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Ornamento di separation

Il posto in cui vivo è vecchio. «Vecchio ma robusto», ci dice la nostra padrona di casa. Il numero 500 di Belgrave è così forte, apparentemente, che resistette al terremoto del 1906. «Non subì neanche una crepa», sempre la padrona di casa. Ma, rimanga tra noi, non scommetterei che la storia si ripeta. È questo il motivo per il quale vivo all’ultimo piano, perché, se il palazzo crollasse, riuscirebbero a tirarmi fuori. Naturalmente, non auguro alcun male ai miei vicini, specialmente al signore che vive sotto di me. Quanto alla signora scontrosa del piano terra, che si ostina a chiamarmi Mary perché trova Morayo troppo difficile da pronunciare, be’, è un’altra storia. Ma neanche a lei augurerei qualcosa di brutto. Mi piace immaginare che quando ne arriverà uno potente ci rifugeremo tutti da me, bevendo un bicchiere di vino, lasceremo passare il pericolo e sopravvivremo per raccontarlo. Ma, chissà, quando la terra finalmente deciderà di essere stanca di agitarsi e avrà bisogno di stiracchiarsi, potrei essere quella che cade giù; nel qual caso gli unici sopravvissuti sarebbero i miei libri – centinaia di libri – che si faranno compagnia tra loro.

Il nostro palazzo era abitato da una sola famiglia, ma adesso è composto da quattro appartamenti, e io vivo in uno di questi da vent’anni. Cosa che deve dare fastidio alla mia povera padrona di casa, perché, in questa città che cerca di calmierare gli affitti, lei potrebbe chiedere a un nuovo inquilino più di quanto sono tenuta a darle io. Intendiamoci, non che l’appartamento sia niente di spettacolare; ha solo una piccola camera da letto, una cucina, un soggiorno e un bagno. Ma è la vista che conta a San Francisco. E la mia vista, oh sì, la mia vista è magnifique.

Quando sei al lavello della cucina, puoi vedere tutte le case colorate di Haight Ashbury. E, oltre quelle, la foresta di pini ed eucalipti del Presidio che si estende fino alla baia dove, in un giorno luminoso, il mare emette bagliori azzurri. Quindi non ho intenzione di traslocare, e la padrona di casa deve sapere che quello che perde di affitto lo guadagna avendo in casa una affidabile come me, che controlla la proprietà. Perché io, come l’edificio, sono anziana. Anziana per gli standard nigeriani, secondo i quali avrei superato di circa vent’anni l’aspettativa di vita di una donna. E, poiché abito qui da tanto tempo, conosco l’andirivieni: quindi, in una mattina come questa, ancora prima che il postino raggiunga il terzo piano, ho sentito i suoi passi. Li Wei è dell’umore di fare i gradini due alla volta e, quando arriva, lo sto aspettando. Normalmente non aprirei la porta in vestaglia, ma Li Wei non è un estraneo. Inoltre, in questa città le persone portano in giro i cani e vanno a prendere i figli a scuola in pigiama. Così, sono qui, con la mia vestaglia rossa, scalza, strofinando le punta delle dita dei piedi (quelle con gli anelli da dita dei piedi) sulla stuoia ruvida del tappetino con sopra scritto BENVENUTO.

«Salve dottoressa Morayo, c’è molta posta per lei oggi», dice Li Wei, mostrandomi una pila di lettere con una tale eleganza che mi ricorda l’inchino di un samurai davanti alla sua imperatrice, i palmi delle mani rivolti verso l’alto, la testa un po’ piegata. «La cassetta delle lettere è piena», dichiara, con aria perplessa finché non sorrido, poi sorride anche lui perché sappiamo che non c’è niente di sorprendente nel fatto che la mia cassetta delle lettere sia piena. La lascio così in questi giorni perché mi piace che la svuoti lui. Ci piacciono le nostre chiacchierate prima che Li Wei debba ricominciare a lavorare e si tocchi il cappello da postino per augurarmi buona giornata. E, per rispetto alla sua gentilezza, passo sempre qualche minuto, quando se ne va, selezionando le lettere ricevute, tra messaggi politici e comunicazioni da Amnesty e dal Sierra Club. Qualche volta, se dalla pila saltano fuori una cartolina colorata o un biglietto scritto a mano, mi entusiasmo, penso che potrebbe essere qualche amico, anche se so che in genere si tratta solo di uno spam più bello degli altri. Che fine hanno fatto tutti quegli amici che spedivano lettere e cartoline? Ora le persone fanno solo zapping tra le email e, comunque, non ti mandano biglietti scritti a mano. E comunque, ovviamente, molti amici sono morti. Sfoglio la pila senza entusiasmo, tra Granta e CAR, poi mi fermo per farmi una tazza di tè, nella quale intingo un biscotto allo zenzero.

