La scala che portava allo studio del dottor Reefy, nel caseggiato Heffner sopra il negozio «Tessuti di Parigi», era male illuminata. In cima alla scala era appesa una lampada dal tubo di vetro sporco, con un piatto riflettore, di latta, arrugginito e impolverato. Chi saliva la scala seguiva le orme dei molti altri piedi che già vi erano passati. Gli scalini di legno s’erano curvati sotto il peso dei passi, profondi incavi segnavano il percorso.
In cima alla scala, voltando a destra, ci si trovava di fronte alla porta del dottore. A sinistra c’era un corridoio buio, pieno di cianfrusaglie. Sedie rotte, cavalletti da falegname, scalette e casse vuote erano ammucchiate al buio in attesa di tibie da scorticare. Il mucchio di rottami apparteneva al negozio sottostante. Quando un banco o uno scaffale diventavano inutilizzabili, i commessi lo portavano su dalle scale e lo gettavano nel mucchio.
Lo studio del dottor Reefy era grande come un granaio. In mezzo alla stanza c’era una stufa dalla pancia rotonda. Intorno alla stufa era ammucchiata la segatura, circoscritta con alcune pesanti tavole inchiodate sul pavimento. Accanto alla porta c’era un grande tavolo che un tempo aveva fatto parte dell’arredamento della sartoria di Herrick, dove veniva usato per l’esposizione dei vestiti fatti in serie. Adesso era coperto di libri, bottiglie e strumenti chirurgici. Su un angolo del tavolo si trovavano tre o quattro mele lasciate da John Spaniard, un frutticoltore amico del dottor Reefy, che una volta lí, entrando, si era tolte quelle mele di tasca e le aveva posate sul tavolo.
Sulla quarantina, il dottor Reefy era alto e dinoccolato. Non aveva ancora la barba grigia, ma un paio di baffi scuri. Non era l’uomo di bell’aspetto, che invece divenne quando fu piú avanti negli anni, non sapeva come muovere le braccia e le gambe.
In certi pomeriggi d’estate, quando era già sposata da molto tempo e suo figlio George era un ragazzo di dodici o tredici anni, Elizabeth Willard saliva qualche volta gli scalini consumati dello studio del dottor Reefy. Già l’alta figura della donna aveva cominciato a incurvarsi, quasi a dissolversi. In teoria Elizabeth Willard andava dal dottore per motivi di salute, ma in realtà una buona metà delle sue visite non aveva con la salute nulla a che fare. Della salute parlava, col dottore; ma piú che altro parlavano della vita di lei, delle loro due esistenze e delle riflessioni che entrambi avevano fatto conducendo quella vita a Winesburg.
Nel grande studio vuoto l’uomo e la donna sedevano l’uno di fronte all’altra, guardandosi, e avevano parecchio in comune; dissimili erano i loro corpi, cosí come il colore degli occhi, la lunghezza del naso, le circostanze della loro esistenza; tuttavia qualcosa in tutti e due aveva il medesimo significato, cercava lo stesso abbandono, poteva produrre la medesima impressione su un osservatore. In seguito, quando, diventato vecchio, sposò una moglie giovane, il dottore le parlò spesso della donna malata e disse alcune cose che non era stato capace di dire a Elizabeth Willard. Da vecchio era diventato una specie di poeta e la sua opinione su quanto avveniva si esprimeva in forma poetica. – Ero arrivato al tempo della mia vita in cui la preghiera era necessaria, perciò inventai gli dèi e cominciai a pregare, – diceva, – le mie erano preghiere senza parole, e non mi mettevo in ginocchio, ma me ne stavo seduto nella mia poltrona. Sul tardo pomeriggio, quando Main Street era calda e tranquilla, o d’inverno nelle giornate grige, gli dèi venivano nel mio studio e io credevo che nessuno lo sapesse. Poi scoprii che quella donna, Elizabeth, lo sapeva, e adorava lei pure gli stessi dèi. Credo che venisse allo studio perché sapeva che c’erano gli dèi, ma era felice di non trovarsi sola. Fu una cosa che non si può spiegare, per quanto credo che sia sempre successo, agli uomini e alle donne in ogni sorta di luoghi.
