«È fortunata», dice la direttrice delle attività al centro di riabilitazione Vita Buona.
«Sì», replico, perché so di avere avuto la fortuna che un mio vicino fosse a casa e mi avesse sentito cadere. E so che i danni avrebbero potuto essere ben peggiori. Se non avessi provato dolore, avrei potuto rispondere in modo più espansivo; invece, faccio un respiro profondo disponendo il mio corpo all’immobilità e alla calma. Ma oggi il mio corpo non vuole avere niente a che fare con la sua vecchia parte yogi. Sono esausta e non mi piace che qualcuno mi abbia messo addosso una t-shirt slabbrata senza reggiseno. E non mi piace il fatto che questa donna dal profumo dolce possa notare il mio alito puzzolente del mattino. Quindi abbandono il mio anahata e giro la testa, guardando lo scaffale degli antidolorifici.
«Cosa le posso dare?» mi chiede.
«Niente, sto bene», rispondo, perché ora che ho trovato gli occhiali posso vedere che lei non è molto più giovane di me. «È solo che non mi piace sentirmi così disorientata.»
«È per i farmaci, dolcezza, sono ancora in circolo nel suo corpo. Deve cercare di resistere.» Mi stringe la mano dolcemente.
«Forse ho solo bisogno di qualcosa per distrarmi.» Mi tiro su per non restare in una posizione tanto indifesa.
«Quando è pronta», dice, «abbiamo molte attività. Abbiamo dei momenti danzanti, come sta accadendo mentre parliamo, il club del lavoro a maglia, il club del cucito… Ci sono anche la camminata veloce, l’hula hoop e l’iPad 101, che abbiamo appena aggiunto.»
«I libri sono quello che realmente amo», replico, agitando la mano libera.
«Ha visto la biblioteca?»
«No.» I libri che voglio sono i miei libri, ma lei ha già iniziato a parlare in modo entusiastico della biblioteca. Con orgoglio elenca alcuni autori dei quali avremmo potuto parlare, se li avessi sentiti nominare, ma non conosco nessuno di quei nomi. Temo che nessuno di loro abbia grandi meriti letterari. Poi il telefono della donna suona e lei si scusa perché mi deve lasciare sola. Da un certo punto di vista, sono sollevata. Ora che se n’è andata, cerco sul comodino l’unico libro che ho e crollo nel letto. So che sono fortunata, lo so, ma non mi piace essere così fragile e sentirmi fuori controllo.
Avevo messo il libro nel mio kit per il terremoto, anni fa, poi mi ero dimenticata di entrambi, ma chiunque mi ha trovato dopo la caduta deve avere visto la borsa vicino al letto e pensato che fosse la mia borsa di tutti i giorni. Divertente come questa borsa d’emergenza mi abbia seguito anche se non si tratta dell’emergenza che avevo previsto. Mi aspettavo terremoti e tsunami. Ma la vita non è forse questo? C’è sempre l’inatteso, quegli eventi non pianificati, che ti fregano, alla fine. Non ho mai amato toccare o annusare questa borsa di pelle di serpente, ma l’ho tenuta per un senso di nostalgia. Un anziano commerciante hausa me l’ha venduta a Kano e, poiché l’ho comprata al mercato con mia madre e il commerciante ha insistito sul fatto che mi avrebbe portato fortuna, non me ne sono mai separata. La buona fortuna che avrei voluto da bambina era che Dio mi facesse guarire dalla miopia. Una volta ho letto di una ragazza che aveva perso gli occhiali, aveva pregato di ritrovarli ed era stata sorpresa dal fatto che Dio l’avesse accontenta curando la sua vista. Questo era il miracolo che avrei voluto. Avevo anche l’abitudine di sfregare la borsa come una lampada di Aladino, finché ho pensato che a Dio avrebbe potuto dare fastidio. Sfregare lampade confidando nella magia non è esattamente un comportamento cristiano. Probabilmente ho compromesso le mie opportunità.
