3

Ornamento di separation

Riprendo la mia passeggiata su Stanyan Street, un po’ sorpresa dalle parole di Dawud. La sua apparente allegria non mi inganna, perché so che conduce un’esistenza dura. È divorziato, soffre di dolori alla schiena e Amirah mi ha detto che si è messo nei guai per motivi politici, il che ha costretto sua madre ad allontanarlo da Ramallah. Lo immagino come un ragazzo arrabbiato, che tira pietre ai soldati israeliani; ma niente di più serio, altrimenti gli avrebbero dato rifugio in America?

«Sta benissimo», dice un estraneo, distogliendomi dai miei pensieri.

«Anche lei», sorrido, notando la manicure dell’uomo, un verde acido. Mi piace il modo in cui gli uomini di San Francisco curano il loro aspetto. È una delle cose che amo della città. E poiché gli uomini si curano così tanto, uomini non attratti dalle donne, trovo questa città più gentile della maggior parte delle città. Inoltre, qui a San Francisco uomini e donne sembrano apprezzare il mio senso dello stile. Sebbene, se tornassi a Londra o in alcune zone di New York, dove buba e gele sono all’ordine del giorno, so che non farei girare la testa; non alla mia età, comunque. E, se tornassi in Nigeria, dove la maggior parte delle persone sono vestite come me, non attirerei l’attenzione. Quindi faccio tesoro di questa città con il sole brillante del mattino e un cielo blu, luminoso. Amo il modo in cui la nebbia mi avvolge, nella parte finale della giornata, coprendo la foresta Sutro, nascondendo la mia parte della città con una nebbia bianca e soffice. Ma è la gente di San Francisco, molto spesso eccentrica ma sempre amichevole, che mi fa sentire a casa. E poi, una macchina passa per la mia strada. Il che mi ricorda: che cavolo faccio se non passo il controllo degli occhi? Non è la prima volta che sono scossa da questo pensiero, ma in precedenza sono sempre riuscita a riflettere senza agitarmi troppo. Giro a sinistra, su Parnassus, per sedermi un attimo alla fermata dell’autobus e ricominciare a respirare. Mi appoggio sull’estremità di una sedia di plastica rossa, stringendo al petto i tulipani e considerando le alternative: mezzi pubblici o autista. Davvero ho soltanto queste opzioni? E i mezzi pubblici non sono convenienti come a Londra. Ho avuto autisti in passato, ma in contesti diversi, in Paesi diversi. A San Francisco un autista sarebbe costoso. E comunque voglio restare indipendente, essere in grado di uscire ogni volta che mi va. Non è solo una questione di andare da A a B, ma la libertà di fare ciò che desidero.

Devo avere camminato per diversi isolati, finché noto un uomo senza fissa dimora davanti a me. Vedere con quanta tristezza si muove mi fa sentire egoista per essermi preoccupata così tanto della Motorizzazione civile. Resto indietro di un passo e vedo come il suo cane lo segue, attaccato a un guinzaglio. Mi ricorda un’estate a Lagos, quando un predicatore americano venne in Nigeria e se ne andò in giro trascinando una croce sulle spalle. Era l’anno in cui Caesar girava tra Delhi e Parigi, solo pochi anni dopo il nostro il matrimonio, quando ho scoperto che Caesar aveva un’altra moglie. Ero così sconvolta che avevo deciso di lasciarlo quel giorno stesso, facendomi carico della mia croce e seguendo il predicatore. Ora osservo da dietro le gambe di quest’uomo, infangate e coperte da ciò che rimane di un paio di jeans.

Sullo zaino dell’uomo c’è un groviglio di cinghie e di etichette, che si agitano furiosamente nel vento; quando il cagnolino si ferma e si accuccia, li oltrepasso con discrezione, mantenendo una distanza di sicurezza in caso di pidocchi o di qualche scatto improvviso. Credevo che l’uomo puzzasse, ma non è così e, guardando indietro, mi accorgo che lui in realtà è una lei, e incredibilmente giovane per portare quel peso. Diciassettenne o diciottenne, a giudicare dalla magrezza delle braccia; se non fosse che, quando mi fermo per guardarla di nuovo e intercetto il suo sguardo di acciaio, con gli occhi blu, da tigre, non ne sono più sicura. Potrebbe essere una trentenne, forse una quarantenne. La guardo mentre si ferma, fruga nel cestino della spazzatura, tira fuori dei giornali e strappa un foglio prima di tornare dove l’aspetta il cucciolo. Prende delle palline nere, fumanti, e le butta nella spazzatura. «Muoviti, stupido», mormora al cane.

