8.
Nasi Goreng

I bassi esplodevano nello stomaco, nel tramonto rovente di Bali. Duemila corpi sudati che si muovevano all’unisono, come in una messa laica officiata da un sacerdote senza croci né pane né vino, a torso nudo e con un berretto da baseball. Ogni disco che suonava era un flusso di energia che partiva dalla consolle e raggiungeva quella folla di adepti, trascinandoli in un vortice, rendendoli un unico, gigantesco essere vivente.

Eppure, in mezzo alla selva di braccia rivolte verso il cielo d’agosto, tra tutte le traiettorie possibili di migliaia di sguardi, lui la vide, e tutto il resto scomparve. Si muoveva come in uno stato di trance, gli occhi socchiusi, le gambe abbronzate, e quel modo che aveva di toccarsi i capelli mentre seguiva il ritmo della musica... Lui sentiva di non avere scelta: doveva raggiungerla, subito. Camminava con un po’ di fatica perché faceva molto caldo e la porzione abbondante di Nasi Goreng, il riso fritto con pollo e gamberi divorato solo poche ore prima, non aiutava.

Mentre si faceva strada verso di lei, sentiva sulla pelle le mani, le spalle, l’odore di tutta quella gente che si frapponeva tra di loro, che rallentava la sua corsa.

Era quasi arrivato quando si rese conto che anche lei si era accorta di lui, lo stava guardando, e fu come se sentisse di illuminarsi per il solo fatto di essere l’oggetto di quello sguardo. Non si dissero molto, perché il volume era assordante e i cocktail, mescolati all’MDMA, avevano già fatto effetto rendendo tutto più fluido, azzerando la tensione, cancellando l’imbarazzo: amplificando il desiderio.

Era il quindici agosto del 2005, erano le sette di sera, il White Party era in pieno svolgimento e Luca, ghiotto di pollo fritto e tifoso di Cavani, in quel momento era solo una possibilità, un miracolo sospeso a mezz’aria, l’esito potenziale di tutto ciò che sarebbe accaduto quella notte. Un non ancora. Una cosa difficile da spiegare a un figlio, se i due che dovresti chiamare mamma e papà si sono persi di vista prima ancora di sapere che ti aspettavano.

Non che la mattina dopo Giulia non lo avesse cercato, ma era come cercare un pesce nel mare: da dove cominci? Ad aver saputo subito come sarebbe andata, avrebbe chiesto di lui in tutte le spiagge e in tutti i bar di Bali. Ma era il penultimo giorno della sua vacanza, e quando, quarantott’ore più tardi, si era imbarcata sul volo per Milano, si era rassegnata a lasciare quel ricordo nebuloso in un angolo della memoria: un nome, Cristiano; un’età, trentaquattro anni, e una città, Napoli.

Era tutto ciò che le restava di lui, insieme alla sensazione di quelle braccia forti che la stringevano, dei loro corpi avvinghiati, del profumo della pelle di quell’uomo che di certo non avrebbe mai più rivisto.

Il modo in cui si sentì quando, quattro settimane dopo, lo stick del test di gravidanza le disse con fin troppa franchezza che aspettava un bambino, quello invece lo ricorda benissimo: le lacrime a cui non riusciva a dare un nome, perché non capiva se stessero scendendo a dirle di sentirsi benedetta o disperata, se sulla soglia di una vita nuova o sull’orlo di un abisso. Seduta sul bordo della vasca da bagno, Giulia non sapeva che fare: non dormì e non mangiò per quarantott’ore, dopodiché decise che tutto quello che avrebbe fatto sarebbe stato tentare di essere una buona madre.