6. Romanticamente reale

Eugène Delacroix sull’anima del pittore (Dal Diario):

martedì 8 ottobre 1822

In pittura, l’artista stabilisce come un ponte misterioso fra l’animo dei personaggi e quello dello spettatore. Egli vede delle figure, il vero esteriore; ma pensa intimamente, del vero pensiero che è comune a tutti gli uomini: pensiero al quale taluni, scrivendo, danno corpo: ma alterandone l’essenza sottile. Perciò gli spiriti rozzi sono più commossi dagli scrittori che dai musicisti e dai pittori.

venerdì 14 maggio 1824

Il tormento della mia anima è la sua solitudine. Più la mia si espande con gli amici e con le abitudini o con i piaceri giornalieri, e più mi sembra che essa mi sfugga e si ritiri nella sua fortezza. Il poeta che vive in solitudine, ma produce molto, gode dei tesori che portiamo nel nostro seno, ma che spariscono quando ci diamo agli altri. Quando ci abbandoniamo completamente alla nostra anima, essa ci si apre tutta [...] allora la felicità più grande [...] è quella di andare a tutte le anime che possono intendere la nostra, e avviene che tutte le anime si ritrovino nei nostri scritti.

gennaio 1857

La fonte principale dell’interesse viene dall’anima, e in modo irresistibile va all’anima dell’osservatore; non è vero che per il fatto che questi deve avere un’anima, qualunque opera interessante lo colpisca in modo eguale; soltanto un soggetto dotato di sensibilità e d’immaginazione può essere commosso.18

Nessun altro regime provocò convulsioni più repentine di quello napoleonico. Roma aveva invaso territori più vasti, la Riforma aveva sconquassato il potere religioso della Chiesa e dei re in tutta Europa. Nei secoli XVII e XVIII i sovrani spagnoli del Sacro Romano Impero avevano fomentato una serie di conflitti tra le potenze europee. Tuttavia, la rapidità e l’organizzazione del potere con cui Napoleone, sfruttando la tecnica moderna della guerra, seppe perseguire i suoi obiettivi, non avevano precedenti.

La Spagna costituì il limite occidentale delle conquiste di Napoleone. Nel 1807, grazie a un sotterfugio diplomatico, circa 23000 soldati francesi furono fatti entrare in Spagna. Per Napoleone uno dei fattori del successo era che poteva apparire come un liberatore progressista dei popoli ancora oppressi da monarchie fossilizzate. Tale sentimento era condiviso anche da Francisco Goya, un pittore che aveva raggiunto una posizione ragguardevole al servizio di re Carlo IV ma che al contempo colpiva con la sua satira i valori obsoleti della società spagnola. Il benvenuto che Goya aveva tributato a Napoleone evaporò molto presto di fronte agli avvenimenti del maggio 1808. Il 2 maggio una rivolta antifrancese fu repressa duramente. In un proclama degli occupanti si poteva leggere: «È stato versato del sangue francese. Esso domanda vendetta. Tutti coloro che sono stati arrestati armi alla mano nel corso dell’insurrezione, saranno fucilati». La carneficina di spagnoli che ne seguì scatenò una guerrilla che durò cinque anni (da qui il termine «guerriglia» passò anche in altre lingue). Nel 1814, quando infine gli invasori francesi furono espulsi, Goya si offrì di «eternare col suo pennello le azioni più notevoli ed eroiche della nostra gloriosa insurrezione contro il Tiranno d’Europa». In particolare ritrasse i combattimenti madrileni del 2 maggio e, in altro quadro, una scena delle fucilazioni avvenute il giorno dopo. Altri pittori prima di lui avevano descritto eventi contemporanei, ma nessuno si era anche solo avvicinato a una denuncia tanto incisiva quanto quella che sentiamo ancora gridare dalla seconda delle due tele.

