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Di solito sull’autobus che mi riporta a casa non mi lascio sfiorare dei rumori che mi circondano e uso quel tempo per estraniarmi. Ma oggi è diverso.
Apro lo zaino e tiro fuori il diario. Ha una copertina liscia e lucida, la sfioro con le dita. Mi piacciono questi colori, questi disegni floreali color rosa e cioccolato. Ha una di quelle chiusure magnetiche a scatto che credo servano a tenerlo chiuso e privato, evitando anche che le pagine si rovinino. Dentro, i fogli sono bianchi, senza righe. La Signorina Fraser ha detto che non verrà a controllarlo, quindi se volessi potrei usarlo anche per disegnare.
Se volessi. Mi soffermo un momento su quella parola. Lo voglio davvero? Se mi metto a scrivere dei miei sentimenti, sarà un po’ come scrivere dei miei problemi, no? Non sarà pericoloso? E se poi mi venisse voglia di parlarne a qualcuno? E se poi quelle persone si arrabbiassero? E se poi se ne andassero? È solo un diario, mi dico. E un diario non può andarsene. Un diario non può decidere di chi essere amico. La cosa peggiore che potrebbe succedere con un diario è perdere la voglia di scriverci sopra, no? Voglio provarci, voglio dargli una possibilità.
Chiudo gli occhi e sfioro la carta. Le pagine sembrano vive, posso sentirle parlare attraverso le dita. E le mie dita vogliono che io scriva su queste pagine. Ora. Rovisto nello zaino in cerca di una penna, tolgo il cappuccio e la avvicino al foglio. Ma poi torno in me. No, devo fare questa cosa nel modo giusto, devo farla bene.
Rimetto il diario nello zaino e scendo dall’autobus alla mia fermata. Ora sto camminando bella spedita. Vedo l’auto di mamma nel nostro vialetto. È già a casa, ma non sono troppo preoccupata per ciò che dirà su quanto è successo oggi.
In realtà è piuttosto gentile. Forse anche troppo.
«Ciao. Sei a casa.»
«Ciao.» Ci guardiamo l’un l’altra, per un breve istante. Mi aspetto di trovare della rabbia, ma in realtà vedo soprattutto preoccupazione. Anche lei sta cercando qualcosa, forse sta cercando me.
«Hai fame? Ho preso alcuni cornetti alla pasticceria qui all’angolo.»
«Grazie. Mi piacciono molto.»
Mi sta ancora guardando. Dentro.
«Stai bene, dopo quello che è successo oggi?»
«Sì.» E lo penso davvero, non lo dico tanto per dire. «E...» Vorrei dirlo, ma non so come. «Mi dispiace. Per tutto. Sai...»
«Sì, lo so. Va tutto bene.» Poi distoglie lo sguardo. «Hai bisogno di qualcosa?»
«No. Sto bene.»
Con un cornetto in mano e lo zaino ancora sulle spalle, mi giro per andarmene in camera mia. Ma lei vuole aggiungere qualcosa.
«Sono orgogliosa per quello che hai fatto oggi.» Le sue parole sono secche e impacciate, non è abituata a dire certe cose. «Non per quello che è successo, ovviamente. Ma per la tua scelta, la scelta che hai fatto.»
Mi giro verso di lei. Il mio cuore sta battendo forte. «Grazie,» le dico. «Grazie, mamma.» Non so bene cosa fare ora, quindi le faccio un cenno verso la mia stanza. «Ti dispiace se...?»
«No, no. Vai pure. Ci vediamo dopo.»
Sorrido. Anche lei mi sorride, il mio cuore rallenta e diventa caldo. La saluto in modo goffo e me ne vado in camera, chiudendo la porta. Era questo il momento che aspettavo. Mi arrampico sulla mia poltrona, ma stavolta non sarà per estraniarmi e diventare invisibile.
Non voglio più lasciarmi trascinare via.
Questa è la nuova me.
Questa è Jazmine, che scrive sul suo diario.
Non sono ancora pronta per iniziare, però. Manca qualcosa. Scendo di nuovo dalla poltrona e mi metto a cercare nell’armadio qualcosa da mettere. Mi tolgo l’uniforme della scuola e mi infilo una maglietta e dei jeans, perché magari sono proprio i vestiti a trattenermi. Ma anche questo non sembra funzionare, mi sento ancora a disagio. C’è qualcosa nell’armadio che mi sta chiamando, e non so cosa sia. Mi guardo un po’ intorno. E poi la vedo.
