Capitolo 6

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Sabato mattina mi sveglio presto. Mi sento diversa. Percepisco un’energia nella mia stanza che non avevo mai avvertito prima. I miei occhi si spostano verso la finestra. Forse quell’energia arriva dall’esterno, dal piccolo cortile sul retro.

Io e mamma viviamo in una vecchia casa piuttosto piccola e strana. È attaccata su un lato a un’altra casa, mentre dall’altro lato si può arrivare su quello che qualcuno potrebbe definire un giardino, ma che in realtà è davvero minuscolo e non merita neanche quel nome, dato che per la maggior parte si tratta di cemento sconnesso e accidentato. Mamma dice che le radici di un albero vicino sono cresciute sotto lo steccato e l’hanno sollevato.

Quando papà era ancora vivo, abitavamo a Mudgee in una casa di mattoni con la porta viola. Io adoravo quella porta. Un giorno, quando avevo solo quattro anni, papà aveva deciso di ridipingerla. Aveva detto che voleva qualcosa di diverso da quello che avevano le altre persone, perciò era andato a comprare la vernice viola e due pennelli e l’avevamo fatto insieme. Io ero riuscita ad arrivare solo fino a metà della porta perché ero troppo bassa, mentre lui si era occupato della parte superiore. Ricordo che a un certo punto avevo sollevato la testa per chiedergli una cosa e a lui erano inavvertitamente cadute alcune gocce di vernice sulla mia faccia. Io mi ero messa a ridere, ma poi più tardi non era stato affatto divertente in bagno, quando mamma mi aveva strofinato con forza le guance. Mi sembrava quasi che mi stesse grattando via la pelle.

Dopo la sua morte, mamma aveva litigato con nonna e noi ci eravamo trasferite in una nuova città e in un nuovo appartamento. Aveva una porta marrone, un tappeto marrone e delle mattonelle gialle e marroni sui muri del bagno. Mi veniva la nausea ogni volta che entravo in quel bagno.

Credo che anche mamma si sentisse allo stesso modo, perché la casa successiva era completamente nuova e aveva dei rubinetti luccicanti e il tappeto più morbido su cui fossi mai stata. Quando ci passavo sopra le mani mi sembrava quasi di accarezzare un cucciolo.

La terza casa somigliava di più alla casa di Mudgee, ma la porta era di un noioso color crema e aveva molti segni sulla parte inferiore, come se qualcuno le avesse dato dei calci per entrare. Anche la porta sul retro aveva dei graffi.

Quando mamma aveva visto quei segni, aveva detto che probabilmente gli inquilini prima di noi avevano un gatto. Non ricordo però come aveva spiegato quelli sull’altra porta.

La porta di quest’ultima casa invece è verde. Da qui si entra subito nel corridoio, la casa è buia e il tappeto ha dei terribili e antiquati motivi a vortice verdi e rossi, ma se sollevi gli occhi verso l’alto trovi un incredibile soffitto affrescato, ricoperto di disegni di viti e grappoli d’uva, fiori e piante. Ciò che lo rende ancora più incredibile, è che è dipinto con tanti colori diversi: rosa e arancio per i fiori, un vivace verde pisello per le foglie e una specie di marrone cacca per i rami.

Purtroppo una parte dell’intonaco si sta sgretolando. Infatti, l’unico motivo per cui mi sono accorta del soffitto è che ho trovato un pezzo di intonaco sul tappeto il giorno dopo che ci siamo trasferite lì. Mamma era andata a fare la spesa e io ero rimasta a casa da sola. Mi sono chinata a raccoglierlo e mi sono chiesta: da dove arriva questo?

Quando ho visto quel soffitto, la prima volta, ho sgranato gli occhi e sono rimasta a bocca aperta, poi mi sono buttata sul tappeto a guardarlo per quasi un’ora. Questo è un tappeto davvero vecchio, avevo gli occhi pieni di polvere e un leggero odore di muffa nel naso, ma non mi importava. I miei occhi correvano lungo i tralci delle viti, i vortici e le decorazioni, e io sentivo una sensazione di pienezza e soddisfazione nella pancia.

Quanto ci avevano messo per farlo? Mi ero immaginata un vecchio signore appollaiato per mesi su una scala, con una vaschetta di piccoli vasetti di colore, intento a decorare centimetro per centimetro ogni parte di quel disegno.

Potevo vedere anche la sua anziana moglie uscire dalla cucina per portargli una tazza di the. «Oh Harold, è bellissimo. Hai finito ormai?» «Quasi, Gloria. Quasi.»