Nei pomeriggi d’estate, quando Elizabeth e il dottore se ne stavano nello studio a parlare delle loro esistenze, parlavano anche di altre esistenze. Qualche volta il dottore enunciava paradossi filosofici, poi rideva soddisfatto. Di quando in quando, dopo un momento di silenzio, una parola, un accenno bastavano a illuminare stranamente la vita della persona che parlava; un desiderio diventava bramosia, un sogno quasi sopito folgorava improvviso nella vita. Per lo piú le parole erano dette dalla donna, che le pronunciava senza guardare l’uomo.
Ogni volta che veniva a far visita al dottore la moglie dell’albergatore parlava piú liberamente e, dopo aver trascorso una o due ore con lui, scendeva la scala e usciva in Main Street sentendosi rinnovata e piú forte contro il grigiore della sua vita. Camminava e si sentiva in corpo qualcosa che ricordava il vigore di una ragazza; ma quando era tornata in poltrona accanto alla finestra in camera sua, al buio, e dal ristorante dell’albergo saliva una ragazza a portarle la cena su un vassoio, lei la lasciava diventar fredda. Il pensiero le correva alla sua giovinezza, al suo intenso desiderio di avventura. Ricordava le braccia degli uomini che l’avevano stretta quando l’avventura era cosa possibile per lei. In particolare ricordava uno che era stato per un certo tempo il suo amante e che, al momento della passione, le aveva gridato piú di cento volte la stessa parola, follemente: – Cara! Cara! Cara! – Quella parola esprimeva qualcosa che lei avrebbe voluto ottenere nella vita.
Nella stanza del vecchio albergo la moglie malata dell’albergatore si metteva a piangere e coprendosi il volto con le mani si dimenava avanti e indietro. Le parole del suo unico amico, il dottor Reefy, le risuonavano all’orecchio. – L’amore è come un vento che muove l’erba sotto gli alberi in una notte scura, – le aveva detto. – Non bisogna cercare di definirlo. È la parte divina della vita. Se vogliamo saper tutto sull’amore e vivere sotto gli alberi dove soffia il vento dolce della notte, presto sopraggiunge la lunga giornata della delusione e la polvere dei carri che passano si posa sulle labbra che i baci avevano infiammato.
Elizabeth Willard non ricordava la madre, che era morta quando lei aveva cinque anni. Da ragazza, Elizabeth aveva vissuto nel modo piú fortunoso che si possa immaginare. Il padre era uno che voleva stare in pace, ma le cure dell’albergo non lo lasciavano in pace. Anche lui era malato. Ogni giorno si alzava con una faccia allegra, ma alle dieci di mattina tutta la gioia era già scomparsa dal suo cuore. Quando un cliente si lamentava del pranzo o una delle ragazze che rifacevano i letti si sposava e se ne andava, lui pestava il piede per terra e si metteva a imprecare. La sera, quando andava a letto, pensava alla figlia che si faceva grande in mezzo a tutto quel fiume di gente che frequentava l’albergo, e si sentiva oppresso dalla tristezza. Quando la ragazza, ormai grande, cominciò a uscir la sera con gli uomini, lui avrebbe voluto parlare, ma non vi riuscí mai. Dimenticava sempre quel che voleva dire e passava il tempo a lamentarsi dei suoi guai.
