«Bell Gardia?» domandò ai forestieri una anziana con la schiena ricurva, il grembiule con larghe tasche cucite ai lati. Al suo fianco stava un cane nero che masticava qualcosa, beato; il peso abbondante del tronco, piegato di traverso in una posa seduta, poggiava su due zampette sottili. «È lì che state andando?»
«Sì, è così. È vicino?»
L’ultimo tratto di strada, quello più emozionale, fu mediato dalla presenza della vecchietta. Doveva avere più di ottant’anni e camminava tenendo una mano posata sulla schiena ritorta e una lasciata a ciondolarle di fianco.
Si offrì di accompagnarli fino all’entrata della casa di Suzuki-san, il guardiano di Bell Gardia. «Venite» disse con un sorriso bonario, e pareva guidarli nella stanza più remota della sua casa.
Era originaria del Kyūshū, ma ormai dove era nata contava poco, perché tutta la vita l’aveva trascorsa lì. Si era trasferita con il marito subito dopo le nozze, era un pescatore, raccontò. Le aveva detto che quello era il posto più bello del mondo e lei gli aveva creduto. Così avevano risistemato la sua casa d’infanzia, inaugurando giornate all’insegna del mare, tagliate in due dal giorno alla notte, perché la nave dell’uomo salpava quando tutto era buio e tornava che l’alba era salita.
All’inizio, disse, l’avevano impressionata specialmente i mastodontici granchi che il marito le portava in dono dal nord, dove andava talvolta, le lunghissime braccia cremisi e oro. Le parevano creature spaventose, con quelle chele mai viste. «Eppure sono una cosa squisita, dovete provarli.»
Voltandosi verso l’oceano, Yui vide le capocchie rosse delle boe che galleggiavano in acqua. Immaginò la donna allungare la figura, togliersi gli anni di dosso come polvere da una casacca e spingere le rughe ai lati del volto. La vide giovane e ritta sulla soglia di casa a scrutare l’oceano, con un cane diverso alle calcagna e un bambino in braccio, un altro più grande attaccato all’orlo del kimono, la frangia cortissima come andava di moda una volta. Con l’ansia delle giovani spose perlustrava l’orizzonte, cercava la nave del marito. Poi alzava il braccio, guardate, esclamava, e puntava l’indice sulla macchiolina che bucava la distesa dell’acqua.
Fu forse per quella intromissione garbata che Yui e Fujita-san giunsero impreparati a Bell Gardia. L’attenzione l’avevano rivolta tutta all’anziana e al suo cane, così che il giardino gli si aprì dinnanzi improvviso, come il sipario in un teatro di strada.
Arrivederci, buona fortuna, continuò a ripetere la mano alzata. La fissarono a lungo, inchinandosi ripetutamente per ringraziarla. La donna intanto riscendeva lenta la strada, affiancata dal vento che parve scortarla fino a casa.
Nella scuola in cui era rimasta sfollata per settimane, tra le cassette di frutta, le confezioni di cibo liofilizzato, gli abiti e le coperte che confluivano lì da tutto il Giappone, Yui aveva scrutato centinaia di volti e tutti, indistintamente, le erano scivolati dagli occhi. Solo uno tornava quotidianamente a visitarla, nei momenti più imprevedibili della giornata.
Era un volto di uomo, e insieme una cosa.
Doveva avere più o meno cinquant’anni. Era di grossa statura, la bocca demente, gli occhi enormi, all’infuori, da pesce.
L’uomo, di cui Yui non seppe mai il nome, teneva in mano una cornice, non se ne separava neppure nel sonno. Così guardava il cielo, così il soffitto, così ogni altra cosa all’interno della palestra: i teli, i mucchi di roba, la gente. Osservandolo con una curiosità che non dedicò mai ad altri, Yui vide l’uomo intitolare i suoi quadri, e si convinse che nessun altro lo sapesse. Con la mano libera pareva annotare qualcosa ogni volta che cambiava direzione e si fermava, solenne, a studiare ciò che era finito dentro alla cornice.
Nella vita fuori di lì i matti erano forse più soli degli altri. Ma in quel luogo i matti lo erano meno. Ciò che rendeva pazzi di dolore i sani, a quelli invece un po’ li liberava, li faceva sentire meno diversi.
Yui rimase persino col dubbio che fosse veramente uno sfollato. Ebbe l’impressione piuttosto che il danno subìto dall’uomo non fosse recente ma antico, e che nessuna notizia che fosse giunta in quel luogo l’avrebbe toccato. Tutti andavano almeno una volta al giorno al Centro Informazioni per sapere dei familiari, lui no; e nessuno venne a parlargli d’altro che di orari dei pasti da ritirare, dei turni per la doccia, di visite mediche cui sottoporsi, di esercizi da fare per la circolazione. Tutti piangevano o si sforzavano di non farlo davanti agli altri, lui no. Era venuto solo per mischiarsi alla gente, forse una casa la aveva anche, ma sentiva il bisogno di lenire la prima persona.