Sì, so che sto rimandando e, se non facessi attenzione, accumulerei ritardi su alcuni pagamenti inevitabili. Non ti danno molto tempo per pagare, ormai, ma non lascio che questo mi metta ansia. Una volta ero diligente, straordinariamente diligente, ma la vita è troppo breve per agitarsi per queste sciocchezze. Che è quello che mi racconto finché la diligenza, non del tutto persa, riappare, e io ricomincio a occuparmi della posta.

Oggi c’è una lettera della Motorizzazione civile con dei moduli allegati. Do un’occhiata, ripetendo mentalmente no, no e no in merito a domande su pressione alta, attacchi di cuore e diabete. Immagino che una lettera di questo tipo sia una routine. Ma attenzione: tra breve sarà il mio compleanno e forse tutto questo è collegato. Perché, quando uno raggiunge una «certa età», ogni richiamo al compleanno diventa motivo di allarme? Rileggo la lettera e scopro che la data entro la quale rispondere era la settimana scorsa. Maledizione! Meglio chiamare. Compongo il numero, poi metto il telefono tra l’orecchio e la spalla mentre disfo le treccine che ho tenuto di notte, che faccio ogni tanto per poi lasciare la capigliatura sciolta. Non mi preoccupo del tempo di attesa, ma il messaggio automatico mi dà la possibilità di essere richiamata, senza perdere il mio posto in coda. Quanta civiltà! Lascio nome e numero e, a mani libere, sbroglio l’ultima treccina, mentre decido cosa mettermi.

Nel mio guardaroba c’è una pila di tessuti dai colori brillanti. Alcuni sono regali che mi sono fatta da sola, altri, doni degli amici. Comunque, amo indossare un abbigliamento legato alle mie origini più di quanto facevo un tempo, soprattutto quando c’è il sole. Oggi ho scelto un nuovo tessuto Ankara in tonalità accese di rosa e di blu; lo annuso. Quando apro l’armadio sono deliziata dall’odore dei mercati di Lagos, ancora impresso sul cotone: gas di scarico, olio di palma caldo, legna che brucia. L’odore evoca l’effervescenza e la follia della «megacittà», che una volta era la mia città, tra le varie sedi di mio marito, diplomatico. Era un posto pieno di feste e di ingorghi, la città della gente di mio marito: i miei molti nipoti e i figliocci. Ho pensato spesso di tornare a Lagos e, qualche volta, sogno di essermi già ritrasferita in questa grande, folle città, nella quale tutti mi chiamano «Zia» o «Mamma»; la terra dell’eterna luce del sole e di un teatro umano giornaliero. Penso ai miei cugini e a come sarebbe entrare di nuovo in contatto con loro, vivere vicini. Ho perfino pensato di vivere più vicino a Caesar, non perché mi manchi particolarmente, ma perché condividiamo la memoria di persone e di posti che pochi ancora ricordano. Ma, anche se mi sorprendo a cercare in rete case a Ikoyi, so che probabilmente non mi sentirei a casa in una città così affollata. Ricordo come diluvia durante la stagione delle piogge. Ricordo che salta l’elettricità e il traffico impazzisce, e ricordo quante poche librerie ci sono, quanti pochi caffè e musei. Nel profondo so che il mio desiderio di tornare a Lagos nasce più dalla nostalgia che da un autentico bisogno di farlo. Quei giorni, in cui riuscivo a fronteggiare le quotidiane emicranie che mi procurava la vita a Lagos, non torneranno più. In ogni caso è a Jos, la città della mia infanzia, che vorrei tornare, ma questo è ancora più improbabile. Jos un tempo era il luogo della serenità, della tranquillità, con un clima tipico dell’altopiano, non la città ansiosa che è oggi, con il terrore costante di subire atti di violenza. E, ora che i miei genitori non ci sono più e i compagni di scuola si sono trasferiti o sono morti, tutto quello che realmente rimane sono i ricordi.