In una brulla fetta di terra poco fuori Madrid, un gruppo di insorti è stato fatto marciare fino a un cumulo di terra pallida, che appare già macchiata di sangue. Una lanterna quadrata getta luce sul massacro. I soldati, anonimi nella loro inumanità, agiscono come automi omicidi. I loro moschetti, dalle aguzze baionette argentate, sono già levati per sparare al petto della prossima vittima: un pastore-martire vestito di bianco e oro che, in preda al terrore, allarga le braccia come sant’Andrea sulla sua croce diagonale. L’allusione sacra è rafforzata dalla stigmate sulla mano destra. Un monaco, cencioso e tonsurato, prega con ostinata intensità. Qualcuno lascia libero corso alla paura mentre fissa la scena, qualcun altro non riesce a guardare. I vivi stanno per unirsi alla pila dei cadaveri già ammucchiati. Siamo a Madrid nel 1808 ma potremmo ben essere altrove, nel passato come nel presente.

Goya, Il 3 maggio 1808, olio su tela 

48. Francisco Goya, Il 3 maggio 1808, olio su tela, 1814, Madrid, Museo del Prado.

Goya aveva imparato da Velázquez – ma anche dai Tiziano e dai Rubens che aveva potuto vedere ogni giorno – quanto la pittura fosse in grado di fare al servizio sia della descrizione che dell’espressione. Una passione incalzante agita il suo tocco, mentre i corpi delle vittime sono delineati in modo sommario, interrotto. Un forte impatto hanno anche i sinistri «neri» di origine caravaggesca e il bianco accecante, simbolo di innocenza.

Napoleone in persona, in un liscio marmo bianco, si erge a un’altezza di oltre tre metri. È completamente nudo, salvo che per una foglia di fico e un mantello retoricamente riversato sul braccio destro. Sull’orbe che tiene nella mano destra danza una graziosa statuina della Vittoria, in bronzo dorato. Il contrasto con quel che stava succedendo in Spagna non potrebbe essere più stridente. Che Napoleone potesse ordinare a un riluttante Antonio Canova di scolpire una statua monumentale con la propria effigie indica in modo inequivocabile che l’Italia era caduta sotto il giogo dell’imperatore francese. Del resto persino il papa fu portato a obbedire a Parigi. Canova, che a quel tempo era acclamato come il più importante scultore del mondo, deprecò ciò che stava accadendo alla sua Venezia e denunciò il saccheggio di opere d’arte dall’Italia – tra cui il Laocoonte – voluto da Napoleone. Ma non aveva scelta, come tanti altri, e del resto ricevette un compenso esorbitante per il suo lavoro. Il ritratto monumentale Napoleone come Marte pacificatore fu iniziato nel 1802 e terminato nel 1806. È un’opera straordinaria con una storia infelice.

Canova, Napoleone come Marte pacificatore, marmo. 

49. Antonio Canova, Napoleone come Marte pacificatore, marmo, 1802-06, Londra, Apsley House, Museo Wellington.

Nella Francia del XVIII secolo era diffuso un genere curioso: i ritratti di «modelli» presuntuosi raffigurati come eroi o eroine dell’antichità. Napoleone, in verità, aveva delle riserva sull’apparire nei panni di qualcuno di diverso da lui. Era convinto che verità e nudità fossero andate sempre a braccetto. Il direttore del Musée Napoleon, Vivant Denon, suggerì che la statua avrebbe potuto prendere il posto del Laocoonte nella sua nicchia parigina. D’altra parte questo marmo immenso, col suo imballo piuttosto complicato, arrivò a Parigi solo nel 1810. Quando lo vide Napoleone reagì male e decretò che non fosse esibito in pubblico. Può darsi che si sia accorto di qualche assurdità nel suo «ritratto», e del resto simili immagini eroiche avevano ormai fatto il loro tempo.

Da parte sua Canova realizzò per il signore d’Europa non una sembianza effimera, ma un capolavoro duraturo di arte allegorica. Quello di Canova, come quello di altri artisti d’avanguardia di orientamento neoclassico, era un classicismo purificato. Mirava a ripristinare la fase idealizzante della scultura greca piuttosto che la muscolosità romana. Canova era in grado di raggiungere particolari effetti di grazia compositiva e realizzare superfici talmente paradossali da sembrare morbide – una sorta di porno-soft di marmo. Il suo Napoleone è un’applicazione superba dell’ideale olimpico a un nudo maschile monumentale – se ci limitiamo alla forma del corpo. Il problema è che facciamo fatica ad andare oltre il fatto che la testa è una sorta di ritratto, in bilico tra universale e particolare.