C’era anche da dire che lì nessuno dubitava degli altri, nessuno si permetteva. Si aveva troppa paura di aggiungere male a gente ferita. E Yui tuttavia era pronta: se qualcuno si fosse avvicinato all’uomo, se gli avessero chiesto ragione di quella cosa rettangolare di plastica azzurra con cui ripartiva la vita, sarebbe intervenuta. «Sta giocando, ha fatto una promessa a un nipote» avrebbe risposto. E se qualcun altro avesse domandato di che gioco si trattava, se quel nipote stesse bene, se fosse al sicuro, allora lei avrebbe taciuto, così che non avrebbero osato domandare di più.
La verità, o almeno quella che Yui ipotizzò, ovvero che guardare il mondo da dentro la cornice semplicemente rassicurasse l’uomo, che gli paresse tutto più affrontabile visto così, non avrebbe però reso gli altri tranquilli.
I matti li si accettava meglio quando non si era sicuri fino in fondo della loro pazzia.
Yui, stesa di notte sul telo nella palestra, intervallava i volti di sua figlia e di sua madre, macerie della vita di prima e visioni del mare, all’immagine di quell’uomo bovino nella sua casa, probabilmente piena di cianfrusaglie.
In verità non sapeva neppure perché ci si fosse tanto fissata ma vi tornava costantemente. Insonne, sull’altissimo soffitto della palestra, Yui proiettava la figura tozza e sproporzionata mentre, per puro caso, trovava una fotografia incorniciata, la prendeva in mano, allentava i fermi sul retro, staccava la stampa che c’era nel mezzo. Soprattutto il momento successivo (quello in cui l’uomo portava la cornice all’altezza della faccia e la stanza, la strada, tutte le cose di cui traboccava il mondo fuori dalla finestra, gli apparivano d’un tratto seducenti e pacificate) Yui lo riavvolgeva decine di volte. La rasserenava profondamente immaginare quella scena.
Così anche adesso, seduta sulla panchina di Bell Gardia, Yui osservava il profilo di Fujita-san e lo vedeva spezzato in riquadri. Era soprattutto per via delle stecche di legno della cabina (due lunghe verticali e cinque brevi orizzontali) che tenevano insieme i pezzi di vetro. Dentro ogni riquadro c’era un pezzo di Fujita-san, una frazione di braccio, un trancio di gamba.
Scostò lo sguardo più volte, temendo di risultare indiscreta.
Fujita-san tuttavia non se ne accorse. Continuò invece a raccontare alla moglie di Hana: «Ha smesso di parlare, sì, però io sono fiducioso, e lo è anche il pediatra».
Questione di tempo, aveva detto, perché nei bambini anche i sentimenti possono farsi materia e spesso si incastrano in gola. Era molto meno raro di quanto non si potesse pensare.
«Mia madre sta bene, è una nonna molto presente.»
C’erano poi le vicine di casa, le maestre d’asilo e i suoi amichetti. Insomma: Hana era amata, sarebbe guarita. Sarebbe stato bello se ci fosse riuscita prima che iniziassero le elementari.
Il riquadro in cui Yui vedeva la nuca di Fujita-san d’un tratto si svuotò. L’uomo si piegò, finendo nella cornice più bassa. Recuperò lo zaino che aveva poggiato a terra, si voltò.
Era commosso ma sorrideva. Come per dire, «va tutto bene, sta bene, sto bene, ce la si fa».
Solo dopo un anno da allora, Yui avrebbe parlato dell’uomo della cornice a Fujita-san. Gli avrebbe raccontato come anche lei fosse entrata in quel rettangolo azzurro, e di come quel giorno si fosse sentita vista, guardata davvero per la prima volta da settimane.
Non sarebbe accaduto mai più: tre giorni dopo l’uomo infatti era scomparso. Nessuno disse di lui, e lei non fece domande.
Di chi non si sa nulla, non c’è niente da dire.
Di chi non si sa nulla, nulla più importa.
In quel luogo di confino Yui scoprì d’aver imparato un’altra cosa importante, ovvero che un uomo bastava tacerlo per eliminarlo per sempre. Per questo serviva ricordare le storie, parlare con le persone, parlare delle persone. Ascoltare le persone parlare di altre persone. Anche dialogare con i morti, se fosse servito.