Sospiro, mettendo da parte il tessuto che avevo scelto e prendendone un altro, quello oro e verde, che sa di ambientalismo e di detersivo alla lavanda. Lo avvolgo attorno alla vita, tenendo le gambe un po’ divaricate, per non stringerlo troppo, quindi lo avvolgo ancora e lo fermo su un fianco. Scelgo, per contrasto, una fascia gialla per la testa, poi mi specchio, in bagno, appiattendomi i capelli con le mani. Soddisfatta, metto un rossetto rosa e lo tampono con un fazzoletto di carta. Sistemo velocemente le sopracciglia, verso l’alto, con un piccolo spazzolino da denti acquistato apposta. Ho letto da qualche parte che questo induce la gente a fare attenzione ai tuoi occhi. Gli occhi, diceva l’apostolo Matteo, sono la luce del tuo corpo. E, stando a qualcos’altro che ho letto di recente, gli occhi sono l’unica cosa che non invecchia, il che è un bene. Tolgo gli occhiali sporchi e li pulisco con acqua calda e sapone, tenendoli per la montatura, come mi hanno insegnato da bambina.

Non ricordo quando ho iniziato a portare gli occhiali: sembra una vita fa, ma ricordo l’ospedale Kano Eye e il viaggio da Jos, che era lungo e accidentato, su strade sporche. L’appuntamento, sempre fissato per il giorno seguente, era un impegno che occupava tutta la giornata, dall’attesa all’aperto sulle panche di legno a quando stavo seduta sull’ampia sedia dell’oculista. Il dottore passava il suo tempo rovistando in cassetti pieni di aggeggi argentati, allineati come biscotti in una scatola. Ero solita immaginarlo mentre doveva scegliere tra biscotti al burro e allo zenzero prima di mettere le sottili lenti-wafer in un’ingombrante montatura di acciaio, che posizionava sul mio naso. Meglio o peggio? mi avrebbe chiesto. Qualche volta andava meglio, qualche volta peggio. Ma sempre ricordo il suo respiro, che odorava dolcemente di mango, da cui capii che era povero. I manghi sono gratuiti in Nigeria: tutti li possono prendere dagli alberi, talmente tanti che mio padre, durante la stagione, pagava qualcuno per raccoglierli, così non sarebbero caduti e marciti. Mi chiedevo anche se il dottore soffrisse di diabete. Quel respiro dolce era forse un segno della malattia? Magari, semplicemente amava i manghi. E, quando arrivava il momento per lui di puntarmi negli occhi una luce gialla, non riuscivo a fare quello che mi chiedeva. Invece di osservare la punta del suo naso pieno di lentiggini, preferivo guardare i miei occhi riflessi nei suoi, dove sembravano brillanti e belli, come biscotti con sopra un occhio di marmellata di fragole. Era un mistero per me come la mia vista potesse essere perfetta da così vicino, ma tanto scarsa da lontano. Poi, suona il telefono.

«Come posso aiutarla?» rispondo, sorridendo perché la voce dall’altro lato suona familiare. «Sunil?» cerco di indovinare il nome.

«Sì, signora. Parla la Motorizzazione civile, la sto solamente richiamando.»

«Dalla Motorizzazione civile», ripeto. «Motorizzazione civile, dice? Ah, certo». Ora ricordo, ma ho dimenticato la scusa che volevo usare. Adesso posso solo chiedere un prolungamento della scadenza.

«Okay, signora, mi dia un attimo», dice l’uomo. «Devo verificare con il mio capo. Può restare in attesa?»

«Certo», sorrido, immaginando il giovane seduto in un call center da qualche parte in India, con accanto il suo pranzo in un contenitore di metallo, strati di pane indiano e sottaceti. E, mentre ascolto il tranquillo jazz di sottofondo, provo la conversazione che avremo quando tornerà in linea. Come sarà sorpreso quando scoprirà che vivevo nel suo Paese, quando gli dirò quanto mi mancano i miei amici e i mercati delle spezie. Gli dirò che ho ancora cardamomo e cumino nella credenza, per ricordarmi di quei giorni. Potrei dirgli anche dove ho comprato gli anelli per le dita dei piedi o le tende di seta, che pure vengono da Bombay, Mumbai. E che, solo pochi minuti fa, stavo annodando il mio vestito africano, e pensava quanto fosse facile annodarlo, rispetto a tutti gli strati di tessuto che servono per un sari. Sono sempre stata imbranata con i sari.

«Signora?»

«Sì.»

«Va bene, signora, posso darle un’altra settimana.»

«Fantastico!» esclamo, sollevata. «Grazie. Quindi mi dica, signore, da dove mi chiama oggi? È una bella giornata, c’è il sole?»

«Chiamo da Sacramento, signora. Sì, signora, è una giornata abbastanza bella.»

