Il messaggio non dice altro se non il nome di Morayo. Niente sul come e sul quando, solo un numero da chiamare per avere maggiori informazioni. Ci ho messo un po’ a trovare qualcuno che sapesse di cosa si parla, ma alla fine un’infermiera conferma che Morayo è in ospedale, che è caduta e che la stanno sottoponendo a un intervento all’anca. Sconvolta, mi vengono in mente le mie molte promesse di bere un tè insieme e di portarle i bambini. Ogni settimana c’era qualche scusa e non andavo.
L’ospedale Saint Mary non è lontano dalla scuola dei bambini, così, la mattina seguente, dopo essere andata a prenderli, compro dei fiori e la raggiungo in auto. Non avevo controllato l’orario delle visite, ma avevo deciso che, se qualcuno me l’avesse chiesto, avrei detto che sono sua figlia. Comunque, sono sicura che Morayo mi avrebbe presentato così allo staff dell’ospedale: «Sunshine, mia figlia». Prendo l’ascensore fino al settimo piano, contenta che nessuno mi fermi. Il letto di Morayo è isolato da un paravento di plastica a fiori; la trovo supina, che respira con la bocca. Con delicatezza le tocco il polso e mormoro: «Ciao». Pochi capelli bianchi dritti spuntano sulla sua testa, nonostante le sopracciglia scure. Mi rattrista vederla così stanca, e più vecchia dell’ultima volta. Batto la mano sulla sua e le sussurro che tornerò. Devo mettere i fiori nell’acqua. Avrei dovuto farlo prima.
In infermeria sono occupati, ma dopo pochi minuti qualcuno si offre di aiutarmi e, dopo qualche altro minuto ancora, mi danno un bicchiere di plastica. Non è elegante ed è troppo piccolo, ma farò del mio meglio per farci stare i fiori preferiti di Morayo, mentre la stessa infermiera che mi ha aiutato ora si occupa di lei.
«Salve signora Da Silva», le dice. «Come si sente? Ha sonno? C’è una visita per lei». Poi, rivolta a me: «Sono i farmaci, sa, che causano la sonnolenza. Signora Da Silva?» Continua a chiamarla finché Morayo apre gli occhi, li strizza verso l’infermiera e poi verso di me.
«Ciao», sussurra Morayo, con un sorriso di riconoscenza che le illumina il volto. Prova a sollevare la mano dalla coperta, ma la rimette giù quando vede la flebo attaccata sul dorso.
«Sono contenta che tu stia bene», le dico accarezzandole il braccio.
«Sunshine?»
«Sì», sorrido.
«Va tutto…?»
«Va tutto bene», rispondo, notando la sua difficoltà nel parlare.
«Sarà stanca nei prossimi giorni», spiega l’infermiera, mentre gli occhi di Morayo vagano per un momento e poi si chiudono. «Deve ‘disintossicarsi’ e poi fare la riabilitazione. La cosa buona è che, in genere, il ricovero per l’intervento all’anca è breve. È quello che succede dopo che richiede attenzione, dolcezza. Deve continuare a muoversi, per evitare i trombi. Deve far tornare i muscoli di nuovo forti. Non vogliamo che cada di continuo: è quello il pericolo da tenere sotto controllo.»
Sto attenta a non toccare niente, mentre lascio l’ospedale. Premo i bottoni dell’ascensore con il gomito e, appena sono all’esterno, tiro fuori delle salviette, mi pulisco con cura le mani e le passo sulle braccia, poi le butto via. Lo faccio una seconda volta, per sicurezza, prima di controllare i messaggi sul telefono.
Conosco bene l’edificio di Morayo. Dieci anni fa vivevo lì ed è così che ci siamo conosciute, in un pomeriggio carico di emozioni. Dovevo ospitare mio suocero e lo sforzo di essere la nuora diligente e affettuosa in un appartamento troppo piccolo, con Zach ancora con i pannolini e Avi appena nato, con le coliche, mi aveva provata molto. Mi ero rifugiata nella lavanderia, cercando di non perdere la testa, ma, appena Morayo mi ha chiesto cosa ci fosse che non andava, sono scoppiata a piangere. Come accade spesso di fronte alla gentilezza inaspettata degli estranei, le ho raccontato tutto, come mi sentissi inadeguata, perché credevo che per quanto mi sforzassi non sarei mai stata abbastanza brava per mio suocero: non abbastanza signora, non abbastanza sottomessa, non abbastanza istruita, ma, soprattutto, non abbastanza indiana. Quest’ultima cosa era quella che mi faceva arrabbiare di più, ma Morayo mi ha tranquillizzato dicendo: «Non esiste, cara, essere ‘abbastanza indiana’, non c’è una sola cultura indiana». E, poiché aveva l’età di mio suocero e aveva vissuto sia in India sia in Africa, le ho creduto.
