un’ampia gamma di tipologie di figure, che raggiunsero un grado sempre più alto di indipendenza tanto nel movimento quanto nella caratterizzazione. Si andava dal grottesco esagerato all’ultraraffinato. All’estremo più elegante di questo spettro troviamo le sculture del Gotico pieno consacrate al culto della Vergine. Un esempio particolarmente delicato è la Madonna con Bambino che si trovava nel béguinage – un convento di beghine – di Santa Caterina, in Belgio. Le beghine erano monache laiche, e fu una madre superiora a pagare questa raffinatissima scultura, realizzata in un marmo che sembra alabastro. Chi pregava la Vergine dal sorriso cortese riceveva venti giorni di indulgenza in remissione dei suoi peccati.
14. Cristo con i simboli degli evangelisti, i vegliardi dell’Apocalisse, i discepoli, i re e le regine, portale centrale della facciata occidentale («Portale reale») della cattedrale di Chartres, pietra calcarea, ca. 1225-40.
La statua, che in origine era parzialmente dorata, è un’epitome di eleganza, con i ricercati risvolti del drappeggio e la serena grazia con cui Maria sostiene il suo bambinetto, che toccandole la guancia sembra voler ammettere di esser fatto della sua stessa carne.
Nella teologia cristiana la dolcezza della redenzione e lo spettro della punizione andavano a braccetto. La speranza della redenzione è raccontata con particolare intensità in un’illustrazione del Libro d’ore che fu commissionato, probabilmente, dalla vedova del duca d’Angiò: assistiamo alla lotta per impadronirsi dell’anima di un defunto, che giace emaciato in un campo cosparso di ossa e
15. Madonna con Bambino, marmo con tracce di doratura, ca. 1345, New York, Metropolitan Museum, Fletcher Fund.
che potrebbe essere il marito della duchessa. Il defunto annuncia, in latino: «Affido il mio spirito nelle tue mani, o Signore. O Signore, Dio di verità, tu mi hai redento». Dio Padre, che tiene in una mano una spada e nell’altra l’orbe terrestre, lo esorta in francese: «fai penitenza per i tuoi peccati, e sarai con me nel Giorno del Giudizio». Un demone alato si è già impossessato della pallida anima del defunto, che ha appena abbandonato il suo corpo, ma l’Arcangelo Michele, armi alla mano, scende in picchiata per salvarla.
I libri d’ore, il più importante genere di manoscritti tardomedievali, di solito contenevano una scelta di brani tratti da testi sacri e preghiere, alcune delle quali venivano offerte ai defunti. I laici si servivano di questi testi per scandire i propri atti devozionali, in ciò imitando la regola giornaliera praticata nei monasteri e nei conventi. Per i committenti più ricchi le pagine di pergamena erano impreziosite da miniature sfarzose – prodotti di lusso che trasudavano virtuosismo, spiccato senso della composizione drammatica e forte espressività dei dettagli. Possiamo ben immaginare che i loro proprietari non scorgessero alcuna contraddizione tra costoso collezionismo da intenditori e nobile pietà.
La fioritura del tardo Gotico nel XV secolo non è affatto conforme all’idea che si sia trattato dell’ultimo affannoso respiro di uno stile ormai svigorito. Essa rispecchia piuttosto l’aumento della ricchezza privata presso alcune élite locali, per le quali commissionare opere alla moda, realizzate con materiali raffinati, divenne un simbolo del proprio status.
16. Lotta per l’anima di un morto, dal Libro delle Ore di Rohan, tempera, inchiostro e oro, 1430, Parigi, Bibliothèque Nationale.
Un esempio splendido è la Tomba di Riccardo di Beauchamp nella chiesa di Santa Maria a Warwick. Riccardo svolse incarichi militari, diplomatici e civili di primo piano sotto i re Enrico IV, Enrico V ed Enrico VI. Nel corso delle campagne di conquista inglesi in Francia accumulò un considerevole bottino, e fu capitano di Rouen durante la prigionia e la condanna al rogo di Giovanna d’Arco. Alla sua morte, avvenuta proprio a Rouen nel 1439, lasciò il denaro necessario a costruire una cappella e un costoso monumento funebre nella chiesa di Santa Maria. Conosciamo i nomi degli artigiani che lavorarono alla tomba di Riccardo tra il 1448 e il 1453. Tra loro c’erano William Austen di Londra, che produsse l’effigie del defunto, John Massingham e John Essex, che scolpirono il marmo di Purbeck, l’orafo Barthilimew Lambespring e il calderaio Thomas Stevyns. Sebbene non fossero «artisti» in senso classico o rinascimentale, godevano comunque di grande reputazione. In generale è vero che diverse opere d’arte medievali recano delle firme, ma tale prova d’orgoglio non è ancora il segno di quel genere di «autorialità» personalizzata che avrebbe caratterizzato il Rinascimento. In questo caso particolare l’elenco dei nomi e degli incarichi vuol dare un’idea dell’opulenza con cui furono impiegati i materiali che formano l’assieme. Il cavaliere giace in una corazza di rame scintillante, sotto un baldacchino arcuato; ai suoi piedi stanno un orso e un grifone araldici. Sotto scorrono in file alternate uomini in lutto e angeli melanconici, tutti dorati e collocati entro elaborate nicchie tardogotiche. Ancor più sotto vediamo una serie di stemmi araldici di nobili inglesi, colorati con vernice smaltata. Riccardo, che nel corso delle sue avventure in terra di Francia aveva potuto conoscere bene gli splendori visivi commissionati dai nobili borgognoni, non volle essere da meno.