Da ragazza, e anche piú tardi, quand’era ormai donna, Elizabeth aveva cercato veramente di avere una vita avventurosa. A diciotto anni la vita l’aveva già tanto afferrata che lei non era piú vergine ma, per quanto avesse avuto una mezza dozzina di amanti prima di sposare Tom Willard, non si era mai cacciata in nessuna avventura sotto la sola spinta del desiderio. Come ogni donna al mondo, voleva un amante vero. C’era sempre qualcosa che lei cercava, ciecamente, appassionatamente: qualche meraviglia nascosta della vita. La bella ragazza alta e flessuosa, che usciva la sera con gli uomini e andava a spasso sotto gli alberi, tendeva sempre la mano nel buio cercando di afferrare un’altra mano. Nel balbettio di parole che si rovesciava dalle labbra degli uomini con i quali si avventurava, cercava la parola che sarebbe stata per lei quella vera.
Elizabeth sposò Tom Willard, impiegato nell’albergo del padre, perché se lo trovò a portata di mano quando prese la decisione di sposarsi. Per qualche tempo, come tante ragazze, pensò che il matrimonio avrebbe mutato il volto della sua esistenza. Se qualche dubbio le sorse in mente, sulla riuscita del matrimonio con Tom, lei lo mise da parte. Il padre era malato e stava per morire, in quell’epoca, ed Elizabeth era inquieta per il fatto che una storia in cui s’era trovata recentemente coinvolta era risultata priva di qualsiasi significato. A Winesburg altre ragazze della sua età sposavano uomini che avevano sempre conosciuto, commessi di negozio, giovani contadini. La sera passeggiavano per Main Street col marito e sorridevano felici. Elizabeth cominciò a pensare che il matrimonio poteva avere un significato nascosto. Le sposine che interrogava rispondevano timidamente. – È diverso quando hai un uomo tuo, – dicevano.
La sera prima del matrimonio, la ragazza ebbe un colloquio col padre. In seguito si domandò se erano state le ore trascorse da sola col padre malato a spingerla al matrimonio. Il padre parlava della propria vita e scongiurava la figlia che non si lasciasse affondare in un pantano come lui. Si mise a ingiuriare Tom Willard, e Elizabeth prese le difese dell’impiegato. Il malato andò in collera e tentò di scendere dal letto. Poiché lei non glielo permise, cominciò a lamentarsi. – Mai avrò pace, – disse. – Ho lavorato come un cane e non sono riuscito lo stesso a far andar bene l’albergo. Ancora adesso ho un debito con la banca. Lo troverai quando io me ne sarò andato.
La voce del malato si fece impaziente. Incapace di sollevarsi, tese la mano e attirò a sé il capo della ragazza. – C’è un modo, – mormorò. – Non sposare Tom Willard, non sposare nessuno di Winesburg. Ci sono ottocento dollari in una scatola di latta nel mio scrittoio. Prendili e vattene di qua.
Di nuovo la voce del malato diventò lamentosa. – Devi promettermelo, – disse. – Se non mi prometti di non sposarti, dammi la tua parola che non dirai mai niente a Tom di quel denaro. È mio e se te lo do ho il diritto di chiederti questo in cambio. Nascondilo. È per riparare con te il mio fallimento come padre. Un giorno potrà essere una porta, una grande porta aperta per te. Su, ti dico che sto per morire, fammi questa promessa.
Nello studio del dottor Reefy, Elizabeth era seduta in poltrona accanto alla stufa e guardava in terra. Davanti a una piccola scrivania accanto alla finestra stava seduto il dottore. Giocherellava con una matita fra le mani. Elizabeth parlava della propria esistenza di donna sposata. Si spersonalizzava e dimenticava il marito, usandolo soltanto come personaggio del suo racconto. – E poi mi sposai e niente andò bene, – disse con amarezza. – Appena mi ci trovai dentro ebbi paura. Forse ne sapevo già troppo e forse invece scopersi troppe cose la prima notte con lui. Non ricordo.
– Che stupida, ero. Quando papà mi diede il denaro e tentò di convincermi a non fare quel matrimonio io non gli diedi retta. Pensavo a quello che dicevano le ragazze che si erano sposate e anch’io volevo sposarmi. Non era Tom che volevo, era il matrimonio. Quando papà si addormentò io mi affacciai alla finestra e pensai alla vita che avevo fatto. Non volevo essere una cattiva donna. Il paese era pieno di pettegolezzi sul mio conto. Cominciai persino a temere che Tom cambiasse idea.