È la scatola delle scarpe, proprio nell’angolo in fondo. È una vecchia scatola, la scatola delle mie prime scarpette da danza. Scarpe rosa. Quel tipo di scarpe che adori quando hai nove anni. Non tocco quella scatola da anni. Dentro ci sono cose che non voglio guardare, cose di mio padre, foto e altre cose del funerale. È incredibile che ce l’abbia ancora. Ogni volta che ci trasferiamo, la guardo a malapena e poi la ripongo nell’armadio per un altro momento.
Ma probabilmente è questo il momento, quel momento.
Prendo la scatola in mano, non ricordavo fosse così robusta. La tiro fuori dall’armadio con cautela e la appoggio sul letto, di fronte a me, accanto al diario. Poi sollevo il coperchio. E vedo la faccia di papà.
È incredibile come ora quelle foto sembrino così vecchie... Amavo molto la foto in cui lui mi teneva in braccio, ma ora quasi non mi riconosco. Ero molto piccola quando è morto ed è un vero colpo guardare il suo viso e rendermi conto di non ricordarlo realmente. Anzi, se qualcuno mi chiedesse di descriverlo, credo non riuscirei a farlo senza avere una sua fotografia davanti al naso. Potrei dire solo che aveva la barba. Ricordo la sensazione morbida e al tempo stesso anche un po’ ruvida di quella barba sulla mia faccia, quando mi dava il bacio della buona notte. E mi ricordo delle sue grandi mani contro le mie, quando giocavamo a metterle una sull’altra. «Hai delle dita davvero lunghe, Jaz. Potresti suonare la chitarra.» Ma io non ho mai toccato una chitarra.
Nella scatola c’è anche una foto di me e papà in vacanza, probabilmente scattata da mamma. Siamo seduti sulla spiaggia, con piedi e gambe coperte e le mani piene di sabbia. Abbiamo dei sorrisi così grandi che i denti ci toccano quasi le orecchie. Non ricordo l’ultima volta in cui ho sorriso a quel modo. E non ricordo affatto il giorno in cui abbiamo fatto quella fotografia. So che è successo perché quella foto esiste, ma non saprei raccontarne nulla. La maggior parte dei miei ricordi di mio padre sono mescolati, alla rinfusa o scomparsi.
Ovviamente, questa foto è stata fatta prima che succedesse tutto, prima che si ammalasse, che non venisse in vacanza. Perché all’epoca aveva smesso di sorridere e di certo non avrebbe voluto mettere le mani nella sabbia o fare delle fotografie.
Lui non era esattamente ammalato, anche se mamma mi ha sempre detto così. Aveva anche provato a spiegarmelo una volta, ma non avevo mai realmente capito cosa avesse. Non lo capisco fino in fondo nemmeno ora, anche se so qualcosa in più sulla depressione. Se sei depresso, dicono, ti senti sempre triste, o arrabbiato, o non riesci a fare le cose. Sei completamente senza energie.
Non so perché gli sia venuta la depressione. Non sembrava, almeno non a me, che avesse una brutta vita. Mi sono domandata spesso se era stato per qualcosa che avevo fatto io. Una volta l’avevo anche chiesto a mamma, lei mi aveva detto che no, quella era una sciocchezza, ma oggi ancora me lo domando.
L’anno in cui è successo, mamma gli aveva detto che la vita doveva andare avanti, che aveva una figlia, che quella figlia aveva bisogno di una vacanza, e che se lui si fosse rifiutato di partire lei mi avrebbe portata al mare lo stesso e senza di lui. Papà però era rimasto a Mudgee. Ricordo ancora la lite che avevano avuto prima della partenza. Non ricordo nulla di quei due giorni al mare, ma ricordo cosa accadde subito dopo.
Già, non lo scorderò mai... Come potrei dimenticare il giorno il cui il mio mondo è stato distrutto, in cui il cuore mi è andato in mille pezzi e tutta la mia vita è stata travolta da un tornado?
Quel giorno mamma mi aveva portata al mare, al nostro solito posto a Jervis Bay. Faceva molto caldo ed eravamo andate a fare il bagno in spiaggia. Poi eravamo rientrate al nostro appartamento, sporche di sale e di sabbia, e mamma aveva trovato moltissime chiamate perse sul suo telefono. Dodici. Tutte dallo stesso numero. Lei aveva provato a richiamare quel numero, mentre io andavo a lavarmi in bagno.
