18.
Basilico

“Dai, che ti costa?”

“Allora, vediamo: il lavoro, quel minimo di fiducia che mi ha concesso tua madre... Continuo?”

“Ma scusa, chi lo saprà mai? Pedalerò dietro di te, tutto qui. Non è vietato dalla legge!”

“No, ma è pericoloso.”

“Ti prego...”

Luca, quando ci si mette, sa essere davvero insistente. Genny ormai l’ha capito, del resto è stato così fin dal loro primo incontro. Sono passati due mesi da quella sera, e si sono visti spesso. Dopo la cena improvvisata sul divano, durante la quale Giulia gli ha fatto un terzo grado in piena regola, seppure travestito da amabile conversazione, Genny è andato a prenderlo qualche volta a scuola e lo ha “scortato” fin sotto casa o hanno pranzato insieme al parco.

Giulia tutto sommato è contenta che suo figlio e quel ragazzo si siano trovati: Genny non è un mentore, né un surrogato di quella figura paterna che è sempre mancata nella vita di suo figlio. Nemmeno un fratello maggiore. È piuttosto una bizzarra forma di compagno di classe ultraripetente, qualcuno che, se da un lato si prende cura di lui, dall’altro impara a sua volta da quel ragazzino cose che aveva perso per strada: si direbbe quasi che quella strana coppia funzioni per una sorta di “osmosi emotiva”, grazie alla quale ognuno sopperisce alle carenze dell’altro, quelle che i loro percorsi di vita hanno inevitabilmente determinato.

“E va bene, dai,” cede Genny. “A che ora devi rientrare in classe?”

“Alle tre.”

“Allora andiamo al parco, mangiamo il panino e, se nel frattempo arriva una chiamata e non è troppo lontano, vieni con me. Ma non dirlo a tua madre.”

“Grande! Grazie, Genny!”

Luca slega la bici, monta in sella e indossa lo zaino. Genny fa lo stesso, come se fosse una coreografia. Visti di spalle sembrano la stessa persona a distanza di anni, come in quei fotomontaggi in cui un bambino ha in mano un pesce grande quasi quanto lui e accanto c’è sempre lui ma da adulto, nella stessa posizione e con in mano un pesce che, nonostante sia grande come quello della prima foto, all’improvviso sembra piccolo.

I loro zaini non seguono la stessa proporzione: sono entrambi giganteschi. Per il resto, invece, non potrebbero essere più diversi: lo zaino di Luca è tutto colorato, pieno di scritte e con un ciuccio azzurro, la mascotte del Napoli, appeso al cursore della lampo; quello di Genny è monocolore, impersonale, con un logo enorme proprio nel mezzo a sancire il suo essere uno strumento di lavoro e nulla più.

A vedere quella scena, si direbbe che non è poi così vero che l’età adulta è quella della selezione, delle scelte consapevoli. Luca se ne va in giro con uno zaino che assomiglia alla sua vita, a quello che gli piace; Genny invece trascina una scatola che contiene roba scelta da altri, che lui si limita a recapitare, con gesti ripetitivi e meccanici. E forse è proprio per questo che cerca sempre di fare conversazione, in piedi su quegli zerbini, mentre passa sacchetti a degli sconosciuti: forse, tutto ciò che vuole è strappare quei gesti al loro destino, restituire loro un po’ di calore, renderli un’occasione, un’opportunità. E forse non è un caso che ci sia riuscito proprio con Luca, dodici anni.

Luca, che gli ha aperto la porta con più fame negli occhi che nello stomaco, perché quello era uno dei suoi primi delivery, una delle prime sere della sua vita in cui aveva ottenuto il permesso di stare da solo in casa a guardare la partita. Le prime volte. Momenti memorabili. La cosa più lontana da un gesto meccanico.

“Eccola, è arrivata la notifica. Ritiro in via Pecchio, consegna in via Stradivari. È qui vicino. Sei pronto?”

“Sì!” La risposta non si è fatta attendere.