«Oh», faccio, delusa. Sacramento è una capitale così deludente, priva di personalità. Non ci sono colline o montagne; è piatta come un piatto. Che delusione che non chiami dall’India. E io, pronta a scambiare qualche parola in hindi. Grazie a Dio non mi sono messa in ridicolo. Eppure, c’è qualcosa di familiare nella sua voce. Forse è un mio ex studente? Mi mancano i miei studenti. Ma se fosse uno di loro, perché non riconosce il mio nome o la mia voce?

«Va bene signora», dice, «solo per conferma, ora il suo dottore ha tempo fino al 12.»

«Il mio dottore?»

«Per la visita medica, signora.»

«Visita medica?» Do un altro sguardo alla lettera: i moduli allegati devono essere completati da un medico. Scorrendoli, vedo che, oltre ai test fisici e mentali, è richiesto un controllo della vista. «Mi dica, di nuovo: qual è il suo nome? Sanjay? È un’abitudine della Motorizzazione civile spedire queste lettere?»

«In realtà, mi chiamo Sunil.»

Percepisco un po’ di fretta, ma perché dovrebbe infastidirsi?

«In realtà», continua, «noi non facciamo questo, signora. Voglio dire… quello che voglio dire è che viene dalla direzione. Quindi, quello che so è che accade se qualcuno la segnala, per esempio, per scarsa attenzione o guida pericolosa.»

«Scarsa attenzione?» chiedo, perché è il suo modo di esprimersi che meriterebbe questa definizione, non la mia guida. «Bene, forse qualche volta ho parcheggiato un po’ troppo lontano dal marciapiede o, a volte, troppo vicino al ‘bordo del marciapiede’, come direbbe lei, ma sono sicuramente piccoli errori…» Mi fermo, aspettando una sua risata; poiché non ride, continuo imperterrita. «Forse una volta o due la mia macchina si è spenta su una strada in salita, ma non è forse quello che succede a San Francisco? Vede, la mia macchina è ancora una di quelle ‘manuali’. È una vecchia macchina da guidare a mano. In realtà è un pezzo da collezionisti.» Ma, ormai, ho capito che lui non sa cos’è una 911, per non parlare della mia 993. Probabilmente lui è uno di quelli che sogna una Lexus con i cerchioni dorati.

«Sì, signora. Posso fare altro per lei, signora?»

«No, caro», borbotto. «No», ripeto, perché ora sono arrabbiata per essere scivolata nell’uso di questo vezzeggiativo, un manierismo che mi ero ripromessa di non adottare mai. Vidi come invecchiava un’amica, molto più di quanto dicessero i tanti capelli bianchi e le vene varicose, di cui si lamentava sempre. Chiamare un giovane uomo «caro» o «tesoro» fa sembrare vecchie, e ora l’ho fatto anch’io, senza neanche accorgermene. «Chouchouter», sussurro, incapace di trovare un’altra parola, in un’altra lingua, più adatta. Sentendo, tardi, il ronzio della linea, capisco che il mio giovane, caro, amico americano ha attaccato. «Fanculo! Bastardo!» aggiungo, sorpresa dalla volgarità del mio linguaggio. Non quanto lo sia per il linguaggio sdolcinato che ho usato prima, ma, anche in questo caso, mio padre sarebbe sconvolto, se mi potesse sentire. Punto la lettera verso il cielo, per scusarmi, prima di rimetterla nella busta e posarla di nuovo sulla scrivania.

«Non sono distratta.» Mormoro ai miei amici sugli scaffali. «Chiunque abbia fatto questa cosa disgustosa di segnalarmi dovrebbe vergognarsi.»

Il mio nuovo oculista dice che non c’è niente da fare per il deterioramento della mia vista; e, poiché ho superato l’ultimo controllo per la patente senza che nessuno avesse notato quanto dovessi strizzare gli occhi o piegarmi in avanti per leggere i cartelli, credevo che sarebbe andata bene. Pensavo di avere almeno altri cinque anni di guida. Almeno cinque, dico a me stessa, decidendo di occuparmi della lettera dopo e di fare la mia passeggiata prima che salga la nebbia. Inutile farmi bloccare da questa cosa. Prendo le chiavi, chiudo la porta e scendo per le scale fino alla portineria. Uscendo, guardo tristemente il mio «Ranuncolo», la mia amata, vecchia Porsche, parcheggiata, lo ammetto, ad almeno 45 centimetri dal bordo del marciapiede. Ma chi se ne frega!