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Il mio orologio segna le 16:48. Tra dodici minuti la Signorina Fraser aprirà il teatro per il cast e gli assistenti de Il Giardino Segreto che devono prepararsi per il debutto.
Io sono ancora seduta sulla mia poltrona con la faccia segnata dalle lacrime, a casa. Io non ci sarò. Ormai, tutti avranno saputo che sono stata io a distruggere il copricapo dello spettacolo. Avranno chiamato il preside. E lunedì sarò sospesa o espulsa da scuola.
Sono seduta e guardo i secondi scorrere. Mamma non è ancora tornata. Non so nemmeno se è ancora in casa. Non so se saremo di nuovo in grado di parlarci.
Forse dovremmo tornare come quando parlavamo solo di cose come i cereali della colazione e i lacci per i capelli. Forse vivremo il resto delle nostre vite cercando di essere gentili e fingendo l’una con l’altra.
Otto minuti.
Forse starò di nuovo bene, così. Sì, è stato fantastico stare sul palcoscenico, essere vista e persino accettata dalle altre persone. Ma forse questo non è il mio posto. Forse il mio destino è quello di rimanere per sempre all’esterno a guardare verso l’interno. Forse, in qualche modo, potrà bastarmi questo per essere felice.
Forse continuerò a tenere un diario, ma in un modo diverso. Non scriverò a papà, magari scriverò a me stessa, o al diario. Qualche pagina fresca e liscia non potrà ferirmi come fanno le persone.
La Signorina Fraser aveva torto su di me. Lei ha pensato che io fossi come Mary, una ragazza che trova il suo posto e rinasce grazie a un giardino. Ma a me non succederà, per me non sarà possibile rinascere. Sono troppo stupida, troppo debole, troppo ferita.
Scendo dalla poltrona. Ciò che resta del diario, sul mio letto, mi ferisce gli occhi. Prendo il mio cestino della carta straccia e inizio a gettarci dentro manciate di carta straccia. Cerco di non leggere le parole che ho scritto. All’improvviso sento tra le mani qualcosa di diverso. È carta più pesante, più consistente. Abbasso gli occhi. È la fotografia di mio padre, in mano ne ho una metà. Istintivamente, con l’altra mano vado a cercare l’altra metà e ricompongo il suo viso davanti ai miei occhi.
Sono in inginocchio accanto al letto con la sua immagine tra le mani, quando mamma rientra in camera mia. Sembra impacciata, quasi timida.
«Posso vederla?» mi domanda, allungando la mano.
Le passo i due pezzi della fotografia strappata in silenzio. Li mette insieme e gli angoli della sua bocca vanno in su e poi in giù. Nei suoi occhi vedo sia amore che rabbia.
«Posso parlarti, Jaz?» mi domanda, sedendosi sul letto.
Faccio cenno di sì con la testa, lentamente, senza guardarla realmente in faccia.
Lei inizia a parlare.
«Quando ho conosciuto tuo padre, circa dieci anni prima che morisse lui, era una persona felice, divertente e molto attiva. Amava il surf, andare a cavallo e a pesca. Ed era molto bravo nel suo lavoro. Aveva così tanta energia che facevo fatica a stargli dietro.»
«Non me ne sono resa conto, subito. Ma poi, quando un anno dopo ci siamo sposati, ho notato questo andamento altalenante del suo umore, che andava sempre su e giù. Per un po’ di tempo tutto poteva andare benissimo, poi lui entrava in questo stato d’animo in cui sembrava che tutto fosse terribile e che tutto il mondo ce l’avesse con lui.»
Abbassa gli occhi verso le sue mani.
«Dopo un po’ ci siamo trasferiti a Mudgee, e un anno dopo abbiamo avuto te. Tuo padre era così felice quando sei nata! Ti amava tantissimo. Voleva addirittura darti il biberon, anche se io ti stavo ancora allattando al seno. Credo volesse sentirsi connesso a te. La tua presenza sembrava renderlo più stabile, o almeno così fu per qualche anno.»
Mi mostra i due pezzi della fotografia. «Guarda, anche in questa foto si vede che ti amava moltissimo. Adorava portarti al mare in vacanza, vi divertivate così tanto insieme... A volte mi sentivo addirittura un po’ messa da parte.»
Posa di nuovo la foto. «Comunque, quando tu avevi più o meno quattro anni lui ha iniziato ad avere di nuovo i suoi sbalzi d’umore. Poteva essere felice da morire e poi subito dopo andare completamente in pezzi. Io non sapevo affatto come gestire la cosa, sembrava così casuale e imprevedibile...»
Scrolla le spalle.
«Gli ho chiesto di andare dal dottore per capire di cosa si trattasse, ma lui per mesi si è rifiutato di farlo. Quando poi finalmente mi ha dato retta, dopo circa un anno, il suo medico di base gli ha detto che non trovava nulla che non andasse in lui. Di fronte a questa risposta io non sapevo più che pesci prendere e gli ho chiesto di cercare un altro medico per un secondo parere. A lui questa cosa non è andata giù, non credeva di avere degli sbalzi d’umore come gli dicevo io. Abbiamo iniziato a litigare e lui mi ha accusata di non capirlo e di non amarlo, dicendomi che il problema era solo nella mia testa.»
