Capitolo 20

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«No, vieni più da questa parte. Devi essere qui, non lì, e devi guardare da questo lato.»

È lunedì pomeriggio e sono Mary per la prima volta, sul palcoscenico. Ho di fronte Liam che sta recitando nella parte di Colin, il cugino viziato, infelice e malato di Mary, e il ragazzo che impersona Dickon.

Liam è seduto su una carrozzina. Stiamo provando la scena in cui Mary e Dickon accompagnano fuori Colin per farlo camminare per la prima volta nel giardino. Lui è un attore bravissimo, ho avuto la pelle d’oca tutto il pomeriggio a guardarlo mentre “prendeva vita” in quel giardino. La ragazza che ha dipinto con noi l’elefante, Sophie, ha preso il mio posto come suggeritore.

La Signorina Fraser mi sta guidando con le posizioni sul palco. Sembra un po’ tesa, ma non terrorizzata. Spero solo che non dia di matto quando sbaglierò qualcosa. Comunque mi sta dando un sacco di indicazioni, io sto cercando di ricordarle tutte e di fare ciò che mi dice.

Ho già avuto una vera e propria iniezione di fiducia da Gabby, che ha iniziato a saltare e gridare appena le ho raccontato la novità.

«Che figata, Jaz!» Me l’avrà ripetuto mille volte. «Che figata, che figata!» Durante l’ora di matematica mi ha anche mandato un bigliettino. «Sarai una bravissima Mary!! Sarai fantastica!! Stupenda! Verrò a vederti, mi metterò in prima fila e farò il tifo per te!» Mi sono sentita felice e rassicurata, quando l’ho letto.

Fino ad ora, non è stato troppo spaventoso. Anche se il mio cuore sta battendo forte, ad ogni battuta mi sento un po’ più sicura e contenta. E poi recitare è bellissimo. Non riesco a credere di non averlo mai voluto fare prima d’ora.

«Ok, la scena va bene così.» La Signorina Fraser chiama gli altri. «Ragazzi, prendetevi una piccola pausa. C’è la Signora Horrocks, ne approfitto per controllare i costumi di Jazmine. Jazmine, vieni dietro le quinte con me, per favore.»

Il percorso lungo il corridoio fino alla stanza dei costumi è piuttosto lungo. La Signora Horrocks è una delle mamme che si stanno occupando dei costumi. Mi sta aspettando con degli spilli tra le labbra e un metro da sarta intorno al collo. Quando mi vede, scorgo un’espressione di sollievo sul suo viso.

«Ah, bene! Almeno è della stessa taglia!» Mi lancia un vestito.

«Ecco, cara. Iniziamo con questo.»

È un vestito semplice e fuori moda. Marrone, noioso e rigido. Proprio come dovrebbe essere l’aspetto di Mary all’inizio: insignificante, noioso e triste. Ha perso i suoi genitori, ha cambiato paese e si è ritrovata in una casa grande e spaventosa. Non sa fare nulla, non ha interessi e tutti la ignorano o la odiano. Ha davvero un brutto inizio questa storia.

La Signora Horrocks si agita intorno a me, tirando la vita del vestito e mettendo qualche spillo. Trattengo il fiato, non vorrei che mi infilzasse inavvertitamente.

«Non male. Nulla che non si possa sistemare con tre punti. Gli altri costumi?»

«Ci sarebbe il sari indiano, ma quello le andrà bene di sicuro, non è un problema...»

«Credo dovremmo controllare anche il copricapo. L’avevamo fatto in modo che si adattasse perfettamente alla testa di Angela, e devo dire che lei aveva una testa piuttosto grossa. Potrebbe scivolare, è piuttosto pesante. Se la testa di Jazmine è più piccola, dovremo metterci un po’ di imbottitura.»

Trattengo una risatina al pensiero di Angela e della sua grossa testa.

«Ecco qua,» dice la Signorina Fraser, tirando fuori il copricapo dall’armadio. «Spero tu non abbia molto più cervello di Angela, perché se no siamo nei guai.»

Sorrido. «Non ho mai pensato alle dimensioni della mia testa prima d’ora. Ho sempre messo dei cappelli normalissimi.»

Mi porta il copricapo e me lo provo di fronte allo specchio. È pesante, ma non eccessivo. Una specie di peso solenne. Ma mentre mi giro per farlo vedere alla Signora Horrocks e alla Signorina Fraser, lo sento scivolare sulla mia testa. Faccio qualche passo per raddrizzarmi e provo di nuovo.

