Capitolo 25

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Ho perso l’autobus, ma non mi importa. Mi incammino verso casa a piedi. Le mie gambe si muovono automaticamente, respiro affannosamente e pesto con forza il marciapiede, tenendo gli occhi bassi.

Shalini ha vinto. Credevo di potere essere abbastanza forte per oppormi a lei e continuare ad essere la persona in cui credevo di essermi trasformata, ma mi sbagliavo. Io non sono forte. Tutto ciò che ha detto è vero. Sono un mostro, uno scherzo della natura, e mio padre si è ucciso.

Il solo pensiero mi dà la nausea, ma so che è vero. Ora tutto ha più senso. Il fatto che nessuno ne parli più, il modo in cui è morto, tutto ciò che è successo in quel periodo. Il fatto che mamma abbia deciso di andarsene da Mudgee subito dopo, mentre la maggior parte delle persone, dopo un lutto, di solito preferisce rimanere con i propri amici e con le proprie famiglie. Il fatto che solo poche settimane fa mamma mi abbia detto di non avermi raccontato tutto.

Sento che sto per svenire. Mi siedo su un prato per qualche minuto, con la testa tra le ginocchia. Sto tremando e ho dei conati di vomito. Le mie dita sembrano muoversi da sole. Non riesco a stare ferma, ma l’unica cosa che vorrei fare è dormire. Andare a letto e non svegliarmi mai più.

Mi rialzo perché mi accorgo che c’è un’altra fermata dell’autobus a due isolati. Cammino come uno zombie. Probabilmente le altre persone mi stanno guardando, stanno parlando di me e stanno dicendo che sono strana. Ma cosa le sarà successo?

Riesco ad arrivare fino alla fermata e praticamente collasso. Una donna grassa sulla quarantina sposta il suo sedere verso l’altra estremità della panchina, si sente a disagio vicino a me. Vorrei quasi mostrarle i denti e urlare: «Vattene pure, non mi interessa. Nessuno mi vuole bene, vi odio tutti!»

Il dolore è insopportabile, ancora non riesco a respirare. Non per la corsa, ma perché mi sento come se mi avessero strappato via il cuore, ci avessero camminato sopra degli elefanti in tacchi a spillo e poi l’avessero rimesso insieme come fosse plastilina, infilandomelo di nuovo nel petto.

Quando finalmente arriva l’autobus, va troppo lentamente. Io voglio solo volare via velocemente da tutto ciò che successo. Voglio andare via da me stessa, lasciare ciò che sono e ricominciare di nuovo.

Sento il caos dentro il mio corpo, ma allo stesso tempo ne sono anche distaccata. Posso quasi vedere me stessa mentre mi agito, mi sposto, mi guardo intorno. Credo di essere sotto shock. Non so cosa fare. I pensieri nella mia testa stanno vorticando e alla fine mi perdo la mia fermata, perciò schiaccio il pulsante di richiesta tre isolati più avanti e devo tornare a casa correndo nella direzione opposta.

Non conosco queste strade, questi giardini e questi vialetti. Inciampo più volte, correndo quasi alla cieca. Quando arrivo a casa, sono esausta.

L’auto non è nel vialetto. Bene, significa che mamma non è ancora tornata. Non voglio vederla. Cosa potremmo dirci, ora? Mi aveva detto che sarebbe uscita dal lavoro in anticipo, per aiutare a prepararmi per lo spettacolo. Non so come farò a dirle che non ci sarà più nessuno spettacolo. Forse non glielo dirò affatto. Lei è brava in questo gioco, no? A non dire agli altri la verità.

Spingo la porta ed entro. Mi blocco a metà del corridoio e, rapidamente, mi tolgo l’apparecchio acustico e lo butto a terra insieme allo zaino.

Devo uscire nel mio giardino. Corro dall’altra parte della casa, afferro alla cieca le maniglie e supero tutte le porte. Gli scalini sul retro sono freddi, li scendo ancora prima di rendermene conto. Mi pulisco le lacrime dagli occhi e mi inginocchio accanto al giardino.

E urlo.

Silenziosamente, all’inizio. Poi con tutta la voce, con grandi gemiti e pianti soffocati. Sono come un animale in fin di vita in uno di quegli spot della protezione animali che fai fatica a guardare fino alla fine.

Urlo perché tutte le mie piante sono morte.

È stato il freddo. Io non me ne sono accorta. E ora tutto ciò che era bello e verde è diventato grigio, molliccio e pieno di fango.