La vicenda di questo colosso di marmo finì in maniera strana così com’era cominciata. Dopo la caduta di Napoleone il duca di Wellington, il vincitore di Waterloo, convinse il governo britannico ad acquistarlo. Ora è a Londra, stretto nella tromba delle scale di Apsley House, la dimora cittadina di cui la nazione riconoscente fece dono al duca.

L’altro maestro, anch’egli innegabilmente grande, che emerse nella fase di passaggio verso una forma purificata di classicismo, fu Jean-Auguste-Dominique Ingres, un pupillo di David. Ingres si propose come portabandiera dei valori assoluti del passato, soprattutto rispetto al primato del disegno. D’altra parte i criteri da lui effettivamente espressi al Salon, ma anche altrove, erano tutto fuorché convenzionali. Malgrado fosse il campione dei valori costituiti, dare un fondamento alla sua arte non gli riuscì facile. Sintomo delle sue difficoltà fu un lungo soggiorno a Roma tra il 1806 e il 1824. Qui Ingres dipinse soggetti e ritratti che a Parigi non trovavano sufficiente sostegno. Tra i suoi dipinti tardi uno dei più radicali è l’Odalisca con la schiava del 1839, commissionatogli dal fedele amico Charles Mascotte. Esso ci dà un bell’esempio di ciò che per Ingres era ortodosso e per i suoi critici perverso, mentre noi ci vediamo l’espressione della sua individualità.

Il corpo dell’odalisca (una fantasia europea sulla serva turca), splendente, esibito e disponibile, è plasmato con curve improbabili all’interno di una silhouette innaturale. Per dipingerlo Ingres si è servito di un disegno dal vero, meravigliosamente preciso (è conservato al Musée du Petit Palais), sul quale aveva anche trascritto il nome e l’indirizzo della modella. L’ambientazione è ricolma di orientalismi alla moda. Ingres riproduce la decorazione turca con la stessa cura con cui studiava un vaso greco. Ogni centimetro della tela è dominato dal particolare talento grafico dell’autore. Le ginocchia e le gambe della schiava, intenta a suonare un oud dal lungo collo (l’antenato turco del liuto), sono racchiuse in un contorno così definito da ricordare Giotto.

Ingres, Odalisca con la schiava, olio su tela. 

50. Jean-Auguste-Dominique Ingres, Odalisca con la schiava, olio su tela, 1839-40, Cambridge (Mass.), Fogg Art Museum.

Come si concilia l’aria esotica dell’odalisca con la devozione proclamata da Ingres verso l’antichità classica? Una traccia ci viene dalle lettere di lady Mary Wortley Montague, moglie dell’ambasciatore inglese alla corte di Turchia, che così descrive ciò che vide nel 1717 in un bagno turco:

I divani davanti erano ricoperti di cuscini e tappeti preziosi; vi sedevano le signore. Su quelli della seconda fila, dietro la prima, stavano le serve; tuttavia il loro modo di vestire non lasciava riconoscere alcuna distinzione di rango, poiché erano tutte nello stato di natura... eppure nessuna di loro accennò anche solo un sorriso licenzioso o un gesto indecoroso. Camminavano e si muovevano con la stessa grazia maestosa che Milton descrive a proposito della Madre di tutti noi [Eva]. Tra loro molte avevano forme altrettanto proporzionate delle dee disegnate dalla matita di Guido [Reni] o di Tiziano, e quasi tutte avevano la pelle di un bianco luminoso. Il loro unico ornamento erano i meravigliosi capelli, divisi in tante ciocche guarnite di perle e di nastri e riversati sulle spalle, come a voler offrire una rappresentazione perfetta delle Grazie.

Quella che viene qui presentata è un’immagine di innocenza erotica, libera dal senso di colpa cristiano legato alla «caduta dell’uomo» nei giardini dell’Eden. Le lettere di lady Mary furono pubblicate nel 1763. L’argomento dell’innocenza turca ha tutta l’aria di un’acrobazia retorica. A ogni modo fu questo genere di sguardo sulle culture esotiche a indurre Ingres a ritenere che esse rivelassero le stesse verità senza tempo proprie dell’arte del disegno lineare. In termini generali, questa è una visione romantica.

