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Hamburger gourmet

Il fatto è che a Genny piace fare il rider. Ha cominciato dopo la laurea triennale: Design del prodotto industriale al Politecnico Bovisa, a Milano. Era stato il suo coinquilino Kalidou a parlargliene.

Vivono in un bilocale in via Zuretti, vicino alla stazione Centrale. Spese divise, turni per le pulizie e una promessa reciproca: non arrivare mai a quella cosa tristissima di scrivere i nomi sugli yogurt mangiati a metà in frigo.

Kalidou è senegalese, ha occhi grandi e dita lunghissime. È in Italia da tre anni, ha scelto Milano perché suo cugino ci si era trasferito con la famiglia. Ha cambiato diversi lavori, riuscendo a ottenere un regolare permesso di soggiorno. Da poco più di un anno fa il rider per una delle più grandi piattaforme di food delivery.

Quando Genny gli ha chiesto di parlargli del suo lavoro, Kalidou gli ha spiegato tutto il meccanismo. Il sistema è semplice: queste società si pongono come intermediari tra i ristoranti e i clienti, dunque i rider scaricano una app, così come chi ordina. Il cliente sceglie cosa mangiare, conferma l’ordine e paga. A quel punto il rider riceve una notifica online, pedala verso il ristorante dove deve ritirare il cibo, lo mette nel suo zaino cubo e salta di nuovo in sella. Sia il cliente sia l’operatore della piattaforma tracciano il viaggio del rider, da quando parte a quando consegna, ricevendo in tempo reale aggiornamenti sul percorso del pasto ordinato. Riassumendo: un computer dentro un ufficio, uno smartphone tra le mani di un tizio affamato seduto sul divano e in mezzo un puntino che si muove veloce su una schermata. Quel puntino è Kalidou.

“Non è facile, amico: questo lavoro è una schifessa,” gli ha detto con quel suo accento che a Genny piace da morire. “Devi farti il culo, ti pagano una miseria, e in inverno in bicicletta fa un freddo passesco. Però è sempre meglio che stare otto ore chiuso in fabbrica o in un call center. Almeno giri la città ascoltando musica.”

Gli ha raccontato che esiste più di una società, e che ognuna offre condizioni leggermente diverse: alcune pagano un fisso e un supplemento per ogni chilometro percorso, altre impongono orari, altre ancora, invece, ti consentono di lavorare quando vuoi, ti rendi reperibile solo nel momento in cui lo decidi tu – una tipologia, questa, perfetta per gli studenti che vogliono racimolare qualche soldo da aggiungere a quelli che ricevono dai genitori. La paga va dai sette ai dieci euro lordi all'ora, l’equipaggiamento include generalmente zaino cubo, pettorina o giubbotto, supporto e batterie ausiliarie per il telefono: bicicletta e smartphone, invece, sono di proprietà dei rider. Il lavoro sembra autonomo, ma in realtà ha tutte le caratteristiche di un impiego da dipendente, senza di fatto garantirne i diritti e le tutele. Su questo punto Kalidou aveva iniziato a infervorarsi, raccontandogli delle polemiche scatenate da questa anomalia: alcuni esponenti politici si erano mobilitati in favore dei rider, ma al momento la situazione era ancora immutata.

“Tutto quello che ti serve per inisiare, oltre a una bici, al telefono, alla app e ai documenti, è un manuale di ‘consigli per la guida’, te lo danno quando firmi il contratto. In teoria dovrebbero farti fare una specie di corso di formasione, un affiancamento di qualche giorno, ma negli ultimi tempi c’è talmente tanto lavoro che lo hanno sospeso.”

Genny ascoltava con attenzione, e ogni tanto lo interrompeva con delle domande.

“Quanto si guadagna?”

“Tra gli ottocento e i milleduecento euro al mese, dipende dal numero di consegne e dalle mance, ma per arrivare a quella cifra di consegne devi farne tantissime... che vuol dire lavorare dieci ore al giorno.”

Genny a quel punto aveva un quadro molto preciso, Kalidou era stato prodigo di dettagli, alcuni dei quali piuttosto drammatici. Storie di sfruttamento, di atteggiamenti autoritari da parte di caporali senza scrupoli, di una “tratta” delle licenze, che alcuni immigrati regolari vendono ad altri senza il permesso di soggiorno perché possano lavorare al posto loro: una triste guerra tra poveri. Genny aveva sgranato gli occhi quando Kalidou gli aveva detto che alcuni rider lavoravano per società che a loro volta procuravano lavoratori alle piattaforme: intermediari di intermediari!