È un dolore troppo grande. Non posso restare lì fuori, ma non voglio muovermi e resto immobile al freddo per alcuni minuti, poi striscio come un bambino sulle mani e le ginocchia fino in casa, nella mia stanza, davanti al mio comodino, dove è posato il mio diario. So che devo distruggerlo. Sono così arrabbiata... Arrabbiata con me stessa, arrabbiata con mio padre, arrabbiata con Shalini e ora arrabbiata anche col giardino perché è morto. E il diario è il posto in cui tutte queste cose si sono incontrate, si sono mischiate e mi hanno fatta cambiare.

Prendo il diario e con un urlo che prorompe dal mio petto inizio a strapparlo e farlo a pezzi.

Strappo una pagina dopo l’altra. Poi faccio a pezzi ogni pagina fino a che non riesco a leggere più nulla.

Mi fanno male le mani. La carta è resistente, quando si mettono insieme più fogli.

Anche la fotografia di mio padre finisce con il mucchio di carta sul mio letto. Sono furiosa.

Distruggere le parole che ho scritto mi sembra una via di fuga.

Quando le mie dita sono sfinite e il mio diario è a terra distrutto, in mille pezzi, mi butto sulla mia poltrona. Resto completamente in silenzio, per la prima volta in quelle che mi sono sembrate ore.

Però, non piango. Le lacrime si sono placate e grazie al gentile dondolio della poltrona il mio corpo rallenta la respirazione e i miei muscoli si rilassano. Chiudo gli occhi e fingo di non esistere. Sto diventando invisibile. Nessuno può vedermi, nessuno può sentirmi, nulla mi tocca e resto in silenzio. È incredibile come possa tornare così velocemente a questo stato. È bellissimo, perché tutte le sensazioni orribili e tutto quel caos tremendo sono svaniti. Non devo più sentire nulla.

Resto lì seduta da sola per forse 20 minuti, invisibile. Sto bene. Mi dico che non c’è nulla che conti davvero, che non mi importa e che non devo fare nulla.

E poi mia madre entra.

Sento le vibrazioni dei suoi passi sulle tavole del pavimento nel corridoio prima di avvertire il rumore attutito della porta della mia stanza che si apre. Mi arriva una folata d’aria in faccia e apro gli occhi. Vedo che mi sta dicendo qualcosa, ma non posso sentirla. Vedo il suo viso felice e eccitato cedere alla sorpresa, alla preoccupazione e infine allo shock assoluto, quando vede i pezzi di carta sparsi sul mio letto.

Prova di nuovo a parlare, ma ancora non riesco a distinguere le parole. Si avvicina al mio letto per sfiorare il diario distrutto. Si guarda intorno, un po’ impaurita, per poi venire verso di me e guardarmi in faccia.

Sono immobile, quasi alienata. Non sento nulla. Ogni mia reazione è rallentata. Sono come in un brutto sogno, intrappolata in uno spazio di suoni attutiti all’interno della mia stessa testa.

Mi tocca una spalla e mi guarda dritta in faccia. Vedo la sua bocca pronunciare il mio nome, una volta, due volte, e poi un’altra ancora, quasi urlando. Alla fine si rende conto che non riesco a sentirla, perciò lo ripete nella lingua dei segni.

Jazmine, cosa succede? Di che si tratta?

«Non so... è tutto finito... non c’è più nulla.» Mi stringo nelle spalle, impotente. Ho le mani abbandonate in grembo.

Cos’è successo al tuo apparecchio acustico? Dov’è?

L’ho tolto, le dico in Auslan. Non serve a niente. È tutto finito.

Vedo mia madre guardarsi intorno nella stanza, alla ricerca dell’apparecchio. Va in cucina e poi nel corridoio, torna con il mio zaino, cercando al suo interno all’impazzata.

«Mettilo!» mi dice, porgendomelo. «Così almeno puoi dirmi cosa è successo.»

Ci gioco un po’, lo infilo e lo accendo. Mamma si siede pesantemente sul letto.

«Per favore, Jazmine. Dall’inizio. Cosa succede? Liam ha fatto qualcosa che ti ha turbata?»

«Non posso dirtelo... è una cosa troppo grossa...» Rimanere lì seduta è il massimo che posso fare. Non riesco a spiegare ciò che è successo. Mi sento come se qualcuno mi avesse infilato giù per la gola una pallina da ping-pong che ora non posso tirare via. Parlare mi sembra una cosa impossibile.

Poi d’un tratto e senza alcun preavviso un moto di disperazione risale il mio corpo e mi ritrovo a soffocare, singhiozzare e piangere. I singhiozzi mi escono dalla bocca come enormi eruzioni. E sto piangendo con tutto il corpo, non solo con gli occhi. Il mio cuore è immerso in così tanto dolore che mi sento quasi bruciare. Mi fa male lo stomaco e ho i muscoli indolenziti. Non ho mai pianto così prima d’ora.