Prima di andare in spiaggia mi ero sfilata l’apparecchio acustico e lo avevo lasciato nell’appartamento, perciò non sentii mamma urlare. Uscii dal bagno e lei era già riversa a terra. Riusciva a malapena a parlare al telefono, e piangeva piangeva piangeva... Era così bagnata e spettinata, e il naso le colava. Mi spaventai. Le chiesi cos’era successo, cercai di abbracciarla e di farle girare la testa verso di me, ma lei continuava a mandarmi via ancora e ancora.
Allora ero corsa nella stanza da letto per cercare il mio apparecchio, per sentire cosa stava succedendo e capire qualcosa di più, ma doveva essere caduto sotto un cuscino o dietro il letto, perché non riuscii mai più a trovarlo.
Mamma continuava a piangere. Provava a fermarsi, ma poi crollava di nuovo. Io cercavo di asciugarle le lacrime, la abbracciavo e le dicevo «Va tutto bene, va tutto bene...» ma nulla sembrava calmarla. Alla fine, non sapendo più cosa fare, mi ero messa a sedere e l’avevo guardata arrancare lungo il pavimento fino in cucina, dove si era appoggiata alla panca e si era pulita il naso, la bocca e gli occhi.
Era rimasta lì seduta per un tempo che mi sembrò durare ore, prima di prendermi finalmente tra le sue braccia.
Jazzy, mi dispiace, mi disse nella lingua dei segni. Oggi il tuo papà è morto.
Per qualche motivo, io l’avevo già capito. Ma non riuscivo a piangere. Ero rimasta a sedere in silenzio, sconvolta e terrorizzata, sentendomi morire dentro, ma spingendo tutte quelle sensazioni giù nello stomaco, così che le lacrime non mi uscissero dal naso e dalla bocca e mi facessero diventare pazza. Mamma mi aveva accarezzata e aveva detto che ero una bambina coraggiosa, perché ero così calma e silenziosa e forte, perciò sono rimasta coraggiosa, calma, silenziosa e forte e ho continuato a mandare giù nel mio stomaco tutte quelle sensazioni.
Non mangiai per una settimana. Ancora oggi riesco a mangiare solo poche cose, e molto semplici. Il mio stomaco non sopporta più i cibi troppo pesanti.
Facemmo i bagagli, tornammo a casa e organizzammo un funerale negli stessi giorni in cui avremmo dovuto essere in vacanza. Poi, quando tutte quelle persone vestite di nero tornarono a casa loro, quando i fiori morirono e tutti i bigliettini che avevamo ricevuto furono messi in una busta di plastica e nascosti in fondo all’armadio di mamma, rimanemmo solo noi due. La ragazza sorda e la mamma triste.
Fu solo una settimana dopo il funerale che mamma si rese conto che non avevo più il mio apparecchio acustico e mi accompagnò a comprarne un altro. Era rosa, credo volesse farmi sorridere di nuovo. Ma non funzionò. Mi mancava, mio padre mi mancava terribilmente.
Continuavo a ricacciare tutti i miei sentimenti giù in fondo allo stomaco, ma divenne sempre più difficile. Mamma continuava a volersi trasferire ogni volta che aveva una discussione con qualcuno, continuava a dire che non dovevo fidarmi di nessuno, e io nel frattempo mi sentivo quasi esplodere, finché un giorno decisi che non avrei sentito più nulla. Ed è andata avanti così per quattro anni.
Ora voglio una fotografia di mio padre, su questo diario. Perché è stato per causa sua che ho smesso di provare sentimenti. E voglio che lui sia qui, quando ricomincerò a farlo.
Scelgo la fotografia delle vacanze, prendo la colla e la attacco con cura sulla prima pagina. Questa è per te papà, sussurro quasi senza fiato. Forse ora potrò lasciarmi aiutare.
Con la mia penna color argento, scrivo con attenzione sotto la fotografia il mio nome e la data.
Poi inizio a scrivere.
La penna ondeggia. Non riesco a respirare, ho paura di cosa potrebbe succedere. Ma continuo a scrivere su tutta la pagina. Quando ho finito, getto la penna dall’altra parte della stanza, va a sbattere contro la porta e poi finisce sul pavimento. Sbatto forte gli occhi, quasi senza fiato per lo sforzo. Ma sono intimamente felice. Ho fatto il primo passo.