La voce della donna tremava per l’emozione. Il dottor Reefy, che senza accorgersene aveva incominciato a volerle bene, fu preso da una bizzarra allucinazione. Gli parve che il corpo della donna, mentre lei parlava, si trasformasse e diventasse piú giovane, piú eretto, piú forte. Poiché non riusciva a mandar via quell’allucinazione dalla mente, le diede un contenuto professionale. «Parlare le fa bene al fisico come allo spirito», mormorò fra sé.
La donna cominciò a raccontare un fatto accaduto pochi mesi dopo il matrimonio. La sua voce si era fatta piú ferma. – Un pomeriggio andai a fare una passeggiata da sola, – disse. – Avevo un calesse e un puledro grigio che tenevo nella scuderia di Moyer. Tom stava dipingendo e tappezzando le stanze dell’albergo. Aveva bisogno di denaro e io stavo per decidermi a dirgli degli ottocento dollari che mi aveva dato papà. Non potei farlo. Non gli volevo abbastanza bene, non mi piaceva! Aveva sempre le mani e la faccia sporche di pittura, in quei giorni, e puzzava di vernice. Stava cercando di sistemare l’albergo, di rimetterlo a nuovo e renderlo gradevole.
La donna emozionata si eresse sulla poltrona e fece un gesto rapido e quasi giovanile con la mano, mentre raccontava di quella passeggiata solitaria in un pomeriggio di primavera. – Il cielo era nuvolo e minacciava temporale, – disse. – Le nuvole nere facevano risaltare il verde degli alberi e dell’erba, tanto da farmi quasi male agli occhi. Andai per un miglio o due oltre Trunion Pike e poi svoltai per una strada laterale. Il cavallino saliva e scendeva veloce la strada della collina. Io mi sentivo nervosa. Mi venivano dei pensieri ai quali volevo sottrarmi. Cominciai a frustare il cavallo. Le nuvole nere si abbassarono e si mise a piovere. Volevo raggiungere una velocità tremenda, volevo scappare per sempre. Volevo uscire dal paese, dai miei vestiti, dal matrimonio, dal mio corpo, da tutto. Quasi ammazzai il cavallo, a furia di farlo correre e, quando non ne poté piú, saltai a terra e mi misi a correre nell’oscurità finché caddi e mi feci male al fianco. Volevo scappare da tutto, ma al tempo stesso correvo verso qualche cosa. Capite, mio caro, com’era?
Elizabeth si alzò dalla poltrona, di scatto, e cominciò a passeggiare su e giú per lo studio. Camminava come il dottor Reefy non aveva mai visto camminare nessuno. Tutto il corpo aveva un movimento ritmico e armonioso che ubriacava il dottore. Quando lei gli si avvicinò e si sedette sul pavimento accanto a lui, il dottore la prese fra le braccia e cominciò a baciarla con passione. – Piansi per tutta la strada del ritorno, – disse Elizabeth, e tentò di continuare il racconto della sua cavalcata selvaggia, ma lui non l’ascoltava. – Cara! Cara! Oh, cara! – mormorava e pensava di stringere fra le braccia non la donna stanca di quarantun anni ma una bella e innocente ragazza sbocciata miracolosamente dal corpo dell’ammalata.