Alzo gli occhi verso il viso di mamma. Quanto dolore. Le prendo la mano e lei la stringe.
«Col tempo, le cose non hanno fatto che peggiorare. Non riusciva ad ammettere di avere un problema ed era sempre più depresso. Forse te lo ricordi...»
Annuisco. «Sì. Mi ricordo di avere avuto due papà diversi. Uno era divertente e aveva sempre delle idee folli, mentre l’altro non voleva mai fare nulla.»
«Pochi giorni prima che morisse, abbiamo avuto una grossa discussione. Lui aveva voluto organizzare una vacanza al mare per tutti e tre e poi, all’ultimo minuto, aveva deciso che non voleva più andare e ha iniziato a darmi la colpa di questa vacanza, dicendo che non avrei dovuto farlo. Io ero stufa e gli ho detto che ti avrei portata lo stesso al mare e che lui poteva restare a casa. Quindi siamo partite. Poi, sicuramente ricorderai la telefonata che abbiamo ricevuto tre giorni dopo. I vicini avevano bussato alla porta per qualche motivo ma lui non aveva risposto. La porta era aperta, quindi loro erano entrati per controllare che tutto fosse ok e lo avevano trovato sul pavimento del bagno.»
Mamma sta iniziando a piangere. «Mi sono sentita così male. Aveva preso una dose eccessiva di pillole e aveva funzionato. Lui aveva avuto un attacco di cuore, e io invece ero andata via e lo avevo lasciato lì.»
Tira su col naso, deglutisce e cerca di pulirsi gli occhi con la manica. «Mi sento ancora in colpa, anche se nella mia testa so bene che non è stata colpa mia. Non sapevo come aiutarlo, io lo amavo così tanto e mi manca e...»
La abbraccio. Ora piange sulla mia spalla.
«All’inizio non ti ho detto molto, perché non sapevo proprio come fare. Eri così piccola e non volevo che ricordassi questo di tuo padre. Avevi così tanti bei ricordi con lui, così ho sperato che ti aggrappassi a quelli. Non volevo nemmeno che lo odiassi. Già io ero furiosa per quello che aveva fatto, anche se sapevo che dipendeva dal suo problema. Ero molto confusa e disorientata.»
«Quindi aveva davvero un problema? Era davvero depresso?»
«Non c’è mai stato qualcosa di ufficiale come una diagnosi, ma ho letto un po’ di cose da quando è morto e sono piuttosto convinta che avesse una malattia chiamata disturbo bipolare. Quindi sì, direi che all’epoca soffrisse di depressione, ma lui non riusciva a capire cosa gli stava succedendo, e io non sapevo come aiutarlo.»
Rimaniamo sedute in silenzio per un po’. Oggi ho pianto tutte le mie lacrime e credo che anche mamma abbia pianto tutte le sue. In questo momento siamo entrambe in uno stato di pace semplice e calda.
«In effetti ci aiuta parlarne,» mi dice. Sembra sorpresa. «Ho sempre pensato che non parlandone avremmo sentito meno dolore, ma probabilmente mi sbagliavo.»
Ho altre domande per lei. «Mamma, io l’ho scoperto perché Shalini è stata a Mudgee mentre era a casa di suo padre per la sospensione e mi ha detto che là tutti sanno cosa è successo a papà. È per questo che ce ne siamo andate?»
Vedo un’ombra di rabbia attraversarle il viso. «Quella ragazza merita molto più di una sospensione. Come ha osato farti questo! Cos’altro ti ha detto?»
«Ti dirò tutto. Ma prima puoi dirmi perché abbiamo continuato a spostarci di continuo?»
«Il motivo sono io, perché non riuscivo a sopportare i pettegolezzi di paese. Ho provato a confidarmi con le altre persone, ma gli amici che credevo di avere non volevano saperne nulla, tradivano la mia fiducia o semplicemente non capivano. E io sapevo che le persone avrebbero parlato di me e si sarebbero chieste se anche io avessi delle colpe... voglio dire, è normale stare male quando tuo marito è così infelice della sua vita da volersi uccidere. Non è stata colpa mia, ma alcune persone mi volevano ritenere responsabile. Persino la nonna l’ha fatto. Questo mi ha fatto davvero male.»
Ora mi sembra triste. «E poi, ogni volta che sembravamo esserci un po’ sistemate, io non riuscivo a sopportare i miei sensi di colpa. Mi sembrava più facile cercare di ricominciare ancora e ancora, piuttosto che affrontare ciò che sentivo.»
Mi tiene la mano. «Mi dispiace così tanto. Sia io che tuo padre non siamo stati dei gran genitori per te.»
Cerco di fare una battuta. «Sì, ma almeno tu non ti sei uccisa...»
«Sì. Però non ti ho aiutata. Non ti ho detto la verità. E ho continuato a farti cambiare scuola e a farti ricominciare tutto da capo.»
«Va tutto bene, mamma.» E lo penso davvero. È tutto ok. Ora che ho capito, quel problema è un po’ più leggero. Certo, non posso fingere che sia tutto semplice, o che non faccia male, ma ora che so la verità posso vedere più chiaramente la strada davanti a me.
La abbraccio. «Va tutto bene.»