«Stai bene, amore?» chiedo.

«Seee», dice. Poi si gira verso Fredrick Street e urla: «Vaffanculo!» a un giovane che arriva con uno skateboard in mano. Una pioggia di insulti investe il povero ragazzo per averla lasciata da sola a occuparsi del cane e dello zaino. Sorpresa, poi perplessa, sperando di avere avuto un po’ dello spirito di quella donna quando ero giovane, dico all’uomo della macchina che si ferma per me sulle strisce: «Ha sentito quella donna? Ha visto quanto è tosta?» L’automobilista mi fa solo un cenno con la mano, ma ho appena cercato e avvistato un cielo-stracciatella, a chiazze blu e bianche. Pensa agli uccelli nel cielo, diceva mio padre, che non seminano e non raccolgono, eppure il tuo Dio li sfama. Quindi, mi chiedo, perché preoccuparmi per la patente?

«Attraversi la strada, signora, maledizione!» urla l’uomo nella macchina.

Il forno su Cole Street è il mio preferito per il pane alle noci e la brioche con l’uvetta, che non è troppo unta né troppo dolce ed è buona quasi come quelle che compravamo in Francia quando vivevamo in rue de qualcosa nel 15° arrondissement. Ma non è solo il cibo a essere buono lì: c’è anche la possibilità che ho di parlare con i miei amici. Per esempio, è il posto in cui incontro Alonzo e Mike, che parcheggiano di fronte alla pompa antincendio dove sarebbe vietato. Fanno gli spavaldi, le mani sui fianchi, come nei film, con il manganello, le manette e la pistola che penzola in vita. Infilano le radio crepitanti nella tasca sul petto mentre parlano con gli altri nel caffè. Dico Alonzo e Mike perché lavorano in coppia, ma è a Mike che sono più vicina. Sta scrivendo un romanzo, capite, quindi parliamo di libri. Quando avrà finito la prima stesura, gli ho promesso che la leggerò e gli darò un parere. Mi ha aiutato, anni fa, a non prendere una multa per una presunta infrazione del codice stradale. Sia benedetto.

L’incidente accadde alla fine del mese quando, se conoscete San Francisco, sapete che la città va a caccia di soldi extra. Questo spiega perché il poliziotto che mi fece accostare era nascosto dietro l’angolo, tentando di beccare quelli che violavano le regole. Credevo che avrei dovuto fermarmi all’incrocio con quattro vie, ma non discussi. Non ero così timorosa come sarei stata da giovane, ma sapevo che era meglio non oppormi a un poliziotto arrabbiato, quando mi chiese ripetutamente se fossi la proprietaria di una macchina così costosa. Potrei dire che era sospettoso, quindi mi sedetti tranquillamente mentre lui emetteva la multa. Qualche giorno dopo, quando vidi Mike, gli raccontai l’accaduto. «Lascia che me ne occupi io», si offrì. E lo fece. All’inizio mi sentii una trionfatrice. Fu come tornare in Nigeria dove, poiché conoscevo qualcuno, potevo controllare il sistema. I genitori di Mike sono di origine italiana e ho sempre pensato che tra italiani e nigeriani ci fossero molti legami. Non che io approvi la corruzione, ma, in questo caso, sapendo di non avere fatto niente di sbagliato, mi sono sentita vendicata. Eppure, quando, il mese successivo, sono andata in tribunale per sentire che il mio caso era stato archiviato, anziché essere felice, mi sono vergognata. In tribunale c’erano molti giovani uomini neri, alcuni dei quali si sono dati da fare per aiutarmi sulle scale. Mi hanno anche lasciato passare davanti a loro, nella fila, per prendere i miei documenti. Mi riservavano un trattamento preferenziale perché avrei potuto essere la loro madre o la loro nonna, tuttavia non lo meritavo. Avevo connessioni. Avevo «le piston» per tirarmi fuori da quella situazione, mentre loro non avevano questo capitale sociale. Non avevano gli strumenti o le conoscenze per evitare di pagare le multe. Molti, ci avrei giurato, erano già intrappolati dal sistema e non ne sarebbero mai usciti.