Qualunque discussione intorno a Ingres come artista «neoclassico» non può non chiamare in causa il suo rivale dichiaratamente «romantico», Eugène Delacroix. Di certo i due si consideravano avversari, benché con una certa magnanimità, comunque non priva di riserve, da parte di Delacroix. Quanto alla scelta dei temi, abitavano nello stesso territorio e i loro gusti s’incontravano in più punti. Entrambi amavano Raffaello e Mozart; entrambi erano attratti dall’orientalismo. La loro differenza riguardava il modo in cui l’artista, inteso come colui che si esprime attraverso lo stile, possa aspirare a comunicare dei valori, e quali siano tali valori. Alle eterne verità lineari di Ingres, Delacroix oppose il fuoco cromatico, inteso come mezzo di comunicazione tra l’anima dell’artista e quella dello spettatore. Delacroix era disposto a viaggiare nel regno della melanconia, della disperazione, della paura, della violenza. Dai suoi brillanti Diari, che furono pubblicati postumi, apprendiamo che la lotta eroica che Michelangelo aveva ingaggiato con la condizione umana tornò a essere importante. I suoi scritti sono un diario della sua vita interiore e delle sue passioni artistiche (in ambiti assai ampi, che includono anche la musica e il teatro): una sorta di confessionale del piacere e della sofferenza, profondamente umano, cui Ingres non avrebbe mai potuto accedere.

Da giovane Delacroix riscosse più di un succès de scandale. Nel caso della Morte di Sardanapalo, esposto al Salon nel 1827-28, l’accento cade sullo «scandalo». Il quadro racconta la storia, già resa nota da una poesia in blank verse di Lord Byron, del re assiro i cui sudditi insorsero contro il suo dominio. Il testo distribuito dal Salon spiega che i ribelli sono in procinto di invadere il palazzo:

Disteso su un superbo giaciglio, in cima a un’immensa pira, Sardanapalo ordina ai suoi eunuchi e ufficiali di palazzo di sgozzare le sue donne, i suoi paggi, persino i suoi cavalli e cani preferiti; nessuno degli oggetti che sono serviti ai suoi piaceri dovrà sopravvivergli... Aisheh, una donna della Battriana, non potendo accettare l’idea di essere uccisa da uno schiavo, si è impiccata a una delle colonne che reggono la volta del soffitto... Da ultimo Baleah, il coppiere di Sardanapalo, ha dato fuoco alla pira e vi si è gettato sopra.

Delacroix non risparmia i colpi. Sardanapalo è l’unico a restare impassibile, mentre intorno al suo enorme letto sta infuriando un massacro orientale. Aisheh penzola dalla sommità della tela, mentre sulla destra una coltre di fumo minacciosa ci dice che il fuoco appiccato da Baleah sta già divampando.

Non c’è nulla che aiuti il nostro occhio ad arrestarsi mentre scorre sulla tela. L’arancione vivo degli abiti e dell’oro metallico, la carne scura dello schiavo che pugnala un destriero terrorizzato, i corpi rosei delle concubine: ogni particolare è un estremo omaggio al colorismo di Rubens. La conflagrazione di colori fu preparata da alcuni studi-chiave realizzati a pastello. Attraverso la pittura Delacroix ci trasporta nel regno del terrore puro.

Delacroix, La morte di Sardanapalo, olio su tela. 

51. Eugène Delacroix, La morte di Sardanapalo, olio su tela, 1827, Parigi, Louvre.

A nessuno poteva sfuggire la sfida che il Sardanapalo lanciava ai valori accademici. Il pittore e scrittore Étienne-Jean Delécluze, che aveva studiato con David, così riassunse le riserve più comuni:

Il Sardanapalo del sig. Delacroix non ha incontrato il favore né del pubblico né degli artisti. Invano si cercherebbe di arrivare ai pensieri che il pittore ha avuto mentre componeva l’opera; la mente dello spettatore non può penetrare il soggetto, i cui elementi sono isolati, in cui l’occhio non riesce a orientarsi a causa della confusione delle linee e dei colori e in cui le prime norme dell’arte sembrano esser state deliberatamente violate. Sardanapalo è un errore da parte del pittore.

