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Ornamento di separation

All’inizio sono rimasta a fissare la porta, mentre la sbatteva. Poi sono scoppiata a piangere a dirotto, tanto che Bella mi ha sentito da fuori.

«Cos’è successo?» chiede Bella, con il panico nella sua voce, precipitandosi. Strappa via il cuscino che mi copre la testa. «È caduta?»

«No», rispondo riemergendo con reticenza da quella posizione. «Sto bene.»

«La sua amica se n’è andata?»

Annuisco, sforzandomi di non ricominciare a piangere. Bella mi prende la mano. «Mi dispiace», dice. «A volte fa bene piangere, sa. Lasci uscire tutto.»

Per qualche minuto è tutto quello che succede tra me e lei, io singhiozzo e lei mi stringe la mano. Poi Bella dice che Dio mi ama, il che per poco mi fa scoppiare a piangere di nuovo.

«Credo che faccia la differenza credere in Dio», dice. «Perché, le persone che non credono in Dio quando invecchiano diventano arrabbiate. Si infastidiscono per tutto e non capiscono il resto del mondo.»

Annuisco, pensando a mio padre.

«Stavo pensando», continua, «di costruire un posto nel mio Paese. Un posto dove invecchiare. Meglio di qui, perché nel mio Paese, il Nicaragua, hai già il sole e il buon cibo, hai già la buona musica e i fiori e i libri belli, sa.» Ora è in piedi per mettere in ordine i libri che ha trovato sotto il copriletto. «Deve venire a trovarmi nel mio Paese.»

«Mi piacerebbe, Bella», dico e, facendo lo sforzo di sembrare allegra, sollevo con cautela le gambe dal letto.

«E stasera va a cena, no?» chiede dandomi un colpetto sulla mano.

«Ci provo.»

Abbozzo un sorriso. Basta deprimermi, mi dico. Basta incertezze. Non posso permettere che tutto questo mi abbatta. Devo solo riportare me stessa a casa e sistemare come si deve la Motorizzazione civile, la banca e l’appartamento. Quando mi abbraccia, sono rapita dal suo profumo dolce.

«Dulce y Cabana», risponde, quando le chiedo, e dal suo sorriso so che sa che so di cosa si tratta. Sa che so che è costoso, da donna di classe. Mi ha detto che la sua vita non è sempre stata dura come ora. Che una volta viveva a New York, a Manhattan, dove poteva permettersi molte cose, compresa una domestica. Mi ha anche detto che è laureata, come i suoi fratelli e le sue sorelle, molti dei quali lavorano a Managua.

«Dulce y Cabana», ripeto, facendole volutamente il verso. «Un dolce rifugio, perfetto.» Poi, squilla il mio telefono. «È la mia amica», sussurro, coprendolo con una mano. «È Sunshine.»

«Sunshine? Suona bene», sussurra anche lei, facendomi un cenno di saluto.

Mi scuso con Sunshine per averle urlato contro. Ammetto di avere avuto una reazione eccessiva e che, nonostante le apparenze, apprezzo quello che sta facendo per me. «I libri possono sempre essere ricomprati», dico, sperando che capisca quanto sia difficile per me ammetterlo, figurarsi pensarlo. Ma non sembra notarlo. Sono stufa di sentirla singhiozzare al telefono, anche se sto tentando di essere matura e saggia, come si suppone che io debba essere alla mia età. Ricordo a me stessa che Sunshine è ancora giovane ed è oberata di cose da fare, visto che deve occuparsi dei bambini.

Sono più vecchia e devo essere più saggia. Devo capire che è stata solo una mancanza di attenzione, che non voleva farmi arrabbiare, neanche quando ha proposto un tutore. Ma le ho detto troppe fottute volte che non voglio essere curata da un estraneo. Le ho detto e ripetuto che, se dovesse succedere, preferirei trovare un modo per morire. Lo sa. E, anche se capisco che quello che ha detto prima è stato pronunciato in un momento di rabbia, ora non credo più che, quando arriverà il momento, rispetterà i miei desideri. Ma sono stanca di piangere, quindi dopo che ci salutiamo vado al lavandino e mi lavo la faccia. Non voglio indugiare nell’autocommiserazione. Quello che è fatto è fatto, e aspetterò di tornare a casa per vedere quali cose davvero brutte siano successe. Pensa agli uccelli in cielo, dico a me stessa. Pensa agli uccelli in cielo.

Per tirarmi su decido di vestirmi bene per cena. Voglio mettermi la mia giacca di pelle rossa e la cerco nel guardaroba. «Pelle rossa, pelle gialla», sussurro, ricordandomi una filastrocca per bambini. Ma chiunque abbia fatto la mia borsa ha scelto solo vestiti spenti. L’unico capo colorato è una t-shirt verde e una felpa di Walt Disney, che non mi appartengono.

