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«Da sola?»

Il mento toccò l’attaccatura del collo. Era convinta, sì, annuì.

«Ma da sola? Sei proprio sicura?»

La domanda andò in loop, ritrasmessa costantemente dalla voce e dalle sopracciglia del padre. Le aggrottava e poi le distendeva, come indeciso su quale risposta fosse quella giusta.

«Dai, ti accompagno fino all’entrata, magari ti passo la cornetta.»

Fu irremovibile Hana. Si piegò, slacciandosi dalla presa del padre.

Anche il padre si abbassò, fletté le ginocchia e sentì vacillare la schiena. E se invecchio? si chiese, non posso invecchiare. Non per altri vent’anni perlomeno.

Alzò gli occhi e al margine del giardino di Bell Gardia vide Yui consegnare la solita confezione gialla dei dolci alla banana a Suzuki-san. Parlava con l’uomo, chinava la testa e gli sorrideva, eppure Takeshi era certo i suoi occhi fossero sopra di lui.

Desiderò in quel momento che Yui tornasse a casa con loro, che lo aiutasse a portare in cucina i sacchetti della spesa, a rimettere ordine nell’armadio della bambina, a smontare insieme le decorazioni di Capodanno. Sarebbe stato bello se fossero andati insieme al tempio e avessero pregato la divinità per un anno pieno di salute e serenità. La desiderò vicina, anche quando fossero diventati vecchi e un po’ sordi.

Oddio, erano a quel punto? Possibile fossero arrivati già lì?

Si domandò sgomento se anche Hana se ne fosse accorta, i bambini erano talmente svegli.

E poi, sarebbe stato mai in grado di distinguere l’amore personale per una donna, da quello plurale che comprendeva la figlia?

Yui si voltò, chiamata dall’insistenza dello sguardo di Takeshi, che subito però lo distolse, imbarazzato. Accarezzò piano la testa spettinata di Hana.

«Va bene allora, faremo così» le disse. Sarebbe andata da sola e lui avrebbe aspettato fuori.

La bambina si staccò dal tocco del padre. A piccoli passi si diresse verso la cabina, la campanella sull’arco tintinnò. Takeshi trattenne il respiro. Che succedeva? Pareva un adolescente con il batticuore.

Takeshi raggiunse Yui nel momento in cui Suzuki-san rientrava in casa e Hana sganciava la cornetta. Placido e nero, l’apparecchio calava dall’alto sul suo orecchio.

«È così piccola.»

«Non per la sua età» replicò Yui con dolcezza. «Mi pare perfettamente allineata alla media.»

«Intendevo lì dentro.»

Erano immobili sulla soglia.

«È voluta andare da sola» riprese.

«Ho visto, sì.»

«Per parlare qui, non c’è bisogno di voce, no?» chiese Takeshi.

«No, non ce ne è affatto bisogno.»

Il padre si mosse, cambiò inquadratura, e dentro la cabina vide la figlia che schiudeva le labbra, e le labbra che si aprivano e si chiudevano decine di volte.

Rimase impietrito, incapace di precipitare in un sentimento più netto. Sbattevano aria soltanto o dicevano invece qualcosa? Stava parlando? Hana stava parlando?

«Parla» esclamò. E subito: «Parla?».

«Sembra che parli, sì» mormorò Yui.

«Non si può dire però.»

«No, con certezza non si può dire.»

«No?»

«È difficile dirlo da qui. Siamo troppo distanti.»

«Ma parla?» ripeté Takeshi.

«Sembra di sì.»

Il vento si alzò vigoroso, in uno schianto si strappò un ciuffo di foglie, un vetro sbatteva nelle vicinanze, un cane abbaiò. Quella nuvola di suoni parve una nebbia che si alzava per proteggere l’intimità della bambina.

Yui, benché lo nascondesse, non era meno emozionata di lui. Avrebbe voluto abbracciare Takeshi, ma si controllò.

Fissò lungamente il profilo di Hana che occupava poco più della metà delle cornici del padre. In ogni rettangolo entrava più corpo, una spalla intera e un pezzo del braccio. Un’altra decina d’anni e lo avrebbe raggiunto.