A questo stadio sarebbe stato difficile prevedere che, a partire dagli anni trenta, l’artista sarebbe diventato il pittore murale ufficiale degli edifici pubblici di Parigi. Nel momento in cui Delacroix stava sfruttando la sua facilità pittorica per creare le variopinte narrazioni su Orfeo e Attila nel soffitto a volta della biblioteca di Palazzo Borbone, Ingres tracciava i meticolosi arabeschi lineari della sua Odalisca. Viste di persona, l’intelligenza aperta e la raffinatezza sofisticata del Delacroix maturo risultarono più docili alle autorità che non l’acido dogmatismo e la stramberia di Ingres. Ciononostante tutti e due avevano molto da dire al futuro.

La comunione tra l’anima dell’artista e lo spettatore è al centro del romanticismo tedesco, con una particolare attenzione alla metafisica dello spirito. Ciò vale in special modo per i suoi due pittori più importanti, Philipp Otto Runge e Caspar David Friedrich. A dare il là fu, alla fine del XVIII secolo, Wilhelm Wackenroder nei suoi Sfoghi del cuore di un monaco innamorato dell’arte, che furono compilati nel 1797 dal poeta Johann Ludwig Tieck. L’opera è pervasa da una profonda devozione e si volge consapevolmente al Medioevo. Tutto scorre da Dio e rifluisce verso Dio, e l’arte è uno specchio dell’onnipotenza divina:

Si può dire che l’arte è il fiore del sentimento umano. In forme eternamente mutevoli questo fiore si eleva al cielo da punti diversi della terra [...]. Egli scorge in ogni opera d’arte, da qualunque punto della terra provenga, la traccia di quella scintilla divina che, partita da Lui, attraverso il petto dell’uomo passò alle piccole creazioni di questi.19

In che modo una visione come questa potesse tradursi in pittura è mostrato dal Mattino di Runge, del 1808. Si tratta della versione ridotta di un grande dipinto che Runge volle far tagliare in varie sezioni dopo la sua morte. Il Mattino faceva parte di un ambizioso progetto che prevedeva la creazione di quattro grandi dipinti dedicati alle «Fasi del Giorno». Di tale progetto Runge, prima della morte a soli trentatré anni, riuscì a completare una serie di stampe, che fu molto ammirata. Invece dei dipinti previsti ne fu realizzato uno solo, quello sull’alba. Qui l’albore raggiante di Aurora è annunciato da Venere, la stella del mattino. Nuova vita viene trasfusa nella terra ancora assonnata. Putti angelici, alati e non, salutano il bimbetto, tutto estasiato, e gli fanno omaggio di boccioli di rosa. Intorno alla finestra centrale, che riluce come una vetrata, fiori di amaryllis in piena fioritura s’intrecciano ad angeli e genietti. I bambinelli che vediamo agli angoli inferiori intrappolati in una gabbia di radici si sporgono verso due putti, che a loro volta stanno facendo crescere un’indesiderata eclissi di sole, cioè dell’astro che dà la vita. L’estasi simbolica ha qui un sapore medievale, come un ritorno allo spirito di Durando, se non anche al suo stile e al suo immaginario.

Anche il colore è degno di nota. La radiazione dorata è completata da quel genere di ombre blu-violetto che siamo soliti associare all’impressionismo. In effetti Runge fu un importante teorico del colore. In particolare preparò una «sfera cromatica», con cui si riprometteva di riuscire a «costruire la relazione di ciascuna combinazione di colori con tutte le altre». Intorno all’equatore erano disposti i colori primari – blu, giallo e rosso –, inframmezzati da quelli secondari – verde, arancione e porpora. Ai poli si

Runge, Mattino, olio su tela 

52. Philip Otto Runge, Mattino, olio su tela, 1808, Amburgo, Kunsthalle.

 

trovavano invece il bianco e il nero, con in mezzo le varie gradazioni del grigio. La sfera di Runge ci mostra che l’armonia cromatica è prodotta da coppie di colori complementari dislocati ai due estremi opposti: ad esempio il giallo e il porpora, proprio come è stato fatto in questo quadro. L’unione di scienza e metafisica dello spirito permea tutto il pensiero tedesco dell’età romantica. Goethe, reso celebre dal Faust, pubblicò anche una Teoria dei colori. L’obiettivo in ogni caso era forgiare un compiuto sistema di ragione e rivelazione in grado di produrre l’opera d’arte definitiva. Possiamo descrivere come «sinfonico» il risultato raggiunto da Runge nel suo Mattino.