Mi chiedo se qualche mio vestito sia appeso in qualche altro armadio. Mi chiedo anche se questa strana t-shirt e la felpa appartengano a una persona morta da poco. «Una ragione in più per vestirsi con un certo stile, finché posso», dichiaro, mentre scelgo pantaloni e una camicia ampia, che non si adattano alla mia figura. Ma, una volta che ho raccolto i capelli in una serie di chignon bantu e ho aggiunto il rossetto, non sembro così male. Antonio ha sempre amato il mio rossetto rosso. Chanel era il suo preferito. Sono pronta. Però manca un’ultima cosa: un libro. Così, se fossi tanto sfortunata da sedermi accanto a qualcuno fuori di testa, almeno avrei qualcosa da leggere.

Quando arrivo nella sala da pranzo, il telefono di qualcuno suona e, poiché è una suoneria orecchiabile, faccio qualche passo di danza e canto.

Ain’t nothin’ but a hound dog.

Cryin’ all the time.

Quando ero giovane, ero scettica sulle persone anziane che dichiaravano di sentirsi «come nuove», ma qui mi sento esattamente così. I miei fianchi migliorano ed Elvis mi ha messo nel mood di una bottiglia di Chablis. Ora, invece di indossare pantaloni anonimi con una camicia di cotone, mi immagino vestita con uno dei miei abiti da cocktail, quello di chiffon giallo ricamato, per esempio. O, meglio ancora, mi sarei infilata nel mio abito bianco di seta, quello con il ricamo dorato in vita, scollato dietro. Questo spiega perché ora tutti si sarebbero girati a guardarmi. Era anche l’abito preferito di Antonio; benché non avrebbe dovuto esserlo, dal momento che gli ho confessato che era un regalo di anniversario di Caesar. La sala da pranzo umida della Casa scompare, sostituita dall’atrio della nostra casa a Chanakyapuri.

Questa era la mia preferita, tra tutte le residenze dell’ambasciatore, con un design moderno e i giardini tropicali, che mi ricordavano sempre Lagos. Sono all’ingresso, decorato con dipinti e sculture; Caesar voleva mostrare il meglio dell’arte nigeriana e, poiché aveva gran gusto, possedevamo opere di Enwonwu e Onobrakpeya prima che diventassero famosi.

Questa è la casa dove, all’inizio degli anni Settanta, abbiamo organizzato la nostra prima cena ufficiale con i ministri indiani di spicco, uomini d’affari e altri ambasciatori. Così, sono lì, che saluto gli ospiti con una stretta di mano (guantata) o con un guancia-a-guancia per quelli che preferiscono essere baciati. «Buonasera, signore! Benvenuto. Benvenuta, signora, che piacere rivederla. Ambasciatore, quale onore… Venga, si unisca alla nostra cena di gala.» E contemporaneamente sono impegnata a controllare gli addobbi floreali di orchidee e uccelli del paradiso e le persone di servizio, che si muovono con grazia tra gli ospiti portando tartine speziate su vassoi d’argento.

Penso a chi presentare a chi, e dove far sedere lo scapolo che è stato invitato al solo scopo di bilanciare il numero di uomini e di donne a tavola. Invece di metterlo accanto alla moglie del banchiere, come avevo dato istruzione di fare, decido di collocarlo vicino alla bella Olivia, che sembra stanca del marito ambasciatore che pontifica sempre. Quindi la serata continua, secondo lo schema di queste serate, piene di chiacchiere superficiali, finché gli uomini si ritirano per discutere di questioni importanti e le donne sono lasciate a fare pettegolezzi e a lamentarsi della propria servitù. Poi, mi sarei eclissata per fumare una sigaretta in giardino o per una visita prolungata alla toilette, dove tenevo sempre un libro di poesia.

Di rado mi sono mancate la pomposità e l’etichetta di quelle serate, eppure stasera mi manca il fatto che quando entravo in una stanza tutti si giravano. Sapere che ogni persona al mio servizio sarebbe stata attenta anche alla mia più piccola, più discreta richiesta. Sapere che in quanto padrona di casa avevo il potere, come minimo, di chiedere un drink. Quindi cosa ci sarebbe di male se ora chiedessi un bicchiere di vino? Sempre ballando mi dirigo verso un tavolo vuoto, e non mi accorgo subito che le persone hanno iniziato a correre. Nella confusione che segue sento qualcuno afferrarmi per il polso. Penso che è un terremoto, quindi cerco di nascondermi sotto il tavolo. Poi, sento qualcuno sollevarmi.

«Il mio deambulatore?» chiedo. «Tutto questo trambusto solo perché ho dimenticato il deambulatore?»