Avevo immaginato che dopo, ogni volta che Harold aveva attraversato la sua porta verde per entrare in casa, i suoi occhi si fossero sollevati verso il soffitto e un sorriso di soddisfazione gli si fosse disegnato sul viso. Forse perché il giardino sul retro era così piccolo, dipingere quei tralci di vite e quei fiori sul soffitto era la versione di giardinaggio vista attraverso i suoi occhi...

Qui la stanza da letto di mamma si apre direttamente sul corridoio come un piccolo salotto. È lì che abbiamo la TV e da lì si va direttamente in cucina, anch’essa verde anche se di una tonalità più chiara. Ci sono un tavolo e delle sedie e mamma ha messo delle tende alla finestra sul lato, per impedire che i vicini possano guardare dentro.

In cucina c’è una porta che dà su una piccola lavanderia, che arriva a sua volta nel giardino sul retro. Accanto a quella porta, c’è anche la porta della mia stanza.

La mia stanza è la più piccola di tutta la casa. C’è a malapena lo spazio per il mio letto, un comodino e un armadio e, ovviamente, la mia poltrona. Nient’altro. Però è la più carina. La mia finestra è esposta al sole e se voglio posso guardare direttamente le gobbe di cemento e il pezzo di terra spelacchiata che l’agente immobiliare ha definito giardino. Il fatto è che di solito non ne ho molta voglia, non mi interessa proprio. Ma ieri sera ho finito di leggere il copione e stamattina, per qualche ragione, voglio farlo. Mi sento come se volessi interessarmene. Solo un po’, forse.

Sento la porta davanti sbattere. Mamma è uscita, lo fa sempre il sabato mattina. Va a fare una passeggiata e torna a casa mezz’ora dopo con il giornale e un po’ di latte per la colazione.

Mi muovo. Distendo i muscoli. Sento i miei piedi toccare il pavimento. Avverto lo scricchiolio del tappeto sotto i miei piedi nudi e poi la leggera pressione contro la mia pelle delle tavole verniciate del pavimento della cucina, il pavimento di cemento fresco e liscio della lavanderia e quindi il calore dei gradini di legno, scaldati dal primo sole, che portano verso l’esterno.

I miei alluci toccano il cemento e improvvisamente tutto il mio corpo diventa caldo. Alcuni giardini sono bui e freddi, ma questo è inondato dal sole anche quando non è estate. E dalla luce. C’è già un sacco di luce lì fuori, devo sfregarmi gli occhi e ripararli dal bagliore dei raggi che mi colpiscono il viso. Credo che oggi faccia ancora più caldo di ieri. Dal giardino dei vicini sento arrivare un odore misto di petrolio ed erba tagliata, probabilmente stamattina hanno tagliato il prato. Qui invece non c’è nessun prato da tagliare. Se mai c’è stato qualcosa di verde nel fazzoletto di terra marrone, sporco e polveroso accanto alle gobbe di cemento, è sparito già da tempo.

Con ancora il pigiama addosso, mi abbasso e infilo le dita in quella terra sporca. Una nuvola di polvere marrone circonda la mia mano per un attimo per poi tornare al suo posto. Uso le unghie per rompere con le dita quel duro strato di terra. I polpastrelli diventano marroni, sembra che mi abbiano preso le impronte digitali ma senza l’inchiostro blu.

Eppure deve esserci un altro modo per farlo. Mi guardo intorno, vedo una piccola porta sul muro esterno della casa. Ha un vecchio chiavistello, ma non c’è nessun lucchetto. Un po’ a fatica, lo tiro e lo apro tra la polvere, spalancando la porta per cercare un modo di arrivare sotto la casa. Volendo, uno potrebbe strisciare fino alla parte anteriore dell’edificio, anche se l’ultimo tratto è davvero angusto. Da questa parte, invece, è abbastanza alto per mettersi a sedere, ma tutto lo spazio è occupato da vecchi secchi di plastica, mattoni, lattine di pittura, pennelli e tutta una serie di oggetti sparsi e noiosi.

Non è di certo interessante come la porta che Mary aveva trovato nel Giardino Segreto, mi dico, ma dopotutto io vivo nel mondo reale, non in un romantico racconto di fantasia. Dubito che nel nostro quartiere ci siano dei giardini come quello, abbandonati e pieni di rose.

Sto quasi per tirare fuori la testa e richiudere la porta di quel buco nascosto sotto la casa quando improvvisamente vedo spuntare da sotto uno di quei secchi ciò che probabilmente stavo cercando: un vecchio manico di legno, coperto di vernice arancione sgretolata. Lo afferro e lo tiro fuori, è un attrezzo da giardino. Arrugginito, certo, e anche sporco, ma è comunque un attrezzo e potrebbe essere utile per scavare un po’ nella terra.