“Non ci sono orari, amico mio. Questo lavoro esiste solo perché è pieno di ragassi che hanno bisogno di soldi: siamo i nuovi schiavi, è questa la verità. Ecco perché siamo quasi tutti stranieri. Gli italiani un lavoro così non lo farebbero mai. Infatti ce ne sono pochissimi. Ma perché tutte queste domande? Non dirmi che stai pensando di inisiare anche tu.”

I tentativi di Kalidou di dissuadere Genny non avevano sortito effetto. Anzi, più gli parlava male del suo lavoro e più Genny si incuriosiva. Di tutto quel discorso, la parte che lo aveva colpito maggiormente era l’idea di girare Milano in bicicletta, ascoltare musica e incontrare persone. Tenere la testa occupata, non solo con lo studio. Muoversi, per evitare di pensare troppo. Sentiva di averne bisogno.

Non che non fosse sensibile al tema dello sfruttamento e delle condizioni a tratti disumane in cui erano costretti a lavorare quei ragazzi, ma era talmente eccitato dalla prospettiva che gli aspetti negativi non lo preoccupavano particolarmente. E infatti due giorni dopo si era presentato al colloquio.

Al tipo seduto davanti a lui, Giuseppe Visentin, un inflessibile manager veneto animato da un certo pragmatismo, non era mai capitato un ragazzo italiano laureato che si candidasse a fare il rider.

“Dunque, Di Nola... leggo qui che lei è laureato al Politecnico.”

“Sì, dottor Visentin. Ho appena iniziato il biennio di specialistica.”

“E perché vuole fare il rider?”

“Mi piace molto andare in bici. Lo faccio già, è il mio unico mezzo di trasporto in città. E poi... le persone. Le loro facce, le loro voci. Le loro storie.”

Visentin lo guardava sospettoso, sprofondato nella sua poltrona girevole in pelle, labbra sottili e camicia di un colore che, quando lo vedi in una vetrina, ti chiedi chi diavolo se la potrà mai comprare.

“Lei lo sa che la conversazione più lunga che avrà con i clienti saranno cinque secondi sullo zerbino, vero?”

“Sì, ma in cinque secondi si possono scoprire un sacco di cose. Le case, per esempio, hanno ognuna un odore diverso. Si capisce tanto dall’odore di un appartamento.”

Visentin continuava a fissarlo, sospeso tra la curiosità e l’inquietudine.

“Non è consigliabile dilungarsi in chiacchiere al momento della consegna: potrebbe rallentare il processo.”

Rallentare il processo. Genny non poteva credere che avesse davvero usato quell’espressione.

“Non accadrà. Diciamo che il mio interesse per l’aspetto socio-antropologico di questo lavoro non costituirà un ostacolo. Si fidi.”

Gli piace rendere il suo eloquio più formale, in certe situazioni. Quando l’interlocutore è molto rigido, lui per reazione esagera col linguaggio forbito.

“Lei è di Napoli, vero?”

“Sì.”

“Napoli Napoli?”

A Genny quella ripetizione fa sempre molto ridere. Gli ricorda Bora Bora.

“Sì. Sono nato vicino al monastero di Santa Chiara. Sa, quello della canzone...”

Niente. Una mucca che guarda il treno passare. Visentin non doveva essere quel che si dice un melomane. Oltre al fatto che aveva evidentemente molta fretta.

“Glielo chiedo perché lo so come fate voi. Siete dei gran chiacchieroni. Lo dico con simpatia, eh: ma se lei mi si mette a fare il cinema mentre consegna, mi crea un problema... capisce?”

“Ho un fratello che dice cinque parole al giorno.”

“Prego?”

“Non tutti i napoletani sono loquaci.”

“Ho capito. Lei sì, però.”

“Ma questo è un colloquio. Non le sto mica consegnando la cena. Del resto, se si chiama colloquio si dovrà pure un po’ colloquiare, non crede?”

“Ascolti, Di Nola: parliamoci chiaro, lei si esprime benissimo e sembra piuttosto preparato. Glielo chiedo di nuovo, ma la prego di dirmi la verità: perché vuole fare il rider?”

“Gliel’ho già detto: le vite degli altri. Come il film. Se lo ricorda? Lo ha visto?”