Il dottor Reefy non rivide piú fino alla morte di lei la donna che aveva stretta fra le braccia. Quel pomeriggio d’estate, quando s’era trovato sul punto di diventarne l’amante, un incidente quasi grottesco aveva troncato bruscamente la sua storia d’amore. Mentre l’uomo e la donna erano stretti l’uno all’altro, si era udito un rumore di passi sulla scala dello studio. I due balzarono in piedi in ascolto, tremando. Il rumore sulle scale era fatto da un commesso del negozio sottostante. Con un gran colpo l’uomo gettò una cassa vuota sul mucchio dei rottami nel corridoio, e ridiscese pesantemente le scale. Elizabeth lo seguí quasi subito. Quello che era accaduto nella sua vita mentre parlava col suo unico amico terminò subito. Era fuori di sé, come pure il dottor Reefy, e non volle continuare il colloquio. Per la strada sentí il sangue bollirle nelle vene, ma quando svoltò in Main Street e vide le luci del Nuovo Albergo Willard, si mise a tremare e le ginocchia le vacillarono, tanto che fu per cadere a terra in mezzo alla strada.
La malata passò gli ultimi mesi della sua vita a desiderare la morte. Lungo la strada della morte s’inoltrò come in un bramoso inseguimento. Personificava la morte e se la figurava ora come un giovane dai capelli neri che correva su per le colline, ora come un uomo mite e tranquillo segnato dalla fatica di vivere. Dal letto, nel buio della stanza, tendeva la mano pensando che la morte come un essere vivente potesse tenderle la sua. – Abbi pazienza, amore, – mormorava. – Rimani giovane e bello e abbi pazienza.
La sera in cui il male le posò la mano pesante sul capo e le impedí di rivelare al figlio George il nascondiglio degli ottocento dollari, Elizabeth Willard si rotolò dal letto e strisciò per la stanza implorando dalla morte ancora un’ora di vita. – Aspetta, caro, aspetta! Il ragazzo, il ragazzo! – implorava, tentando con tutte le sue forze di divincolarsi dalle braccia dell’amante che tanto ardentemente aveva desiderato.
Elizabeth morí in un giorno di marzo dell’anno in cui George compiva diciott’anni, e il giovane non capí tutto il significato della sua morte. Solo col tempo gli sarebbe stato possibile. Da un mese la vedeva distesa a letto, pallida e silenziosa, e quel pomeriggio il dottore lo fermò nel corridoio e gli disse poche parole.
Il giovane entrò in camera sua e chiuse la porta. Provava una strana sensazione di vuoto allo stomaco. Per un po’ rimase seduto con lo sguardo fisso a terra, poi si alzò e andò a fare quattro passi. Passeggiò sotto la pensilina della stazione e per viuzze dietro la scuola, pensando quasi esclusivamente ai fatti suoi. L’idea della morte non gli riusciva chiara e il giovane era, in realtà, un po’ seccato che la madre fosse morta proprio quel giorno. Aveva appena ricevuto un biglietto da Helen White, la figlia del banchiere, in risposta a uno suo. «Stasera potevo vederla e invece dovrò rimandare», pensò quasi in collera.
Elizabeth morí un venerdí pomeriggio alle tre. La mattina era stata fredda e piovosa, ma nel pomeriggio uscí il sole. Prima di morire la donna era rimasta paralizzata per sei giorni, senza potere né muoversi né parlare, solo la mente e gli occhi in lei, erano ancora vivi. Per tre di quei sei giorni ella lottò, pensando al figlio, nel tentativo di dirgli alcune cose per il suo avvenire, e negli occhi aveva uno sguardo cosí commovente che quanti lo videro conservarono per anni il ricordo di quella donna moribonda. Persino Tom Willard, che ce l’aveva con la moglie, dimenticò ogni risentimento e dagli occhi gli scorsero lacrime che andarono a finirgli sui baffi. I baffi avevano cominciato a diventar grigi e Tom Willard se li tingeva. Nel preparato che usava a questo scopo era contenuta una parte di olio e le lacrime cadute sui baffi, asciugate da lui con la mano, formavano un bell’impasto vaporoso. Nel dolore il volto di Tom Willard sembrava il muso di un cagnolino perdutosi all’aperto in mezzo al temporale.