Ma forse, dopo tanti decenni, questo potrebbe essere il «momento buona fortuna» che il commerciante aveva previsto, anche perché non c’è altro a tenermi occupata: un letto, una sedia, un bagno, un comò con il televisore e un contenitore con le violette africane sul davanzale. I piccoli fiori viola posizionati in un contenitore di plastica poco profondo che una volta dev’essere stato la vaschetta del pranzo di qualcuno. Ora che il dolore inizia a ridursi, chiudo gli occhi e mi concentro sul respiro. Inspiro, espiro. Che terribile elenco di attività offre questo posto. Scivolo nel sonno e immagino paracadutismo e danza del ventre. Poi sogno una gara di macchine da corsa nel deserto, con Ranuncolo e io che oltrepassiamo la linea del traguardo in una nuvola di polvere rossa.
Mi svegliano le voci che vengono da fuori. Parlano spagnolo. Qualcuno nomina una festa e poi c’è una risata. Sono infastidita da quanto rumore fanno, mentre cerco di posizionare il busto nel modo meno doloroso possibile. Tossisco per schiarire la voce e cerco sul comodino un bicchiere d’acqua. In realtà, trovo gli occhiali e il libro, e tento di rincuorarmi con il pensiero della mia casa e dei miei libri, che aspettano il mio ritorno. Ho i libri che erano di mia madre in camera da letto. Tutti i suoi Beatrix Potter sono su scaffali sottili, dietro le ante di vetro di un armadietto. I dizionari e i magazine sul pavimento e tutto il resto dove capita. Caesar non avrebbe approvato. Avrebbe detto che la stanza è troppo in disordine.
Avevo ventidue anni quando ci siamo sposati, Caesar trentasette. Era più giovane di mio padre, ma neanche tanto. Aveva la sicurezza e la consapevolezza di mio padre, ma, a differenza di lui, Caesar viaggiava in tutto il mondo ed era laureato, il che significava che parlava da persona istruita (non solo in base a opinioni personali) di quello che sarebbe stato meglio per la Nigeria, di quello che sarebbe stato meglio per il nostro continente. Ero fiera del modo in cui le persone ascoltavano Caesar, del modo in cui si avvicinavano a lui per non perdere neanche una parola di quello che diceva. Parlava a voce bassa, a volte in modo quasi impercettibile, che era una delle caratteristiche che inizialmente mi attirarono. Ma nel tempo questo manierismo perse il suo fascino e iniziai a considerarlo nulla di più che un esercizio di seduzione. Persi la fiducia nella politica e divenni insofferente nei confronti di coloro che si aggrappavano a ogni parola di mio marito, soprattutto nei confronti delle donne, che lo adulavano, convincendolo che avrebbe dovuto e avrebbe potuto essere il futuro presidente della Nigeria.
* * *
Antonio all’inizio era un amico di Caesar. Venne in Nigeria come primo ambasciatore di colore del Brasile. Era un fotografo e fu subito amato sia dall’élite di Lagos sia dalle persone che vivevano in strada o nei villaggi, che gli piaceva fotografare. Era più giovane di me di molti anni e un seguace della religione Candomblé: due ragioni in più (oltre al fatto che fosse amico di Caesar) per le quali non avrei mai immaginato di innamorarmi di uno come lui. Ma non mi aspettavo neanche di sposare qualcuno che fosse già sposato. Alla fine fu Antonio, non il predicatore, che seguii, quando scoprii della prima moglie di Caesar.
Antonio era il tipo di uomo che aveva sempre tempo per me, l’uomo per il quale lo sfarzo e le cerimonie non contavano nulla, l’uomo che poneva domande tutt’altro che superficiali. L’uomo che scattava fotografie e credeva nel potere dell’arte, che riteneva che l’arte potesse cambiare il mondo. A volte mi bastava rievocare quando ci sfioravamo le mani per eccitarmi, e pensare a come sarebbe stato se avessimo fatto qualcosa di più. Immaginavo molti atti proibiti, molti posti nei quali avremmo potuto viaggiare insieme, dove avremmo ballato, riso e fatto l’amore. Mi immaginavo spavalda, anche quando lottavo con la paura di tradire mio marito (nonostante lui avesse tradito me) e la paura di essere svergognata davanti a tutti i nostri amici e alla dolce moglie di Antonio. Ma, più di tutto, avevo paura di deludere mio padre, che si era già vergognato molto per la morte di mia madre.