La Signorina Fraser mi sta guardando con la testa inclinata di lato. «Dovrebbe bastare solo un po’ di imbottitura sui lati.» Va a prendere in un armadio un pezzo di materiale spesso.

«Proviamo così.» Ritaglia una striscia e la infila nella parte interna.

Provo di nuovo a camminare, e stavolta non si muove. Camminare con questo sulla testa richiede un po’ di pratica. Mi rendo conto che per portarlo nel modo giusto devo stare molto dritta e avere un portamento che di solito non ho.

«Mi sento una persona diversa.» Parlo piano, non voglio che la Signorina Fraser mi senta. C’è un’altra ragazza che mi guarda dallo specchio, una ragazza sicura di sé. Una ragazza che non sono mai stata.

«È una cosa speciale, vero?» mi dice la Signorina Fraser vicino a un orecchio. «In questa scena si vuole mettere in luce la persona che Mary potrebbe essere. Non la ragazzina capricciosa che si chiude nella sua stanza e piange perché vorrebbe essere da un’altra parte. In questa scena lei in un certo senso capisce il suo potenziale, che può fare qualcosa di buono per gli altri, e non solo pensare a se stessa.»

«È fantastico. Ed è ancora più fantastico che mi entri.»

La Signorina Fraser scoppia a ridere. «Bene. La ringrazio molto, Signora Horrocks. Questo lo lasciamo alle sue mani. Metti via il copricapo, Jazmine. Torniamo sul palco, abbiamo ancora molto lavoro da fare. Dobbiamo provare di nuovo la terza scena.»

Cammino accanto alla Signorina Fraser. Ha un passo molto deciso, sento i suoi tacchi scandire la sua andatura molto risoluta. I miei passi sono più casuali, irregolari. Mi sforzo volontariamente di adeguarmi al suo ritmo.

«Signorina Fraser...» Sono un po’ riluttante, ma so che devo dire qualcosa. «Ehm, Signorina Fraser?»

È distratta, lo intuisco, ma vedo che si sforza di riportare l’attenzione su di me. «Sì, Jazmine? Che succede?»

«Io... ecco, volevo solo ringraziarla.» Mi sento un po’ a disagio. Ma poi lei si gira verso di me, mi sorride, e capisco che va tutto bene. «Voglio dire... per la parte, per avermi dato il ruolo di Mary, e per tutto il resto. Non era obbligata a farlo.»

La Signorina Fraser fa quella cosa che fanno sempre gli adulti quando ridono in silenzio prima di rispondere, come quando trovano qualcosa di buffo in ciò che hai appena detto ma non vogliono dirti di che si tratta. I suoi occhi scintillano.

«Certo, non ero obbligata a farlo. Ma volevo farlo.»

Non so che dire. Mi sento contenta, ma anche in imbarazzo. Perciò abbasso leggermente la testa. Stiamo ancora camminando allo stesso ritmo.

«Posso farle una domanda?» le chiedo con prudenza.

«Certo.»

«Quando mi ha dato il diario, mi ha detto che un giorno, quando era più giovane, qualcuno le ha dato un’opportunità.» Sono nervosa. Forse è una domanda maleducata, ma è una cosa che vorrei davvero sapere.

«Di cosa si trattava? Cosa le era successo?»

Lei si ferma e storce la bocca. Forse la mia domanda l’ha offesa. Resto in silenzio e mi faccio piccola piccola, aspettando che mi dica di farmi i fatti miei. Ci pensa per qualche secondo e poi inspira profondamente.

«Ero una ragazzina che si metteva spesso nei guai per le ragioni più disparate.» Si gira verso di me. «Mio padre non c’era quasi mai, e quando c’era non era affatto un buon padre. Mia madre era depressa e non aveva molto tempo da dedicarmi. A 13 anni, ho iniziato a rubare. A scuola andavo in cerca del portafoglio delle persone e rubavo tutto ciò che trovavo. A un certo punto ero arrivata a rubare almeno un paio di volte a settimana.»

Continua. «Avevo una vicina, una signora anziana molto buffa, con un giardino fantastico. Credo che facesse solo due cose nella sua vita: curare quel giardino e andare in chiesa. Era sempre molto gentile con me. Ad esempio mi regalava sempre dei dolci, quando li preparava.» Sgrana gli occhi. «Erano davvero deliziosi.»

Si ferma solo per un secondo, quasi riluttante, come se non sapesse se proseguire il suo racconto. Ma poi si decide a farlo e si butta, in un unico grande sospiro.

