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Ornamento di separation

Ricordo quando ho visto Morayo in passato, camminando a Cole Valley. Non ci siamo parlati, ma ci siamo fatti un cenno, da persona nera a persona nera. Credevo fosse afroamericana finché l’ho sentita parlare e poi, stando al suo vago accento britannico, mi sono chiesto se anche lei venisse dai Caraibi. Originariamente. Di certo aveva classe, come si notava dai suoi modi e dai suoi vestiti. Una volta l’ho vista seduta da sola in uno dei locali dei dintorni con una tazza di tè, un croissant alle mandorle e un libro. Ho immaginato che un cameriere arrivasse con un piatto di salmone affumicato, tartufi e caviale. Non che quel caffè su Cole Street avesse cibi così raffinati, ma lei, seduta lì, così alta e posata, rendeva possibile ogni cosa. Così, che sorpresa, ma anche che choc, trovarla mesi dopo qui, nella Casa, quasi ordinaria, con semplici pantaloni e t-shirt slabbrate. Ci sono persone che non ti aspetteresti mai di trovare in un posto come questo, alle prese con la riabilitazione.

«Reggie Bailey», mi presento, quando ci incrociamo nella hall.

«Morayo Da Silva», risponde. «Piacere.»

«Piacere mio, Morayo; posso chiamarla così?» Vorrei chiederle perché è qui, se posso fare qualcosa per lei. Ma il suo fisioterapista la sta aspettando e non mi è mai piaciuto quell’uomo che pensa di avere un fisico eccezionale, mentre non è così. Quindi li lascio educatamente soli e vado dove aspetterò che mia moglie sia pronta.

In genere arrivo nella Casa in tempo per fare colazione con Pearl e mi trattengo per tutto il giorno. Me ne vado dopo cena, prendendo lo stesso autobus dell’andata. È meno costoso e non devo preoccuparmi del parcheggio. Sono qui quasi ogni giorno, ma mi sento colpevole ugualmente. Le infermiere mi dicono che non c’è bisogno di me, che a volte è più facile quando non ci sono; so che è vero, soprattutto quando Pearl deve essere lavata, ma questo non mi impedisce di stare malissimo. Per mesi ho tentato di occuparmi di lei da solo e, quando eravamo soltanto noi due, lei non si agitava. Naturalmente so che non c’è uno schema nella malattia, che non c’è una razionalità nei pensieri accidentati che stanno facendo a pezzi il cervello di mia moglie, eppure non smetto di cercare una spiegazione logica. E, sebbene nei giorni più lucidi Pearl insistesse sul fatto che dovrei iniziare una nuova vita senza di lei, ricordando solo i bei tempi, è una cosa che non potrei mai fare. Al suo posto, non avrei voluto restare da solo. E so che se fosse una persona che chiede ciò di cui ha bisogno, anziché pensare sempre prima agli altri, mi avrebbe chiesto di restare.

Sono seduto in giardino, mentre le fanno il bagno. Tra poco tornerò da lei. Sarà pulita e non si ricorderà più niente del bagno. Ma per ora me ne sto al sole, su una panchina, di fronte all’ingresso principale. Le persone vanno e vengono, registrate in entrata e in uscita da una receptionist che dà le spalle al mondo esterno limandosi le unghie e chattando. Sta tutto il giorno al telefono. Tutto il giorno. Starà bene da anziana, facendo esattamente quello che fa ora.

C’è un’entrata laterale per le consegne, ma questo è l’ingresso principale, scenografico, per visitatori e medici. Qualche volta, quando vedo i nuovi arrivi, avrei voglia di avvertirli di quanto sia progettata male la Casa. Vorrei dissuadere le persone dal venire qui, specialmente quando sembrano cattive o colleriche, per il bene di Pearl. Ce ne sono già abbastanza del primo tipo e qualcuno del secondo. Penso a Morayo e mi chiedo se sia sposata. Mi chiedo chi le faccia visita. L’ho vista con dei bambini. Nipoti, forse?

Controllo l’ora: 9.45. Avranno finito di lavarla. La asciugano con asciugamani bianchi, la vestono e le spazzolano i capelli. Poi la mettono seduta e le applicano la cipria, poi il fard, due strisce oblique e rettangolari sulle guance, o quelle che erano le guance, perché ora è pelle e ossa. Poi le lasciano scegliere un rossetto e ridono mentre glielo mettono, perché Pearl muove le labbra, il che rende difficile l’operazione. Pearl sorriderà quando la faranno specchiare per farle ammirare il loro lavoro. Le dico sempre quanto è bella dopo il bagno, che è un complimento sia a lei sia alle infermiere, che sorridono in modo così incoraggiante mentre mi sforzo di non imprecare. O piangere. Ma per adesso il sole mi riscalda, così resto ancora qualche minuto all’aperto. Stringo la palla da tennis che porto sempre con me. Se ne avessi tre, potrei provare a fare il giocoliere. Ma avendone una sola la stringo poi allento, la stringo poi allento.

Guardando le aiuole fiorite mi chiedo perché non costruiscano un campo da tennis o, almeno, dovrebbero mettere un tavolo da ping-pong al posto di tutti questi fiori. Probabilmente gli architetti pensano solo alle donne quando progettano le case di riposo, e credono che amino stare sedute e osservare con solennità il giardino per tutto il giorno. Pearl preferiva il tennis al giardinaggio, infatti il nostro giardino aveva solo uno scopo pratico, con verdure ed erbe per cucinare, anziché fiori. Ricordo Pearl con la sua gonnellina bianca plissettata, la vedo aggredire il mio servizio, andare avanti e indietro come Billie Jean King, muovendosi in maniera esagerata per farmi ridere, per distrarmi. Io ero sempre il giocatore migliore, ma lei era la giocatrice più brillante, e nel tennis la sua strategia era resistere fino a stremarmi. Scuoto la testa con una risatina.

Pearl non si truccava mai, solo una riga di eyeliner, in qualche occasione, ma mai il rossetto, non rosso. Era bella senza. Spesso cercavo di toglierle il rossetto rosso brillante che le infermiere amavano vedere su di lei. È una strana privazione dell’intimità. L’unico momento di intimità, in questi giorni, lo abbiamo avuto quando siamo stati seduti mano nella mano, come una delle vecchie coppie fotografate sulla brochure della Casa.

Non posso dire di non avere mai sperato che Pearl morisse, e non solo per il suo bene. Sogno di essere posseduto. Di essere toccato. Di essere desiderato ancora. Di essere riconosciuto. Di non avere paura di quello che gli altri un giorno potrebbero pensare di questi miei desideri, o che magari già pensano. Temo che un giorno possano impedirmi di toccarla perché non sappiamo se c’è il suo consenso. Sono anche preoccupato del giorno in cui smetterò di avere voglia di toccarla in questo modo. Preoccupato perché quel giorno da tempo va e viene. Stringo la palla da tennis, sempre più forte, prima di allentare la presa.