Sunshine mi ha detto al telefono che sono solo tre giorni, ma mi sembra molto di più. Forse ha mentito sul numero, per farmi stare meglio. Voglio solo tornare a casa.
Le notti sono la parte più dura, quando sento i vicini che hanno incubi e le infermiere che trafficano nei loro ampi pantaloni di cotone, con le scarpe dalla suola di gomma. Cerco di non sentire le urla, ma questo non aiuta molto e mi spavento sempre quando le tubature nella mia stanza iniziano a scricchiolare e a emettere una specie di rantolo. Qualche volta anch’io ho degli incubi. Sogno che qualcuno mi sta attaccando e, quando grido per chiedere aiuto, non esce alcun suono. Mi sveglio con un senso di soffocamento, boccheggiando. Mi hanno dato un pulsante antipanico, immagino per casi come questo, ma non so chi viene se lo premo, quindi non lo faccio. Mi piacerebbe solo che mi lasciassero chiudere la porta. Ancora meglio, mi piacerebbe essere abbastanza forte per bloccarla con un mobile. So che dovrei trovarmi al sicuro qui, ma so anche che non si può mai essere sicuri.
C’è una donna molto graziosa di nome Bella e spero che faccia le notti. Mi farebbe sentire più al sicuro, ma, poiché non le fa, sto all’erta nel buio. Penso a tutti i miei amici in città e ad altri in giro per il mondo che non sanno che sono qui. Non voglio che le persone mi vedano qui. È deprimente, per questo l’ho detto solo a Sunshine. Quindi aspetto che il blu della notte svanisca nell’alba e solo allora, quando il caldo odore di sciroppo d’acero entra da sotto la porta, mi permetto di riposare.
Per tranquillizzarmi e impedire alla mia mente di vagare in cerchi concentrici, chiudo gli occhi e inspiro profondamente, immaginando l’odore di moin-moin e akara. «Anche il porridge potrebbe andare bene», sussurro a me stessa, immaginando Riccioli d’oro versus Capelli africani, un attimo prima l’arrivo di Bella con i pancake e ciò che li accompagna: confezioni mignon di gelatine all’uva e panetti di burro così freddi che si dispongono come caramelle dure sulla superficie dei pancake, rifiutandosi di sciogliersi.
«Stai in guardia», mi ripeto.
Qualche volta penso che sto perdendo la memoria. Mi ricordo meno cose in questi giorni, stando a letto tutto il tempo, e sono preoccupata. Diventerò un’altra donna vecchia con l’Alzheimer? E chi si occuperà di me? Ricordo solamente di una persona pazza, conosciuta da bambina… uomo o donna, non me lo ricordo. Era una donna a petto nudo che si era tolta l’abito scoprendo una sottoveste fatta a pezzi e sporca? Urlava e si strappava i capelli? O questo flashback viene dal libro della mia immaginazione? Oppure era un uomo con capelli folti, aggrovigliati e infestati dai pidocchi? Era l’unico uomo con la barba che abbia visto in quei giorni, non mi avvicinavo mai troppo per paura che la sua sfortuna mi contagiasse. Tutti i bambini sapevano che da qualche parte tra le gambe dell’uomo pazzo penzolava un enorme pene. Oscillante. Minacciosamente.
* * *
A pranzo e a cena è l’odore di patate bollite che qui riempie l’aria. Mi ricorda i giorni del collegio, quando il merluzzo e le patate bollite erano serviti di venerdì. La «torta del Pastore», un pasticcio di carne, di sabato, e agnello arrosto e patate bollite la domenica. Tutto seguito da una tremolante crema di farina di mais o da gelatine di frutta. Non credo che mia madre abbia mai preparato patate. Cucinava riso, setacciandolo con cura prima di bollirlo, permettendomi di passare le dita in quel vassoio di perle bianche alla ricerca di pietruzze nere, che dovevano essere eliminate. Ricordo che il riso arrivava dall’India e veniva conservato all’interno di una profonda borsa di paglia bianca in una dispensa buia, con un coperchio di legno sopra. È solo dal collegio in poi che avrei associato l’odore di patate bollite al pianto disperato dei gabbiani dell’Est, e la corrispondenza tra il grigio dei suoi cieli e quello delle spiagge di ciottoli. Ora non è diverso da quelle notti solitarie a faccia in su nel mio letto, nel dormitorio della scuola, piangendo perché mia madre era morta e mio padre era molto lontano.
La mia prima sera mi trasportarono nella sala da pranzo, ma non ci sono più tornata. Ricordo l’uomo che ripetutamente sollevava una forchetta vuota dal piatto e la portava alla sua bocca sdentata. Uno degli assistenti ogni tanto lo aiutava, ma appena se ne andava per aiutare qualcun altro, lui ricominciava a versare aria nelle sue gengive. Ho chiamato il povero uomo Santiago: colui che tenta di non pensare, solo di resistere. Per questo preferisco stare nella mia camera, in compagnia dei miei pensieri e del mio libro di poesia, deliziandomi con Satin-Legs Smith.