Quando arrivo a casa di Morayo e apro la porta sono sorpresa nel vedere quanto sia calda, polverosa e disordinata. «Mio Dio», mormoro, guardando tutti i libri e i giornali. Quando sono stata qui l’ultima volta? Non molto tempo fa… I libri sono ovunque, sparsi tra gli scaffali, alcuni con i dorsi rivolti verso l’interno, altri verso l’esterno. Sugli scaffali nessun libro è in ordine alfabetico, anche se qualche mese addietro abbiamo passato una giornata intera mettendoli in ordine alfabetico. Come i giocattoli abbandonati dei bambini, scopro molti altri libri infilati nei cassetti e negli armadi. Niente sembra in ordine e, se non conoscessi bene Morayo, potrei dubitare della sua sanità mentale. Ma non c’è niente di sbagliato in lei. O c’è? Giornali e bollette non aperte sono impilati su un tavolo. Come avrei potuto trovare il tempo di pulire tutto? Avrei dovuto assumere qualcuno, ma non c’è più tempo neanche per questo. Quello che posso fare oggi è accertarmi che le luci siano spente, che nel frigorifero non ci sia niente da buttare e prendere un po’ di libri da portarle alla mia prossima visita. «Ma quali libri, porca miseria?» Nella sua camera da letto ne trovo due nuovi, compreso il memoir di Maya Angelou. Almeno ne ho sentito parlare. Morayo mi dà sempre libri da leggere, ma la maggior parte mi sembrano troppo impegnativi, quindi sono sorpresa di trovare una pila di romanzi rosa accanto al suo letto. «Non è quello che mi sarei aspettata da te, professoressa Morayo», dico con un sorriso. Ma forse non dovrei essere sorpresa: Morayo era così disinvolta, aperta, non convenzionale rispetto alla maggior parte delle persone anziane. Probabilmente sono poche le donne della sua età che decidono di spendere i loro risparmi per comprare una macchina sportiva. Vado in cucina, svuoto molte tazze di tè e le sciacquo velocemente. Sto per andarmene quando sento un fruscio. Mi giro e, vedendo cosa c’è appollaiato sul fornello, urlo. Il topo sparisce dietro il fornello per incontrare quella che immagino essere una moltitudine di fratelli e sorelle.
Chiamo Francisco, l’uomo che mi aiuta a fare i lavori sporchi. Due giorni più tardi lo lascio a casa di Morayo, per sistemare le cose e, quando torno, la casa è meravigliosamente trasformata. Le superfici sono pulite e i libri sono dritti sugli scaffali. Quelli troppo grandi sono suddivisi in pile, due file di pile, esattamente come avevo chiesto.
«E il topo?»
«Andato», dichiara Francisco. «Ma mi faccia dire una cosa: credo che questa donna nasconda soldi ovunque. Li ho trovati nei libri; li ho trovati in cucina. Sono dappertutto… come se avesse paura di andare in banca o qualcosa del genere. Non lo so, ma qui, guardi…»
Mi passa un mazzo di banconote; c’è di tutto, da un dollaro a cento, molti di questi ultimi.
«Forse dovrebbe dirle di non mettere i soldi in tutti questi posti.»
«Lo farò. Grazie. E gli altri libri?»
«Quelli malmessi? Li ho buttati.»
«Cosa?!» esclamo con un sussulto. «Non le ho chiesto di farlo. Ho detto di buttare i vecchi giornali, non i libri.»
«Mi ha detto di buttare tutte le cose vecchie.»
«Ma no, non ha…» mi fermo. Stavo per dire: Non ha capito bene, ma ho visto dall’espressione affranta di Francisco che avrei peggiorato la situazione. L’ultima cosa che voglio è che si offenda sentendomi dire che il suo inglese non è buono. Si lamenta sempre delle persone che hanno pregiudizi contro i «latini», e non voglio che mi consideri l’ennesima razzista. «Va bene», dico, «ma ora dobbiamo riprenderci i libri.»
«Vuole che cerchi nella spazzatura?» domanda, alzando un sopracciglio. «È una grande spazzatura.»
Quando vado nel seminterrato, non vedo i libri. Ovunque Francisco li abbia messi, sono sepolti sotto la spazzatura degli altri: pizza e scatole di cereali, bottiglie di vetro, lattine e plastica. Moltissima plastica! Per un attimo penso di svuotare la spazzatura sul pavimento ed esaminarla. Maledizione. Ormai i libri saranno ancora più rovinati. Quindi mi dico che non è un disastro come sembra. Forse molti di quei libri avrebbero dovuto essere buttati comunque. Morayo ha così tanti libri, troppi libri, più di quanti possa contenere la sua casa. Quindi lascio il seminterrato, e il giorno dopo la spazzatura è vuota.