George ritornò per Main Street all’imbrunire, il giorno della morte della madre, e, dopo essere salito in camera sua a pettinarsi e a spazzolarsi il vestito, percorse il corridoio e giunse alla stanza dov’era il cadavere. Sul tavolino da toeletta accanto alla porta c’era una candela e su una sedia accanto al letto stava seduto il dottor Reefy. Il dottore si alzò e si mosse per uscire. Tese la mano come per accogliere il giovane e poi la ritrasse in modo goffo. L’atmosfera della stanza era appesantita dalla presenza dei due, ognuno dei quali pensava a se stesso, e l’uomo si affrettò a uscire.
Il figlio della donna morta si sedette e fissò il pavimento. Tornò a pensare ai casi suoi e decise di fare un cambiamento nella propria vita e di lasciare Winesburg. «Andrò in città. Magari troverò lavoro in qualche giornale», pensò, e il suo pensiero tornò alla ragazza con la quale avrebbe dovuto passare la sera e di nuovo egli si sentí quasi in collera con gli avvenimenti che gli impedivano di andare da lei.
Nella stanza fiocamente illuminata, col cadavere della donna, il giovane era assorto in pensieri. La sua mente giocava con i pensieri sulla vita come la mente della madre aveva giocato col pensiero della morte. Il ragazzo chiuse gli occhi e si figurò che le labbra giovani e rosse di Helen White toccassero le sue. Il suo corpo fu scosso da un tremito e le mani gli tremarono. Poi qualcosa accadde. Il ragazzo scattò in piedi e rimase immobile. Guardò la figura della donna morta sotto il lenzuolo e si vergognò dei pensieri che gli erano venuti, tanto che cominciò a piangere. Provò una sensazione nuova e si guardò intorno con un senso di colpa, come se avesse paura di essere stato visto.
Fu preso da un desiderio folle di sollevare il lenzuolo che copriva il corpo della madre e guardarla in volto. Il pensiero che lo aveva afferrato non lo abbandonava. Egli si convinceva che non sua madre ma qualcun altro si trovava in quel letto. Quest’idea gli si presentava con tale evidenza da riuscirgli intollerabile. Il corpo sotto il lenzuolo era lungo e sembrava, nella morte, giovane e grazioso. Per il ragazzo, preso da una inspiegabile fantasia, quel corpo era indicibilmente bello. La sensazione che quel corpo davanti a lui fosse vivo, e che da un momento all’altro potesse saltar fuori da quel letto una donna bellissima di fronte a lui, sopraffece il ragazzo tanto che egli non seppe piú restar calmo. Piú di una volta tese la mano. Una volta toccò il lenzuolo e fu sul punto di sollevarlo; ma si sentí mancare il coraggio e, come il dottor Reefy, si alzò e uscí. Nel corridoio si fermò tremando, tanto che dovette appoggiarsi al muro. «Non è la mamma. Non è la mamma là dentro», mormorò fra sé, e di nuovo si sentí sconvolto in tutto il corpo dalla paura e dall’incertezza. Quando zia Elizabeth Swift, venuta a vegliare la salma, uscí da una stanza vicina, George pose la sua mano fra quelle di lei e cominciò a singhiozzare scuotendo il capo, come cieco di dolore. – La mamma è morta, – disse, e, dimenticando la donna, si voltò a guardare la porta dalla quale era appena uscito. – Cara, cara, cara, oh cara, – mormorò il ragazzo, come spinto da una forza estranea a lui.
Quanto agli ottocento dollari, che la donna aveva tenuto nascosti per tanto tempo e che dovevano dare a George Willard la possibilità di partire per la città, rimasero dietro lo zoccolo della parete ai piedi del letto. Elizabeth li aveva messi lí una settimana dopo il matrimonio, rompendo l’intonaco con un bastone. Poi aveva fatto riparare il buco nel muro da uno degli operai che in quel periodo facevano lavori nell’albergo. – Vi ho urtato con lo spigolo del letto, – spiegò al marito. Non sapeva rinunciare al proprio sogno di libertà, quella libertà che ebbe due volte soltanto in vita sua, quando la Morte e il dottor Reefy la tennero come amanti fra le braccia.