Mike non c’è oggi, ma c’è il suo collega bianco che indossa sempre turbanti Sikh e bracciali di argento con uno dei suoi stupidi uccelli sulla spalla. Chiedo scusa, dovete perdonarmi. Non posso, da buona nigeriana, approvare questa cosa. Se Sir Galahad di Selvon fosse stato nei paraggi, scommetto che avrebbe mangiato per cena tutti questi uccelli. È già abbastanza brutto che i piccioni entrino dalla porta del caffè e che gli amanti dei volatili non vogliano mandarli via anche quando continuano a tornare, zampettando avidamente per qualche secondo con le teste da galletti che si muovono a ritmo hip hop. Già questo è abbastanza brutto, ma portare uccelli in un ristorante sulle proprie braccia o spalle, be’, davvero non posso approvarlo. Nessun nigeriano lo approverebbe. Neanche un italiano, ne sono sicura.

Devo andare al forno per parlare con la mia nuova amica, una cassiera, ma, poiché non c’è, compro del pane, perdendo qualche minuto, nel caso arrivasse qualcuno. Poiché non arriva nessuno, me ne vado. Speravo di invitare la mia amica alla mia festa di compleanno perché credo che le feste nelle quali tutti abbiano la stessa età non sono abbastanza divertenti. Non posso organizzare una festa solo per persone vecchie e, in ogni caso, a parte l’età anagrafica, non mi sento vecchia. Almeno, non mi sentivo vecchia finché ho iniziato a notare l’assenza di amici giovani, che è peggiorata quando ho smesso di insegnare. Questo è un altro problema della città. È più difficile farsi amici giovani qui che in posti quali Lagos o Delhi. A San Francisco le persone tendono a stare con quelli della loro età. E, anche se so che la mia amica Sunshine verrà, una sola più giovane potrebbe non essere abbastanza. Speravo anche di dare alla mia nuova amica dei tulipani, ma ora credo che dovrò tenere entrambi i mazzi. Mi guardo attorno, pensando alla giovane senzatetto e poi, per un momento, alla signora Dalloway e alle sue piante del delfino. La signora Dalloway scelse fiori rigidi e maestosi per la sua festa, mentre io ho scelto i tulipani, che si inarcano, si piegano e continuano a crescere dopo che sono stati tagliati. Abbastanza adatti, devo dire, a un giorno iniziato con la Motorizzazione civile e tutto quel jazz.

Imbocco Cole Street, verso casa, e sulla via del ritorno saluto la signora Wong, che vive all’angolo tra Alma e Cole. In questo periodo dell’anno la signora Wong, in pantofole e vestaglia rosa, passa la maggior parte del giorno spazzando le foglie. Di minuto in minuto il vento fa cadere nuove foglie e spoglia gli alberi. L’aspetto della signora Wong non è bello: la vestaglia di spugna e la postura incurvata la fanno sembrare più vecchia. Le offro il mio mazzo di fiori extra, che accetta con un profluvio di ringraziamenti, mollando la ramazza per abbracciare i tulipani e poi me. Sorrido e mi tiro indietro. Nessuno dovrebbe chiamarmi vecchia piccola signora. Quando torno a casa, digito il codice ed entro dal pesante portone, fermandomi un momento per prendere fiato prima di fare le scale. C’è una scatola sul mio tappetino piena di brillanti limoni gialli di Meyer. Che uomo adorabile, penso con un sorriso, pur sapendo di chi si tratta. Quello del piano di sotto non molla; lo devo riconoscere. Ma è un repubblicano e possiede una pistola, quindi non ha alcuna possibilità con me. Nessuna. Sistemo il pane e i fiori sulla scatola di limoni e, con la mano libera, cerco le chiavi nelle tasche del reggiseno, salvo scoprire che la porta è aperta. Che distratta! Prendo tutto, mi guardo attorno per essere certa che non ci sia nessuno dentro, poi appoggio sul tavolo della cucina la scatola e scelgo un limone da rigirarmi tra le dita. Amo l’odore fresco del limone, quindi ne metto qualcuno nel portafrutta e li sistemo su uno scaffale in soggiorno.