Torno alla mia posizione rannicchiata accanto a quella terra sporca e inizio a colpire con la punta la sua crosta dura. Mi ci vogliono almeno quattro o cinque colpi prima che inizino a formarsi delle crepe e che la terra si apra.

Continuo a colpire e affondare, sempre più duramente e con tutta la forza che ho nelle braccia. Mi sento come se stessi attaccando la terra. Colpisco una pietra, la libero con le mani e la getto in un angolo, poi torno a colpire e pugnalare la terra. Sotto alla punta di metallo dell’attrezzo, il terreno inizia ad aprirsi e a farsi più friabile.

Mi metto a sedere sul cemento e sposto l’attrezzo nella mia mano sinistra. La destra ha già i primi dolorosi segni di una vescica, ma non voglio fermarmi.

Ora sto scavando con un ritmo più regolare e sento la forza delle mie spalle opporsi a quella della terra, respiro più profondamente, lavoro più duramente e sento tutto: il dolore, la determinazione, la curiosità, la gioia, e persino la gloria. Sento come se una luce mi stesse riempiendo il petto, mi spingesse a sorridere e poi si irradiasse nelle mie gambe e nelle mie braccia. Mi ero sentita allo stesso modo, quando avevo dipinto la porta con papà. Davvero tantissimo tempo fa.

Quando ne ho abbastanza, getto a terra l’attrezzo e mi porto le braccia sopra la testa, sdraiandomi lì sopra al cemento del giardino sul retro.

Sopra di me il sole splende e le nuvole corrono più veloci che mai, ma forse è così solo perché il mio cuore sta battendo forte e io mi sento felice, allegra e soddisfatta. Respiro profondamente per un po’ e sento che il mondo inizia a girare intorno a me, poi tutto rallenta, le nuvole si diradano e anche la mia testa si schiarisce. Giro gli occhi e guardo realmente ciò che c’è intorno a me.

C’è uno steccato che circonda tutto il giardino, non l’avevo mai notato prima. È uno di quei vecchi recinti di pali dipinti, rovinato dal sole e dalla pioggia, pieno di crepe e davvero brutto. Mi alzo in piedi e vado a toccarlo con le dita. Faccio un passo indietro, metto le mani sui fianchi e mi sfrego gli occhi. Questo posto ha bisogno di colore. E so dove trovarlo.

Mi infilo di nuovo nella piccola porta sul fianco della casa e tiro fuori tre lattine di vernice. Hanno della ruggine sul coperchio, ma sembra che una contenga ancora qualcosa.

La raccolgo e la scuoto, all’interno sento del liquido muoversi e mi guardo intorno alla ricerca di qualcosa per aprirla. Provo con un rametto appuntito, ma si spezza. Corro quindi in cucina in cerca di un coltello. Il coperchio è appiccicoso e incastrato, devo usare tutta la mia forza per forzarlo più e più volte prima di riuscire ad afferrarlo saldamente con le dita, aprirlo e guardare dentro, trovando solo un deludente intruglio di poltiglia marrone e olio.

Sono così delusa, mi viene quasi da piangere. Non so cosa mi aspettassi di trovare, forse la vernice rosa avanzata dal soffitto di Harold. Col piede do un calcio alla lattina, si rovescia, ma il liquido all’interno è così denso che non esce nemmeno. Mi siedo davanti alla lattina e la guardo.

È una sensazione strana. Ieri non sapevo nemmeno di cosa fosse fatto lo steccato. Non sapevo nulla della porta sul fianco della casa. Non avrei mai pensato che mi sarei messa a fare del giardinaggio.

Eppure, oggi sono seduta qui, delusa, stanca e frustrata perché tutto d’un tratto vorrei sistemare questo posto. Vorrei farci crescere delle piante. Vorrei farlo diventare bello. Ma la terra è dura, la vernice è vecchia e intorno a me ci sono solo cose rotte.

Una vocina nella mia testa dice di rinunciare. Torna dentro. È troppo difficile, non ce la farai mai. Il mio corpo vorrebbe darle retta, probabilmente per abitudine. I miei muscoli non sono abituati a tutta questa fatica.

Ma nella mia testa c’è anche un’altra voce, che invece mi dice di andare avanti. Fatti aiutare. Puoi farcela. È a questa voce che sta dando retta il mio cervello. Io non voglio mollare, perciò spingo l’altra dove non devo più sentirla. E poi me ne vado a scrivere una lista della spesa.