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Ornamento di separation

Avevo programmato, una volta andata in pensione dall’università, di misurarmi con la scrittura di un romanzo ambientato in Nigeria. Questo non rientra nel mio elenco di cose nuove e coraggiose da fare per il mio compleanno; ma forse avrebbe dovuto, visto che ho trovato la scrittura molto più difficile di quanto credevo. Ho chiamato la mia protagonista Joslyn: un riferimento alla mia città natale di Jos e alla mia più cara amica d’infanzia, Jocelyn, la figlia del domestico. Ho sempre sperato che Jocelyn sposasse un uomo buono, desse alla luce bambini sani e vivesse una vita felice; ma abbiamo perso i contatti quando sono andata in collegio, quindi non ho mai saputo cosa le è successo. Il libro avrebbe dovuto essere anche la storia di una vita immaginata e sperata. Sarebbe stato una lettera d’amore sia alla mia amica sia a Jos, dove entrambe siamo cresciute. Sebbene sia tornata a Lagos più volte dai tempi della mia infanzia, a Jos sono tornata una volta sola e mai dopo gli scontri scoppiati tra cristiani e musulmani, e mai dall’arrivo di Boko Haram. Ho sempre sperato di ritornarci con mio padre, ma dato che è morto non ci sono riuscita. Una mattina, mentre bevevo il caffè nella mia cucina di San Francisco, ho aperto un giornale e ho trovato una foto scattata dall’alto di corpi a Jos, avvolti in una stampa africana colorata. Da una certa distanza sembravano quasi belli, disposti come pastelli in una scatola gigante; finché ho letto il titolo e ho osservato più da vicino, e ho visto che alcuni corpi erano distrutti e molti imbevuti di un rosso cupo che nulla aveva a che fare con il colore originario del tessuto. L’articolo forniva dei dettagli sul massacro. Non credo che fosse la mia Jocelyn, ma se lo fosse stata? Il suo nome era scritto nell’articolo, testimone oculare di come la gente fosse in preda al terrore e salisse sugli alberi per salvarsi. Le persone dovevano aver pensato di essere al sicuro sugli alberi di mango sotto lo spesso tetto di foglie verdi dove ci nascondevamo da bambini. Invece no, secondo questa Jocelyn, quei pazzi criminali hanno trovato le persone anche lì, e hanno appiccato il fuoco; alcuni bruciavano, mentre cadevano. Era l’11 settembre 2001.

Iniziai a spedire soldi a casa, agli orfani, anche se non ero sicura che arrivassero a quelli più colpiti. Ci si sente meglio a fare qualcosa anziché niente. Benché mi sembrasse impossibile che fosse accaduto nella mia città, il posto in cui ero cresciuta, e che una volta avevo descritto come il più caloroso, il più generoso sulla faccia della Terra, dove i genitori danno regolarmente un’occhiata anche ai figli degli altri o li puniscono, se necessario; il posto in cui ognuno cucina per un numero di persone maggiore di quello che c’è in casa, nel caso arrivassero altri; il posto in cui gli anziani non sono mai chiusi in baracche dall’aria viziata, seduti per ore ad aspettare la morte; il posto in cui i fruttivendoli abitualmente regalano ai clienti più affezionati qualche guava o una ciotolina di pomodori per lo stufato della sera, qualcosa di piccolo, gratis; il posto in cui le persone chiedono scusa quando qualcuno inciampa, cade o ti urta, parole che sono lo specchio di una cultura basata sull’empatia, che non ha nulla a che fare con chi è il «colpevole»; il posto dove i musulmani celebrano il Natale e i cristiani rompono il digiuno durante il Ramadan con le loro sorelle e i loro fratelli musulmani; il posto dove gli uomini adulti si tengono per mano e le donne adulte camminano a braccetto; il posto dove il termine «cugino» non è mai usato perché tutti i cugini sono fratelli o sorelle; il posto dove le domeniche si passano facendo visita ad amici e parenti; il posto dove matrimoni, funerali, nascite, battesimi, lauree, partenze, feste comandate sono aperti a tutti e solenni; il posto dove tutti conoscono la tua famiglia; il posto dove le atrocità che studi a scuola nelle ore di storia, che riguardano i tedeschi, i russi, i giapponesi, i cinesi, i nicaraguensi, i boeri e tutte quelle persone straniere, non sarebbero mai potute succedere a te o a un tuo caro. Mai. Finché un giorno successe. E fu anche peggio.

Poiché Joslyn non somigliava più a quella che avevo immaginato, e poiché la bella vita che avevo sperato per lei e per i suoi bambini sembrava improbabile, misi via il manoscritto, sullo scaffale più alto, dove pregai che il mio personaggio fosse al sicuro, lontano dal pericolo. Tornai in compagnia dei miei vecchi amici letterari e di tutti quei personaggi di cui per anni avevo parlato a molti studenti. Iniziai da Cecità e da Luglio, perché se fosse sopravvissuto qualcuno sarebbero state la moglie del dottore e Maureen. Poi mi sorpresi a buttare giù nuovi capitoli nel mio quaderno e a cambiare il finale delle storie, così che alcuni dei personaggi femminili che non potevano fare certe cose nella versione originaria, nella mia potevano. La signora Manstey non muore in un incendio, Firdaus non sarebbe stata giustiziata e Magda non sarebbe diventata pazza. Ofelia non sarebbe impazzita. Diouna non sarebbe impazzita. Tess non sarebbe impazzita. Nemmeno Jane Eyre o Antoinette Cosway. E quando mettevo una nuova vita in una storia ero soddisfatta, fino alla mia successiva lettura; a quel punto dovevo aggiungere un capitolo o togliere un personaggio e metterlo in un altro libro. Mi provocava frustrazione non avere finito la storia di Joslyn. Avevo bisogno di un’anima generosa, di un personaggio che avrebbe potuto cambiare le cose, cambiarle davvero. Così ora, stando in un letto senza niente da fare, mi ritrovo a interrogarmi in cerca di altri personaggi. Penso a come sarebbe se rivisitassi personaggi che non leggo da tempo. Cosa succederebbe se Magda potesse mettere in salvo sua figlia, nelle mani di una donna tedesca buona? Affidarla alle braccia di una persona estranea che l’avrebbe cresciuta con amore, come qualcuno potrebbe aver fatto con i figli di Joslyn. Pensare a questo mi rende ancora più impaziente di andarmene, di tornare a tutti quegli spessi segni a matita fatti quando ero una giovane studentessa e alle note, con un carattere più piccolo, aggiunte negli anni per capire quali altri personaggi e trame avrei dovuto inserire nella mia storia.

Avrei voluto portarmi più di un libro. Controllo di nuovo la mia borsa per il terremoto, perché sembra abbastanza robusta da poter contenere un altro libro. O due? Se così non fosse, perché cavolo è così pesante? Acqua. La prossima volta devo ricordarmi di non preoccuparmi così tanto dell’acqua. Cos’altro? Sento qualcosa di ingombrante nella tasca interna e, appena lo tiro fuori, mi ricordo. Nascosti nella tasca interna ci sono due assorbenti, formato gigante con le ali, e, nascosti al loro interno, ci sono il mio passaporto inglese e alcune banconote da cento dollari. «Che fortuna», sorrido. «Ricordati di questo, Morayo. Un passaporto. Millecinquecento dollari.» E se ci fosse un’emorragia, quale rimedio migliore di un assorbente per fermare il sangue?