Come vedrete, non conservo più i libri in ordine alfabetico, né li organizzo in base al colore dei dorsi, come facevo un tempo. Ora i libri sono organizzati in base a quali personaggi credo che potrebbero parlare con gli altri. Per questo Cuore di tenebra è vicino a Le Regard du Roi, e Il grande mare dei Sargassi si trova proprio sopra Jane Eyre. Questi ultimi erano l’uno accanto all’altro ma ho pensato che fosse meglio riequilibrare il vecchio squilibrio coloniale e dare a Rhys il sopravvento, sullo scaffale superiore. Mi allontano per un momento dai libri, distratta da un rumore, ma è solo il colpo familiare delle palle da tennis e dei palloni da basket sui tabelloni del campo, proveniente dalla scuola primaria dall’altro lato della strada. Tornando alla libreria prendo un volume a caso e salta fuori una cartolina. È una delle sue, naturalmente. Una donna fulani con orecchini di bronzo. Mi emoziono ancora e seguo con l’indice la sua scrittura, poi la odoro e sorrido. «Eu te amo. Antonio», ha scritto, con l’ultima «t» a forma di freccia, puntata in modo che uscisse dalla pagina. Sospiro, cercando di ricordare cosa voleva dire. Ricordo i suoi occhi, ricordo la prima volta che mi ha toccato, prendendo la mia mano, aiutato dall’oscurità. Eravamo seduti in un cinema a vedere chissà cosa, quando il suo pollice tracciava cerchi nel palmo della mia mano e mi servì tutta la mia concentrazione per smettere di gemere ad alta voce.

Era sempre gentile, tranne quando non lo era, nel qual caso, qualche volta, era ancora più eccitante. Ma furono le sue parole, più di tutto, che mi avvicinarono a lui, e le sue lettere d’amore, piene di tenerezza e di desiderio.

Torno in cucina e mi faccio un tè. Stando al lavello nella posizione tadasana, faccio vagare lo sguardo sulla città. Penso alla signora Manstey nel suo solitario appartamento di New York. Poi, la lavatrice del vicino fa un rumore sordo alla fine di un ciclo di lavaggio. Sento un altro rumore: solo che stavolta è inconfondibile. Sono sorpresa, non per il fatto di notarlo, ma dall’ondata di desiderio che invade il mio corpo quando metto giù la tazza di Harrods verde e mi sposto lentamente in soggiorno. I gemiti sono diventati più alti, così come il rumore crescente che dà il ritmo alla coppia di amanti nell’appartamento vicino. Mi siedo sul divano, mi stendo sul futon, sorridendo mentre penso con chi potrei condividere questo inaspettato aumento del mio desiderio. Dawud mi viene in mente per primo, odore di falafel e di lillà mentre siamo stesi insieme, le nostre gambe sovrapposte. Sposto un cuscino con un calcio e il vicino prende il posto di Dawud, le sue mani callose che stringono il mio seno mentre mi massaggia, dolcemente, i capezzoli. Ma presto, inevitabilmente, sono le dita di Antonio che scivolano tra le mie cosce, il suo respiro che mi fa il solletico sul collo. Chiudo gli occhi mentre sussurro il suo nome, poi, lasciandolo andare, lo abbandono per il calore provocato dal mio stesso tocco. Solo più tardi, mentre sono ancora stesa, penso di nuovo ad Antonio e vorrei che fosse qui, steso accanto a me. Noi due, appiccicati. Tiro su il braccio da dove, a sorpresa, l’ho messo, lo passo sulla testa e poi mi aggrappo al mio seno.