Da parte sua Friedrich estese la visione metafisica alla pittura di paesaggio. Con lui la natura diventa qualcosa che va ritratto non tanto tramite un’ispezione empirica ma per come la vediamo interiormente. Persino i suoi disegni dal vivo possiedono una qualità allucinatoria. I quadri di Friedrich hanno un’intensità tonale e cromatica così bruciante che un suo contemporaneo, per descrivere ciò che provava nell’osservarli, scrisse che era come se le sue «palpebre fossero state tagliate via». Spesso nei dipinti di Friedrich, proprio come accade nell’arte cinese, c’è un osservatore interno all’immagine che fa da testimone della scena. Nel Viandante sul mare di nebbia, del 1818, la silhouette di un esploratore emerge dalle nebbie avvolgenti e si staglia contro il chiarore pallido del cielo. L’acuto contrasto tonale tra la cima rocciosa in primo piano e il velo indefinito delle nebbie tutt’intorno così come il contrasto estremo tra la dimensione dell’uomo e quella degli alberi che vediamo in lontananza provocano una notevole estensione dello spazio. Friedrich scrisse che «l’occhio e la fantasia si sentono più attratti dalla distanza offuscata che non dalle cose che appaiono vicine e distinte davanti a noi».

Il romanticismo tedesco attinse parecchio dalla tradizione mistica di Jakob Böhme, teologo protestante del XVII secolo, il cui primo scritto visionario s’intitola Aurora nascente. Per Böhme la luce interiore manifesta la luce divina: «una luce risplende in tutto il tuo corpo; e tutto il corpo si muove secondo il potere e la conoscenza della luce, che significa Dio in quanto Figlio». Questa concezione è importante sia per Runge che per Friedrich.

Friedrich, Viandante sul mare di nebbia, olio su tela 

53. Caspar David Friedrich, Viandante sul mare di nebbia, olio su tela, 1818, Amburgo, Kunsthalle.

Di solito non associamo l’arte e il pensiero britannici a una metafisica tanto elevata, a parte nel caso di William Blake. Tuttavia la letteratura e la pittura romantica anche in Gran Bretagna ebbero un tono fortemente spirituale. Le immagini della natura dipinta che dominarono la scena furono quelle di William Turner e John Constable, che possiamo senz’altro collocare allo stesso livello dei massimi pittori di paesaggi di tutti i tempi. Al pari di Ingres e Delacroix, i due erano rivali dichiarati. Un altro parallelo con i due francesi sta nel fatto che a ottenere i consensi maggiori nelle sedi ufficiali fu l’arte più apertamente emotiva di Turner. Egli fu eletto socio della Royal Academy nel 1802 e dal 1807 fu professore di Prospettiva, incarico che prese molto sul serio. Insegnò anche colore e geometria ottica. Constable, invece, dovette aspettare fino al 1829 per diventare accademico a tutti gli effetti.

Turner, La valorosa «Téméraire», olio su tela. 

54. Joseph William Mallord Turner, La valorosa «Téméraire», olio su tela, 1838, Londra, National Gallery.

Al pari di Friedrich, anche Turner era un pittore della luce; ma la sua era una luce esterna, un mezzo espressivo luminoso in cui s’immergeva con effetti straordinari. La gamma della sua prodigiosa produzione è quanto mai vasta: dalle umide vedute di fiumiciattoli locali alle grandi vedute classicheggianti, dagli scorci prospettici di città ai mari in tempesta, da un sublime scenario alpino allo scintillio della laguna veneziana, da alcune rese scrupolose della battaglia di Trafalgar a visioni evanescenti in cui le forme si dissolvono nella luce. Per tale ragione il suo quadro più famoso, La valorosa «Téméraire», non dev’essere considerato rappresentativo di tutta la sua opera, ma come una dimostrazione di maestria, che qui tocca l’apice della sua forza emotiva.

