Spero che sia ormai chiaro che le opere d’arte sono immerse nella storia da cui affiorano. In taluni casi il rapporto è ovvio e diretto, come per Gli orrori della guerra di Rubens o Guernica di Picasso. In altri casi, come per Il martirio di San Lorenzo di Tiziano o le tele astratte di Mondrian, è più sottile e complesso, e spesso coinvolge, più in generale, la posizione dell’arte così come si sviluppa all’interno delle singole società. I concetti di arte e di artista sono cambiati in maniera radicale nel corso della storia, di pari passo con le enormi trasformazioni subite dalla funzione dell’arte e dal modo in cui la si è considerata.
È evidente che per comprendere aspetti quali la forma, il contenuto, la funzione e la visione occorre un’analisi del contesto culturale. In tal senso l’arte ovviamente ha una storia, la quale quindi plasma la nostra esperienza di vedere l’arte stessa. Sorge allora la domanda: c’è qualcosa nell’arte che trascende la dimensione storica? Siamo sicuri che essa si esaurisca nell’essere il «deposito di una relazione sociale», per usare la formula di Michael Baxandall? L’arte è forse priva di valori assoluti al di fuori del contesto in cui viene prodotta?
Anche considerandola dal suo punto di vista, l’idea dell’arte come «deposito» è troppo passiva. L’arte è stata chiaramente un soggetto attivo nel plasmare i valori culturali e politici. Lo studio della storia ha bisogno della storia dell’arte. E comunque, una simile concezione contestuale non soddisfa la nostra persistente sensazione che le creazioni del passato siano ancora in grado di comunicarci qualcosa oggi, tramite il loro contenuto, la loro forma o entrambe le cose. Quel qualcosa è forse il «valore estetico»?
A partire dalla fine del Settecento i teorici dell’estetica si sono sforzati di definire la «quintessenza» dell’arte, applicabile a tutti i periodi e a tutte le culture, ma non hanno mai raggiunto un consenso unanime. Da parte mia ero quasi pronto ad argomentare che non è possibile alcuna definizione di questo tipo; si tratta di una «categoria sfocata», cui associamo determinati valori, ma senza che ci sia una serie fissa di caratteristiche essenziali che debbano sempre essere presenti. In tal modo si rende conto dell’osservazione che non tutto è possibile in ogni tempo. Inoltre occorre riconoscere che possiamo chiamare qualcosa «arte» anche se i suoi creatori non avevano alcuna nozione dell’arte o ne avevano una molto diversa dalla nostra.
Tuttavia vorrei impostare la questione da un punto di vista più radicale. Le indagini sull’essenza dell’arte in genere muovono dalla premessa che tale essenza esista veramente. Ma che succede se abbandoniamo tale premessa come qualcosa di completamente superfluo? Le cose cambiano come dal giorno alla notte. Io non vedo alcun motivo per cui un antico kouros, un quadro a spruzzo di Pollock, una proiezione di Jenny Holzer e un ritratto di Elisabetta II di un pittore accademico debbano necessariamente avere in comune qualcosa di essenziale, se non il fatto che sono tutti oggetti visivi fatti dall’uomo, che aspirano a coinvolgere in maniera duratura la nostra attenzione e a convogliare dei significati. Ciascuno di loro esiste in uno spettro continuo di prodotti visivi, che include al proprio interno anche gli annunci pubblicitari tanto ammirati dagli artisti pop, e opera all’estremità più complessa e stratificata di tale spettro. Il fatto che «cose» che funzionano in maniera molto diversa, cui applichiamo la comune categoria di «arte», siano arrivate a essere sistemate l’una accanto all’altra, tanto fisicamente quanto concettualmente, dipende soltanto dall’evoluzione istituzionale delle accademie e delle gallerie d’arte. È proprio questa sistemazione che ci svia, facendoci pensare che Pollock e i ritrattisti appartengano allo stesso genere di questione estetica. Sì, vorrei spingermi fino ad affermare che l’estetica è lo studio storico dei tentativi di definire l’essenza dell’arte. Ormai dovremmo averlo capito – Duchamp dovrebbe avercelo insegnato.
Tutto ciò ci lascia solo con la spiegazione sociale dell’arte? Sì e no. Sì, nel senso che ogni opera è del suo tempo e luogo, come abbiamo visto. No, nel senso che ogni opera è l’espressione di impulsi umani basilari, soprattutto dell’impulso di comunicare attraverso la produzione di oggetti visivi. Sono convinto (forse a causa della mia formazione di biologo) che gli esseri umani, nella sostanza, non siano cambiati nel corso relativamente breve della loro storia documentata. I nostri amori e piaceri, le nostre avversioni e paure sono gli stessi ora e nell’antica Grecia o al tempo del Paleolitico. Questi tratti umani fondamentali devono venir espressi in modi concreti, in base ai contesti specifici che sono di volta in volta disponibili in luoghi e tempi specifici. Non c’è un’alternativa a questa loro appartenenza materiale e sociale; proprio come non possiamo dire quanto ci fa piacere sentire caldo senza che ci sia un preciso contesto materiale e soggettivo che permetta di capire quella frase. Il calore non è qualcosa che possiamo definire in maniera assoluta e autonoma. Il calore, in quanto esperienza, esiste in una cornice comunicativa condivisa in cui noi possiamo parlare e qualcuno può ascoltarci. L’arte ci parla nella stessa maniera contestuale. Una delle facoltà degli oggetti visivi che abbiamo imparato a chiamare «arte» consiste nel fatto che essi possono farci provare il calore orribile delle fiamme dipinte da Tiziano; tuttavia tali fiamme possono trasmettere pienamente il loro significato solo all’interno dell’immagine di san Lorenzo bruciato. Guardando la grande tela di Tiziano vediamo che è in corso un’agonia; ma la possiamo comprendere meglio se siamo in grado di «abitare» nel contesto umano e spirituale entro cui quel calore eccessivo assume un significato.
L’arte è nella storia e non può esistere al di fuori di essa. Eppure riesce sempre a parlarci in termini profondamente umani.