19

Mancavano meno di due mesi alle nozze.

Si avvicinava l’ennesimo 11 marzo. Anniversari sempre più blandi, la ferita da cui si grattava via la crosta con l’unghia per capire se si era rimarginata o ancora no.

Mentre camminava verso l’entrata di Tōkyō-eki, Yui guardava pulsare sullo schermo il numero di Takeshi e di Hana.

Vogliono parlare con me, ma io non ho nulla da dire, pensava. In fondo da dire c’è sempre almeno una cosa, e invece io non ho voglia di condividere nulla.

Nelle ultime settimane era stata sfuggente, stava preparando alla radio un nuovo programma di cui aveva la conduzione e la cura, diceva. Appena fosse finito e fossero andate in onda le prime due o tre puntate, sarebbe tornata alla normalità.

Yui urtò una donna, mi scusi sussurrò, la distrazione la rendeva sgarbata. Evitò di alzare il volto e guardarla negli occhi, accelerò. Quando si spalancarono le portiere della Linea Chūō, si fermò nella fila di destra. Il treno tracimò persone, se ne ficcò in bocca delle altre. Anche lei salì.

«A breve arriveremo alla stazione di Kanda. Kanda. L’uscita è alla vostra destra» recitò la voce registrata. Tono ordinato, parole ordinate. Prima in giapponese, poi in inglese.

Yui, tagliò la carrozza da lato a lato per non intralciare il passaggio della folla.

Mentre il treno ondeggiava e, arrivando in stazione, smorzava la corsa, Yui rifletté per l’ennesima volta sul fatto che se fosse diventata la moglie di Takeshi, Hana avrebbe avuto come madre lei, e lei soltanto.

Nessun altro avrà diritto a quel nome. Sei sicura ti spetti?

Yui era umorale, tendeva un po’ alla tristezza, come fosse stata concepita inclinata e scivolare fosse parte della sua natura.

Era adatta a una creatura sensibile come Hana? Non rischiava di contagiarla con quella sua subdola malinconia?

Sullo schermo del cellulare, l’anteprima del messaggio mostrava un orsetto con la bocca a D messa a rovescio. Tra le braccia esibiva un vassoio: Vieni a cena da noi? le proponeva.

Hana adorava gli adesivi di Line e aveva un debole per quella serie degli orsi. Lo sticker doveva averlo scelto lei. Da grande, diceva talvolta, avrebbe voluto crearne di originali. Esisteva un lavoro così?

«A breve arriveremo alla stazione di Ochanomizu. Ochanomizu. L’uscita è alla vostra destra.»

Non meritavano la sua fuga. Yui scese dal treno convinta che quella cosa andasse risolta alla svelta.

Yui si prese due settimane di tempo. Takeshi, pur senza saperlo, gliele accordò.

Hana chiedeva, non sospettava Yui stesse attraversando un momento di crisi profonda e che quella crisi fosse dovuta a lei. O perlomeno a una lei che ancora non esisteva e che, per giunta, non si sapeva neppure se ci sarebbe mai stata.

In teoria, Yui doveva recarsi a ritirare il certificato di nascita, farselo ristampare. In pratica, quel documento le era arrivato per posta da giorni e riposava in una cartellina tra una montagna di altre scartoffie in cucina.

Quando non sapeva cosa fare, Yui era solita non fare nulla. In quella occasione, però, conscia che il tempo fosse una cosa preziosa e soprattutto che, al pari di una soluzione chimica, se dosato male, fosse in grado di sciupare irreversibilmente ogni cosa, non esitò.

Senza darsi il tempo di cambiare idea, prese il telefono e lo chiamò.

«Suzuki-san, posso venire a trovarvi?» chiese dopo un brevissimo giro di parole.

«Yui-san, tu sei sempre la benvenuta» rispose il guardiano, che già dal tono aveva intuito che dovesse essere successo qualcosa.

«Pensavo a un giorno o due.»

«Puoi stare tutto il tempo che vuoi.»

Yui non prese la macchina ma il treno quella volta. Voleva le mani sgombre e, se serviva, anche chiudere gli occhi e dormire.

Prima di salire sullo shinkansen, passò al kombini per i soliti onigiri e la cioccolata, e per caso vide una donna intenta a far fotocopie. Le tornò in mente l’entusiasmo di sua figlia per la macchina fotocopiatrice del Lawson o del Family Mart. La bambina una volta aveva scoperto che, per ingannare l’attesa mentre la carta veniva stampata, lo schermo proponeva piccoli giochi di concentrazione. Immagini quasi gemelle, di cui serviva tuttavia scovare cinque differenze. Insomma: tutto uguale, tranne che per…?

Tipo, due conigli che inforcavano un cestino di carote:

maniche a righine bianche e blu contro maniche a righine bianche e verdi;

un fiocchetto rosso sul lato destro del cestino contro fiocchetto sul lato sinistro;

cielo sereno contro cielo con nuvola in mezzo;

quattro carote contro cinque carote;

tre bottoni sulla blusa contro la stessa blusa, ma con un bottone di più.

Sulla strada per Bell Gardia, la Bossanova in cuffia e in grembo un giornale che neppure sfogliò, Yui pensò a cinque differenze che intercorrevano tra sua figlia e Hana.

Dopo essersi forzata per mesi di rigettare il confronto, e forse proprio grazie alle crepe che da giorni le si aprivano addosso, si concesse la normalità di pensarlo. Che le bambine fossero diverse e simili insieme. Che l’amore forse non escludeva che di ognuna si potessero apprezzare cose diverse.

Anzi, accadde che riuscire a individuare non cinque bensì decine di differenze tra loro, anziché turbare Yui, la rassicurò.

Yui non disse a nessuno dove era diretta e tutti ebbero la delicatezza di non fare domande. A Hana fu riferito che era tornata al paese per raccogliere dei documenti importanti e che in quel luogo il cellulare non prendeva. La bambina si lasciò ingannare: a convincerla non furono le parole ma l’espressione ansiosa del padre.

Quando Yui tornò a Tōkyō, dopo tre giorni in cui si era isolata completamente e non aveva dato neppure notizie di sé, pareva star meglio.

Dove fosse andata non lo avrebbe raccontato a nessuno, neppure a Takeshi e neppure dopo le nozze.

Era semplicissima la verità: Suzuki-san le aveva messo a disposizione una stanzetta al piano di sopra, e lei, come una figlia tornata a casa già grande, si era lasciata viziare. Aveva dormito senza programmare la sveglia, mangiato solo pietanze golose, chiacchierato più del futuro che l’aspettava che del passato che l’aveva portata lì la prima volta.

Per sdebitarsi fece piccole cose: tenne la scala mentre la vicina potava i suoi meli, pulì lo scolo del tetto, riverniciò la cabina del Telefono del Vento, pelò carote e patate, mescolò salse, rifece l’orlo a un grembiule e richiuse uno strappo su un paio di pantaloni da lavoro.

A Suzuki-san e a sua moglie non disse nulla della paura di diventare madre di Hana. La descrisse invece nei particolari, raccontando di come con l’inizio della scuola la bambina stesse crescendo rapidamente, delle due amiche inseparabili che già si era fatta, dei numerosi talenti che possedeva e serviva stimolare con il giusto entusiasmo.

Il giorno in cui era previsto ripartisse per Tōkyō, chiese un’ora per sé. Pioveva. Lasciò all’ingresso le borse ed entrò nella cabina.

Alzò la cornetta del Telefono del Vento.

Per la prima volta parlò.