17. Tomba di Riccardo di Beauchamp, tredicesimo conte di Warwick, ottone e pietra, 1448-53, Warwick, chiesa di Santa Maria.
Più oscure sono le circostanze che circondano il nostro secondo esempio di tardogotico «cortese». La celebre serie di sette arazzi della Caccia dell’unicorno, ora a New York, fu documentata per iscritto solo nel XVII secolo. È possibile che gli arazzi siano stati commissionati per contrassegnare il matrimonio di re Luigi XII con Anna di Bretagna, avvenuto nel 1499; è probabile anche che siano stati intessuti nel sud dei Paesi Bassi. Fin dall’antichità si erano diffuse varie leggende intorno all’unicorno. Si diceva che non potesse essere catturato, il che è ciò che alcuni cacciatori stanno cercando di fare nella quarta scena qui riprodotta, e che però potesse esser intrappolato facilmente da una vergine, come avviene nel quinto arazzo, rimasto allo stato di frammento. Dopo che la vergine ha conquistato il suo trofeo, i cacciatori completano la cattura e lo macellano. Le virtù purificatrici dell’unicorno, la sua intima associazione con la figura di una vergine e la sua morte sono qui intessute insieme in modo da comporre una complessa ragnatela di significati: l’animale mitologico diviene un simbolo del Cristo.
La valorosa lotta dell’unicorno è ritratta con sfarzo decorativo e cavalleresco. Attraversata una foresta, i cacciatori a cavallo giungono in una radura ricoperta di fiori, dove convergono sulla preda, mentre tutt’intorno i loro segugi saltellano.
18. L’unicorno allontana i cacciatori, arazzo, ca. 1500, New York, Metropolitan Museum.
L’arazzo è lussuosamente intessuto d’oro, argento, lana e seta, uniti per ammaliare l’osservatore. L’occhio è catturato in special modo dal naturalismo osservativo dei dettagli, soprattutto dalla precisione con cui sono descritte le varie specie di piante.
L’arazzo risale al 1500 circa. A quest’epoca la carriera di Michelangelo era già decisamente avviata. Il prossimo capitolo tratta ciò che siamo soliti chiamare Rinascimento e copre un arco di tempo che comincia circa due secoli prima. Qui siamo forse di fronte a un sontuoso rigurgito del tardogotico nell’Europa del Nord, pronto per essere rimpiazzato da uno stile più moderno e avanzato? Se prendiamo come criterio dello stile rinascimentale moderno il naturalismo, dobbiamo chiederci che tipo di naturalismo. Se intendiamo con ciò un’attenzione scrupolosa al modo specifico in cui le cose appaiono in natura, allora quest’arazzo è più «avanzato» dei suoi equivalenti italiani. E infatti i signori italiani guardavano a Nord quando cercavano gli arazzi migliori. Se invece per naturalismo intendiamo l’illusione calcolata di uno spazio costruito secondo i canoni dell’ottica, è all’Italia che dobbiamo rivolgerci. Se il fine era leggere il «libro della natura» creato da Dio, la venerazione nordica per le piante e gli animali era un mezzo estremamente efficace. Rispetto alla matematica insita nel disegno divino soggiacente ai fenomeni, invece, dobbiamo guardare alle scienze della prospettiva e della proporzione così come furono sviluppate in Italia nel XV secolo.
Usare Gotico come sinonimo di «antiquato» e Rinascimento come sinonimo di «aggiornato» ci dà una visione deformata dello sviluppo storico dell’arte. «Impacchettare» l’arte in periodi nettamente distinti, come si fa spesso, è semplicistico. È molto facile farsi intrappolare dai termini e attribuire loro una qualche realtà superiore. Le etichette ci informano, ma al tempo stesso distorcono il nostro modo di guardare.
Se ci voltiamo indietro verso l’antichità classica e poi guardiamo in avanti al Rinascimento, vediamo che nel periodo medievale c’è una differenza decisiva nella produzione artistica. Tale differenza risiede nella coppia concettuale «arte» e «artista», che era stata sviluppata nell’antica Grecia e che avrebbe costituito il cuore del Rinascimento. In questo capitolo non abbiamo quasi incontrato nomi di artisti, né abbiamo assistito ad alcuna discussione sull’«arte» intesa come attività a sé stante. Durando era certamente in grado di riconoscere la perizia e la maestria, ma per lui l’arte non doveva servire a promuovere il genio individuale dei suoi artefici né a stabilire i propri criteri di valore a prescindere dalla funzione di ciascun artefatto. Gli «idoli» erano oggetti che dovevano essere interpretati piuttosto che ammirati come fini a se stessi.