Devo essermi addormentata per un bel po’ perché, quando mi alzo, tutto attorno a me è calmo. Riannodo la mia veste e restituisco a un cuscino la sua forma. Trovo gli occhiali sul bancone della cucina e sorrido quando vedo il mio riflesso nella pancia del bollitore argentato. Mi avvicino, ricordando quando Antonio chiamava i miei occhi «briciole d’amore». Un verso, mi disse, rubato da Cummings. Mentre aspetto che bolla l’acqua, mi tornano in mente alcuni nostri segreti e mi manca. Poi ricordo a me stessa che forse non mi manca lui, ma l’idea di lui. Quanto spesso mi sono sentita sola, anche con qualcuno. Più sola, a volte, di quando sto da sola. Sollevo la bustina del tè, la strizzo e la metto a lato del bollitore. Con dolcezza, come il tocco del pollice di Antonio, mescolo e mescolo finché non c’è più zucchero sul fondo della tazza. «Voglio un po’ di zucchero nella tazza», canticchio, ballando allegramente verso la camera da letto per dare un’altra occhiata alle mie scarpe nuove.

Quest’anno le scarpe sono rosse e scamosciate e, sebbene non siano economiche, o forse proprio perché non lo sono, sono meravigliose. «Assolutamente meravigliose», sussurro, liberando le mani per provarle. Ho due tradizioni del compleanno. La prima è comprare scarpe, e quest’anno le scarpe hanno una zeppa accettabile e la punta aperta. All’esterno sono di un rosso profondo, scarlatto, e, poiché è un compleanno importante, abbino le scarpe al mio vestito di chiffon nero, con un doppio giro di perle. Perle che mi hanno accompagnato ovunque, dal pranzo con la signora Gandhi al tè a Buckingham Palace e a questo piccolo posto, dove devo organizzarmi per sostituire lo specchio grande, rotto. Salgo sul bordo della vasca e mi appoggio alla porta per stare in equilibrio. In questo modo posso vedere sia le scarpe sia il vestito nello specchio e immaginare proprio qui, dove metto il palmo della mano, lo spazio per un tatuaggio. Perché questa è la mia seconda tradizione, fare qualcosa di nuovo e diventare sempre più audace nel corso degli anni. L’anno scorso è stato un corso di immersioni, l’anno precedente imparare a nuotare. Quest’anno è il tatuaggio, e non è solo il fatto di fare un tatuaggio, ma dove ho intenzione di farlo che mi eccita. Ho deciso che sul polso o sulla caviglia sarebbe troppo ordinario e questa è la ragione per cui vorrei parlare con la mia amica del forno. Vorrei chiederle cosa pensa di una bougainvillea, di un lungo filo sottile di bougainvillea che si snoda sulla schiena. È una buona idea? È anche il motivo per cui ho comprato i tulipani di due colori, per sapere quale gradazione lei consiglierebbe o se suggerisce di non colorarlo… solo il semplice nero. Sono neri o di un verde intenso i tatuaggi che vanno per la maggiore oggi? E quale colore starebbe meglio sulla mia pelle scura? La mia amica del forno ha un dragone cinese che si diffonde sulla schiena, con le zampe appollaiate sulla sua coscia. Me l’ha mostrato spontaneamente un giorno, e mi ha spiegato che è il simbolo della sua famiglia. Mi ha detto che ha dovuto farlo in tre sedute per gestire il dolore. Mi chiedo quanto ci vorrebbe a fare i miei fiori. Non troppo, spero, perché non mi piacciono gli aghi. Rabbrividisco al pensiero di tutte le vaccinazioni che si fanno da bambini per delle brutte malattie. Tetano. Tifo. Dissenteria. Febbre gialla. Mi chiedo se non sia meglio scegliere un disegno più piccolo. Forse potrei farmi solo uno sprazzo di bougainvillea – qualcosa della misura di uno dei regali di Dawud – tatuato alla base del collo. Non avrei mai il coraggio di farmi tatuare qualcosa di grande quanto un dragone, ma potrei farmi fare un fiore piccolo, sottile, simbolo del clima tropicale che amo tanto. Sì, inizio a pensare che sia una buona idea. Cosa potrebbe essere migliore per celebrare il mio settantacinquesimo anno di età? Mi giro per vedermi meglio e, nel mezzo della giravolta, scivolo.