“Ma hai ancora un pezzo di panino...”

Non fa in tempo a dirglielo che Luca con un sol boccone lo finisce, butta in un cestino la carta stagnola e i tovagliolini e monta sulla bici, pronto a seguirlo. Ora sembra di colpo molto più piccolo, i suoi gesti sono quelli di un bimbo. Genny è affascinato da questa specie di “bipolarismo generazionale” di Luca, molto tipico di quella fase della vita: un attimo prima può essere scontroso e di poche parole come un adolescente, un attimo dopo entusiasta e impacciato come un bambino. Quell’età è una terra di mezzo, sospesa tra ciò che si fa fatica a non essere più e la nuova persona che si ha fretta di diventare.

“Andrò piano: tu stammi attaccato e fai attenzione, ok?”

“Non ti preoccupare. Guarda che sono capace di andare forte.”

“Non è questione di capacità. È pericoloso.”

“Mamma mia, oh! Anch’io sarò così palloso da vecchio?”

Genny accenna un sorriso, mentre tutti e due cominciano a pedalare.

Milano oggi è tranquilla: poco traffico, una strana rilassatezza per le strade. Luca segue Genny come un’ombra; Genny si volta a guardarlo e riconosce nel suo sguardo la gioia e l’eccitazione di quando hai dodici anni o poco più.

Si rende conto di quanto la vita poi te lo porti via, quell’entusiasmo. Vorrebbe averlo fermato per sempre quando l’ha sperimentato anche lui, aver mantenuto la capacità di farsi travolgere, di emozionarsi senza ritegno, senza parsimonia. Senza pensare, come gli succede adesso, che i bei momenti passeranno, e tornerà la solita vita di tutti i giorni – l’ansia, l’insicurezza, il pensiero di Claudia.

Negli occhi di Luca, che lo segue pedalando, non esiste “tutti i giorni”, non esiste la differenza rispetto a ieri, né l’aspettativa del domani. C’è solo la felicità di quell’attimo, c’è solo lui che pedala più forte che può per stare dietro al suo amico.

Genny pensa a tutte queste cose mentre pedala, insolitamente silenzioso, e di colpo un’immagine riaffiora dalla sua memoria, talmente nitida da farlo sbandare. Una domenica di fine estate di tanti anni fa, tutta la famiglia riunita in campagna, nella grande casa dello zio Ciccio, per il rito della conserva di pomodoro.

Genny aveva il compito di manovalanza più umile in quella catena di montaggio: mettere la foglia di basilico in ogni bottiglia di vetro, prima che fosse riempita di passata. Un gesto da ripetere decine e decine di volte, sempre perfettamente identico.

Eccolo lì, in piedi davanti al tavolone di legno grezzo, con la maglietta blu e i jeans più consumati che ha, quelli che la mamma gli diceva di indossare per fare “il lavoro”. Davanti una scodellona piena di basilico, lui con la mano cicciotta che affonda in quel mare verde profumatissimo, intorno gli alberi carichi di limoni e i cani che scodinzolano, eccitati da tutto quel trafficare. Suo padre qualche metro più in là gira la manovella del passapomodoro, con la canottiera bianca e la sigaretta che penzola all’angolo della bocca. Lo guarda, gli fa l’occhiolino, a Genny sembra che gli stia dicendo che è fiero di lui, e allora ha il cuore che va a mille, anche se sta solo mettendo basilico dentro una bottiglia, niente di speciale, una cosa piccola e facile e stupida, una cosa che potrebbe fare anche un robot. Ma la sta facendo lui, e il suo papà lo sta guardando, e c’è un’aria leggera, un sole sfacciato, un odore fortissimo di pomodori e una canzone di Alan Sorrenti che esce dal radiolone sul davanzale della finestra.

Quella cosa che sente non la conosce ancora bene. Gli è già successo, ma oggi è diverso, è più chiaro, è più forte. Forse è quello che i grandi chiamano felicità.