Anche sul cinema c’era stata scarsa reattività. Fatto sta che, nonostante le perplessità di Visentin, tre giorni dopo Genny aveva fatto la sua prima consegna. E adesso eccolo qua, appoggiato a un muretto dopo aver portato la pizza alla signora Vigoreni, intento a fumare una sigaretta, una delle tre che si concede ogni giorno. Sua madre gli dice sempre che farebbe meglio a smettere, ma lui le risponde che, proprio perché ne fuma così poche, se le gode tutte. Specie in certi momenti, per esempio quando ha appena fatto una consegna. Come adesso.

Decide di chiamare Kalidou.

“Oh, dove sei?”

“Porta Romana.”

“Ti va una birra quando finiamo? Offro io,” gli propone.

“Ok. Sentiamoci dopo.”

“Mi raccomando: se consegni a una bella guagliona, portala con te e chiedile se ha un’amica!”

“Tu hai visto troppi film. Ti immagini sempre un sacco di cose e poi quando si tratta di concludere non combini mai un casso.”

“Mamma mia, che brutto carattere che tieni. Non puoi essere un po’ più ottimista?”

“Ciao Genny. Sono arrivato. Magari ci sentiamo dopo.”

Genny sta per replicare, ma Kalidou ha già chiuso. Sul suo telefono, nel frattempo, è arrivata una notifica. Ritiro presso un’hamburgeria in viale Monza, consegna in corso Buenos Aires. È la sua prossima missione. Gli piace immaginarsi così, come una specie di supereroe che sfama la città. Si rimette le cuffie, fa ripartire la musica e inizia a pedalare.

Il navigatore gli dà quattordici minuti, ce ne mette uno di meno. All’arrivo trova altri quattro rider in attesa. Uno di loro lo conosce, è un ragazzo cingalese di nome Pushkar. Si salutano, chiacchierano un po’, giusto il tempo dell’attesa.

“Centododici!”

“Eccomi.”

Sul sacchetto c’è scritto Hamburger gourmet, due per.

Genny sorride: “gourmet” è la nuova parola chiave nel mondo della ristorazione milanese. Qualche volta indica una qualità effettivamente superiore, una sperimentazione interessante o la rilettura di un piatto tradizionale che davvero diventa più buono. Ma Genny ha verificato che spesso nasconde una supercazzola costosa e poco riuscita.

Mette il sacchetto nel cubo e riparte, la consegna è a otto minuti di distanza. Otto preziosi minuti per dedicarsi al suo hobby preferito: immaginarsi il cliente. È un perfezionista, Genny Di Nola, ecco perché prova un leggero disappunto per aver cannato con Coda di Cavallo, che alla fine si è rivelato essere la sciura più dolce del mondo: adesso non può davvero permettersi di sbagliare l’identità del prossimo cliente.

Martedì sera, due hamburger gourmet, zona Buenos Aires. Potrebbe essere una coppia giovane e ricca che vive in una di quelle case arredate in stile industrial: disadorne, pochi pezzi di arredamento costosissimi, cucina ipertecnologica e inutilizzata.

Non ha tempo per formulare altre opzioni, è già arrivato. Citofona, voce maschile molto profonda. Terzo piano. Gli apre una donna sui trent’anni, jeans chiari, canotta e piedi nudi. Ha appena fatto una doccia, i capelli ancora bagnati. Fisico slanciato, occhi un po’ a mandorla, carnagione scura. Probabile genitore orientale.

Genny osserva ogni minimo dettaglio ed elabora le informazioni, come farebbe un esperto profiler sulla scena del crimine. Quando la ragazza apre del tutto la porta guarda dentro, ma con discrezione. Ha imparato da quella volta che un tizio in corso Magenta si è accorto che ficcava il naso e ha accostato un po’. La casa della ragazza fresca di doccia è un mega loft: vetro, acciaio e muri non rasati, tutto nei toni del grigio e del nero, una lampada Arco di Castiglioni, imponenti casse acustiche in marmo.

“Buonasera, signorina: ecco la sua cena.”

“Grazie. Arrivederci.”

Niente mancia. L’ultima cosa che vede prima che la porta si richiuda è il marito, o fidanzato, colui che presumibilmente gli ha risposto al citofono. Ha più o meno la stessa età della donna, è muscoloso e col cranio rasato, le braccia e il collo completamente tatuati. Sta accarezzando un chihuahua. A parte il cane, stavolta Genny ci ha preso su tutto: che soddisfazione!

Riparte immaginandosi la serata di quei due, il film che guarderanno, il nome del cane, e se guaisce con la testa inclinata quando fanno sesso. È fatto così: non smette mai di chiedersi come vivono le persone – cosa sentono, cosa pensano.