Mamma mi afferra prima che possa cadere dalla poltrona. Mi sostiene, cullandomi nelle sue braccia e lisciandomi i capelli. Le lacrime continuano a scendere e scendere. Non vogliono fermarsi. Anche quando i singhiozzi cessano e mi sembra di riuscire a respirare di nuovo, una nuova ondata di lacrime inizia a scendermi dagli occhi. È tutto bagnato, la mia maglietta, il letto e persino i capelli di mamma. Mi accorgo, con disgusto, che mi esce del muco dal naso, ma non riesco a pulirmi abbastanza velocemente. Tutta la mia faccia sta colando.

Piango per quella che deve essere una mezz’ora buona prima che le lacrime si asciughino e io possa tornare in me stessa.

«Mi dispiace, mamma. Guarda, sei tutta bagnata!» Parlare, anche solo per quelle poche parole, mi stanca. Il mio viso è completamente esausto. Non sapevo che piangere potesse essere così sfiancante.

«Non devi scusarti, tesoro.» Guarda un po’ smarrita la sua camicetta. «Anche se dovrò cambiarmi.»

Toglie le braccia da dietro le mie spalle e cambia posizione, così può guardarmi in faccia.

«Jaz, sei sconvolta. Credo che parlarne ti farebbe bene.»

In un secondo, la mia rabbia riaffiora. «Sei proprio sicura di volerne parlare?» Le mie parole sono feroci, affilate e taglienti.

«Certo!» mi dice, confusa. «Sono la tua mamma...»

«Ok. Allora parliamone.» Guardo altrove. «Quindi... mamma...» Metto un sacco di enfasi su questa parola. «Perché non mi hai mai detto che papà si è suicidato?»

Mamma ha un’espressione come se l’avessi colpita dritta in faccia. È pallida e sotto shock. Quasi non respira. Per qualche secondo, non riesce a dire nulla.

«Chi te l’ha detto?» Alla fine riesce a parlare. La sua voce sembra distorta.

«Poco importa, ora.» Anche la mia voce è esitante. «Voglio solo sapere perché non me lo hai mai detto. È una cosa importante, non credi? O era solo un’altra versione del non dire nulla a nessuno?»

Mamma si copre il viso con le mani. Sembra sia quasi spaventata da me.

«Non posso credere che tu l’abbia fatto. Non posso credere che tu mi abbia detto che è morto per un attacco di cuore, senza spiegarmi le vere ragioni. Senza dirmi cosa è accaduto realmente.» Il volume della mia voce si sta alzando, sto quasi urlando. «Ora ha tutto molto più senso. Nessuno vuole mai parlare di papà. Fingono tutti che in qualche modo non sia mai esistito o che, non so, sia andato a fare qualcosa da qualche altra parte.»

«Ma lui è mio padre!» Mi sono alzata e sto pestando i piedi ad ogni parola. «Ho tutto il diritto di sapere cos’è successo. Non è una cosa solo degli adulti. Devi dirmi cosa è successo! Devi!»

Torno a sedermi. Sono esausta. Abbasso la testa e mi guardo le mani. «Ti prego, mamma, mi puoi dire cosa è successo?»

Mia madre è ancora seduta, immobile, sul letto. Non l’ho mai vista così afflitta. Apre la bocca, ma non esce nulla. Si alza, severamente, si gira velocemente e corre fuori dalla mia stanza. Sento i tonfi dei suoi piedi sul pavimento mentre corre in bagno. Poi la sento vomitare, sento una pausa e lo sciacquone che viene azionato.

Non posso andare da lei. Non posso farla stare meglio. Non posso fare stare meglio nemmeno me stessa. Mi sento arrabbiata, triste, imbarazzata, turbata, dispiaciuta, ferita, addolorata e disperata, tutto insieme.

Soprattutto, mi sento sconfitta.

Prendo tra le mani ciò che rimane del mio diario. Tutte le pagine che ho scritto sono ora sparse in piccoli pezzi nella mia stanza, ma sul fondo c’è un blocco di pagine bianche che non ho strappato via. Liscio con le mani i bordi spiegazzati della prima pagina e trovo una penna tra le cianfrusaglie della scuola che mamma ha tirato fuori dal mio zaino. Tolgo il cappuccio e scrivo sulla pagina.

Non è rimasto nulla.

Ho perso tutto. E fuori, i miei fiori congelati si sono afflosciati a terra.