«Comunque... Una domenica ho deciso che mi servivano altri soldi. Mia madre era a letto e teneva sempre la sua borsetta nella sua stanza, quindi non potevo andare a cercarli nel suo portafoglio. A quel punto, ho pensato che in fondo non sarebbe stato troppo difficile intrufolarmi nella casa della mia vicina attraverso la porta sul lato, mentre lei era occupata in giardino.»

La Signorina Fraser mi osserva, cercando di capire se il suo racconto mi sta scioccando. Un po’ sì, in effetti, ma cerco di non darlo a vedere.

«Quindi, sono entrata. Ho guardato in cucina ma non ho trovato soldi. Allora sono andata in camera da letto. C’era il suo borsellino, sul comodino. L’ho preso in mano e mi sono messa un biglietto da dieci dollari in tasca, e proprio in quel momento è entrato qualcuno. Non mi ero resa conto che suo figlio era venuto a trovarla, quel giorno. E mi ha colta sul fatto.»

Ho spalancato completamente gli occhi. «Quindi cos’ha fatto?»

Alza le spalle. «Non potevo certo negare, giusto? Lui ha subito chiamato sua madre, che è arrivata e mi ha trovata lì, più colpevole che mai, con ancora i soldi in mano. Mi sono sentita piccolissima. Lui ha detto qualcosa come “Guarda mamma, l’ho trovata a rubare dal tuo portafoglio”. Ero sicura che avrebbe chiamato la polizia, si sarebbe messa a urlare o avrebbe telefonato a mia madre. Qualcosa del genere. Ma non fece nulla di tutto questo.»

La guardo, sorpresa. «Davvero? Wow...»

«Sì. È stato incredibile. Mi ha guardata, sapevo che aveva capito cosa stava succedendo, che ero andata lì di proposito per rubarle quei soldi. Ma poi si è girata verso suo figlio e gli ha detto qualcosa che non dimenticherò mai. “Va tutto bene, caro. Sono stata io a chiederle di andarmi a comprare un po’ di latte. Solo un litro, tesoro. E intero, non una di quelle cose scremate senza senso o mezza via”. Mi ha fatto un sorriso enorme e poi mi ha detto: “D’ora in poi prenderemo il the insieme, vero? Ogni settimana, fino a fine anno. Abbiamo deciso così”. E mi ha fatto l’occhiolino.»

«Ma voi non avevate affatto quell’accordo, vero?» Credo di essere un po’ confusa.

«No, certo che no. Mi stava praticamente dicendo che mi avrebbe perdonata per averla derubata, e che mi avrebbe aiutata a rimettere la mia vita sui binari giusti.»

«Poi c’è andata davvero a prendere il the con lei?»

«Sì, l’ho fatto.» La signorina Fraser annuisce. E mi sorride. «Quella signora anziana così buffa si è rivelata una persona straordinaria. Sono andata a prendere il the da lei ogni settimana, per quattro anni, e l’ho aiutata col giardino. Ho strappato le erbacce, piantato fiori, e tolto le teste morte.» Mi guarda, percependo la mia confusione.

«Le teste morte sono i fiori morti di un cespuglio. Rubano alla pianta le energie che dovrebbe dedicare ai fiori nuovi e sono piuttosto brutti, perciò è meglio rimuoverli.»

Annuisco, perplessa. Lei continua. «Comunque, molte volte, mentre eravamo in giardino a lavorare, lei mi parlava. Non di qualcosa in particolare, mi parlava in generale. E questo mi ha aiutata moltissimo. Ho smesso di rubare e mi sono concentrata sulla scuola, che senza di lei probabilmente non avrei mai finito.»

«Ah. La vede ancora?»

Alza di nuovo le spalle. «Ci siamo perse di vista quando io e mia madre ci siamo trasferite. Avevo 17 anni. Sette o otto anni fa, però, sono andata a cercarla.»

Il suo viso si è improvvisamente acceso. «Non riuscivo a crederci. Aveva 96 anni e ancora lavorava nel suo giardino. E quando è morta, al suo funerale c’erano oltre 350 persone. La chiesa era stracolma e anche fuori c’era tantissima gente. Non sono riuscita a sedermi.» Fa ancora una smorfia con la bocca, come se stesse pensando.

«È una bella storia.» Non so bene cosa dire. «Grazie per avermela raccontata.»

«Grazie per avermelo chiesto.» Si fa silenziosa per qualche secondo. Sembra più giovane e in un certo senso più fragile, per un breve istante. Poi inspira, assume una posizione più dritta e si aggiusta la giacca. «Ma ormai questa è una vecchia storia.» Aggrotta la fronte e fa schioccare le dita. «Forza, forza! Abbiamo uno spettacolo da preparare!»