Il soggetto è la processione funebre della Téméraire, un vascello che aveva svolto un ruolo eroico nella battaglia di Trafalgar del 1805. Per vent’anni era rimasto ormeggiato per raggiunti limiti di età, finché la sua carcassa, dopo esser stata disalberata e spogliata di tutte le attrezzature, fu trainata da due rimorchiatori da Sheerness a Rotherhithe per ricavarne legname. Turner altera alcuni elementi: il quadro vuol essere un’invenzione narrativa, non un documentario. Il fantasma esangue del vecchio vascello è trainato da uno scuro rimorchiatore metallico. L’atmosfera del quadro fu colta dal romanziere William Thackeray:

Il vecchio Téméraire viene trainato alla sua ultima dimora da un perfido, diabolico vaporetto. A un lato del dipinto un potente sole rosso va a coricarsi in mezzo al bagliore delle nubi, illuminando un fiume che sembra infinito [...]. Quel piccolo demonio di vaporetto erutta una massa [...] di fumo schifoso, lurido, rovente, maligno; leva spruzzi furiosi e agita l’acqua tutt’intorno; mentre una luna grigiastra guarda giù verso di lui, dietro lo segue la vecchia ardita nave, lenta, mesta, maestosa, con la morte, per così dire, scritta sopra.20

Questo quadro è estremamente toccante, ma non dobbiamo pensare che Turner respingesse in toto l’era del metallo e del vapore: pur provando malinconia di fronte alla morte delle cose antiche, condivideva anche l’appassionata eccitazione per le novità.

La disposizione degli elementi e l’esecuzione collocano l’opera al di fuori delle antiche convenzioni della pittura di paesaggio. L’asimmetria tra le forme principali è bilanciata dal peso del colore. Il maestoso crepuscolo, in piena fioritura, è reso da spesse chiazze di pittura chiare e scure, che restano come sospese in aria sopra la striscia blu dell’orizzonte. La boa nera che sobbalza nell’angolo in basso a destra gioca un ruolo vitale, perché spinge in lontananza il sole e le nuvole infuocate. Secondo le convenzioni della pittura, in un dipinto le forme scure si ritraggono mentre quelle chiare avanzano. Turner viola questa regola e riesce, non si sa come, a far sì che la sua alternativa funzioni con grande vivezza.

Constable per contro ci appare molto descrittivo, molto «olandese». In realtà i suoi quadri maggiori sono costruzioni sintetiche proprio come quelli di Turner. La differenza è che qui l’artificio è sottilmente celato sotto la superficie. Il grande Carro da fieno, un’opera iconica quanto il Téméraire, è pieno di espedienti pittorici che servono a farlo sembrare naturale. Constable conosceva bene il posto in cui ha luogo la scena, il cottage di Willy Lott a Flatford, nel Suffolk, poiché suo padre possedeva un mulino nelle vicinanze. Prima di completare questo suo ultimo «sei piedi», com’era solito chiamare i grandi dipinti che sottoponeva al giudizio dell’Accademia, Constable condusse diversi studi a olio sullo stesso soggetto, alcuni proprio in funzione del Carro da fieno, altri indipendenti. In particolare realizzò, con tecnica libera, uno studio a misura intera per mettere a punto tutti gli effetti tonali e cromatici dell’opera. Nella versione definitiva l’unico cambiamento di rilievo, rispetto alla prova, fu l’eliminazione di una figura e di un cavallo a sinistra del cane. C’è stata la moda di preferire lo studio a misura intera all’opera finita, ma ciò significa travisare Constable.

La versione definitiva supera il modello per i suoi dettagliati effetti di luce, come il pulviscolo scintillante di punti luminosi impastati che Constable, scherzando, chiamava la sua «neve». L’acqua riluce lucida, ma nel punto in cui il carro avanza con a bordo due braccianti si frange in tante piccole increspature brillanti. Chiazze sparse di luce solare corrono sui campi lontani su ciascuno dei due lati di una fila di alberi. L’interrotta processione di nuvole è assolutamente inglese: le previsioni del tempo parlerebbero di «intervalli soleggiati con possibilità di sparsi scrosci temporaleschi». In precedenza Constable, che era aggiornato riguardo alle più recenti ricerche meteorologiche sulle nuvole, aveva realizzato alcuni incantevoli studi di cieli carichi di nubi – li chiamava il suo «arrivare al cielo».

Constable, Il Carro da fieno, olio su tela. 

55. John Constable, Il Carro da fieno, olio su tela, 1821, Londra, National Gallery.

 

Fu questo serbatoio di studi sistematici, coltivati per anni, a permettergli di produrre un’opera che si presenta come un documento del tutto particolare. La stessa cosa si può dire per i «ritratti» individuali degli alberi, basati su lunghe ore passate a studiare i dettagli delle ramificazioni e i giochi di luce nel fogliame. L’ispirazione viene ovviamente da Ruisdael e dai maestri olandesi, che tuttavia retrospettivamente ci appaiono artificiosi se confrontati con la freschezza di Constable. In ciò egli era avvantaggiato enormemente dalla vasta gamma di pigmenti disponibile ai suoi tempi. Eppure i suoi dipinti furono criticati proprio perché apparivano «troppo verdi» rispetto ai placidi vecchi maestri. A ogni modo Il Carro da fieno suscitò un’impressione favorevole quando fu esposto al Salon parigino del 1824.

Guardando le immagini della campagna del Suffolk, così cara a Constable, siamo tentati di cercarvi dei posti precisi, che nel frattempo sono diventati luoghi di richiamo per i turisti. In realtà Il Carro da fieno fu esposto col sottotitolo Paesaggio: mezzogiorno. Era cioè un «effetto», volto a provocare una certa emozione, un determinato stato d’animo, e non la registrazione di una località precisa. L’opera trasuda amore per le piccole cose: «lo scroscio dell’acqua che scorre dalle barriere del mulino ecc. Salici, vecchie assi di legno marce, pali limacciosi, costruzioni di mattone», confessò l’autore. Tutte queste cose forniscono alla nostra empatia la tessitura emotiva del tempo e dello spazio. Mentre Turner lavora «dall’alto verso il basso», inserendo dettagli dentro un’atmosfera, Constable procede «dal basso verso l’alto», cioè ricava l’atmosfera dai dettagli. È una semplificazione, ma serve a indicare le forze gravitazionali che agiscono nel processo creativo di questi due artisti.

Per finire ci spostiamo, per la prima volta, in Nord America, dove troviamo un genere particolare di sublime naturale. Alla metà del XIX secolo i paesaggisti americani, cimentandosi con la grandiosità delle immense distese selvagge del loro Paese, cominciarono a parlare con una voce propria. Ciò è vero soprattutto nel caso di Frederick Edwin Church. Il suo quadro Le Cascate del Niagara dal lato americano, del 1867, è tanto americano quanto Constable è inglese. Basato su un disegno che Church aveva realizzato in situ più di dieci anni prima, fu composto ricoprendo di colore una fotografia. Con i suoi quasi due metri e mezzo di altezza, il quadro comunica un senso di maestosa vastità. Il punto di vista è spinto in alto, fino a raggiungere il bordo superiore della tela. Possiamo così osservare le enormi masse d’acqua tuffarsi verso il basso e sollevare immensi pennacchi di schiuma. A sinistra alcuni minuscoli spettatori, in piedi su una perigliosa piattaforma panoramica, servono a mettere in scala il nostro punto di vista. L’angolo in basso a destra è solcato da un arcobaleno.

Al pari di Friedrich e di Turner, anche Church sa come accostare un’oscurità assorbente a un chiarore luminoso. Questo grande quadro fu commissionato dal mercante newyorkese Michael Knoedler, che lo vendette a John Stewart Kennedy, il quale a sua volta ne fece dono alla sua Scozia natia, dov’è infine rimasto.

Church, Le Cascate del Niagara, dal lato americano, olio su tela. 

56. Frederick Edwin Church, Le Cascate del Niagara, dal lato americano, olio su tela, 1867, Edimburgo, National Gallery of Scotland.

Nel nostro viaggio dal Napoleone di Canova fino ai paesaggi «sublimi» abbiamo assistito alla progressiva «liberazione» dell’arte dai diktat tipici del mecenatismo. Ci fu un prezzo da pagare. Ora erano necessari dei mezzi per portare le opere al pubblico – i potenziali acquirenti, i critici, l’ampia gamma di possibili spettatori. In ciò giocavano un ruolo cruciale i mercanti e le mostre. Ma non bastava: occorreva anche creare nuovi soggetti, capaci di attirare l’attenzione. A tal fine si rivelarono utili gli effetti appariscenti, ma erano di grande aiuto anche la capacità di promuoversi e un forte senso della propria individualità. Gli artisti iniziarono a vendere, letteralmente, la propria anima, quale che fosse la loro inclinazione – classica o romantica. Come per altri beni culturali, anche nel caso dell’arte il mercato poteva rivelarsi un ambiente difficile.