Ero già seduto con Pearl quando ho visto cosa stava succedendo a Morayo: gli infermieri che corrono verso di lei, lo choc sul suo volto e l’imbarazzo di essere messa su una sedia a rotelle. Ora l’hanno portata al nostro tavolo e non so cosa dire. Non so se tentare di tranquillizzarla o fare finta di non avere visto niente, per toglierla dall’imbarazzo. «Non faccia caso al personale», mi ritrovo a dire. «Sono sempre preoccupati che si faccia loro causa. È per questo. L’ho vista camminare perfettamente nei corridoi. Tutto quel panico, prima. Totalmente inutile. E perdoni Pearl per gli applausi, tende a eccitarsi se c’è un po’ di confusione.»
Dopo che ci hanno servito (stasera c’è il curry), passo il cestino del pane indiano a Morayo. Mi fa piacere vedere che apprezza il cibo e le dico che il menu è sempre migliore quando c’è il sostituto dello chef. Il cuoco titolare è in vacanza. Quando mi chiede come so tutte queste cose, le spiego che vengo qui da circa un anno. «Sono qui per stare con Pearl, che ha il Parkinson con perdita di memoria. Ora sta meglio. Ora che è curata da persone più competenti di me.» Mi giro verso Pearl ma, poiché non ci considera, torno a guardare Morayo. «La parte peggiore per Pearl, be’, per entrambi, è stata quando ha capito che stava perdendo la memoria. È stato molto difficile, ma ora abbiamo superato quella fase, quindi è molto meno stressante», aggiungo, cercando di sembrare allegro, pur sapendo che Pearl sta mandando baci a un uomo dall’altra parte della stanza.
«Dev’essere dura», commenta Morayo. «Ma vedo che ha un effetto molto calmante su di lei.»
«È gentile da parte sua», sorrido, sapendo che qualche volta Pearl va oltre, e tenta di baciare quegli uomini. Non è colpa di Pearl e non mi sta facendo arrabbiare apposta, ma mi sento comunque tradito quando fa così.
«Lei sembra una persona calma», dico a Morayo, sperando di distrarla dalle pagliacciate di Pearl. «Non si è agitata, prima: nonostante tutto quel panico, è rimasta serena.»
«‘Frastornata’ potrebbe essere la parola esatta per descrivere quello che è successo prima», replica. «Credevo davvero che ci fosse un terremoto, ma amo la parola ‘serena’. Puoi quasi volare o navigare con questa parola. Se-reeeena.»
La guardo divertito, mentre apre le braccia imitando il volo. «Posso chiederle cosa sta leggendo?»
«Si intitola Diario d’inverno», singhiozza, tirando fuori il libro da dove era stato infilato, nella sedia a rotelle.
E poiché non so se sta singhiozzando per quello che è accaduto prima o perché non vuole parlare del libro, mi lamento ancora di quanto il personale sia fastidioso, a volte.
«È solo uno di quei giorni», dice, insistendo affinché prenda il libro. «È di Paul Auster. Lo conosce?»
Scuoto la testa. «Sono desolato, non leggo molta fiction, ma Pearl lo faceva e ancora lo fa, a suo modo. È un peccato che non possa parlarne ora con lei. Sono sicuro che abbia sentito nominare questo autore», dico, anche se sospetto che neanche lei lo conosca. Pearl ama i gialli e i romanzi rosa, e questo non sembra uno di quei libri. Ma non ci sarebbe niente di male nell’avvicinarla alla letteratura, ora che la demenza l’ha ridotta in uno stato così infantile.
Come se fosse d’accordo con me, Pearl torna tra noi e si sporge per sbirciare il libro. Lo guardiamo insieme e scorgo delle note scritte a mano, in fondo. «Sono sue?» chiedo, prima di realizzare che la mia domanda potrebbe essere indiscreta.
«Non sono niente, in realtà, solo il mio tentativo di copiare lo stile dell’autore», spiega Morayo, prima di riprendersi il libro.
«Dai», dico a Pearl, che non ne vuole sapere di lasciare andare il libro, e se lo contende con Morayo.
«Mi lascerebbe leggere per lei?» le chiede Morayo.
Pearl sorride e Morayo esita, chiedendomi una conferma. Ma quando Pearl si siede accanto a lei e aspetta, carica di attesa, non c’è più alcun dubbio su cosa voglia. Sono imbarazzato sia dall’atteggiamento infantile di Pearl sia dal fatto di essere imbarazzato, ma Morayo non sembra farci caso. Le sorride e le chiede di scegliere una pagina. Poi legge un passaggio e spiega a entrambi che ammira la capacità dell’autore di parlare della storia della sua vita attraverso la storia del suo corpo. «È quello che mi ispira», dice. «Vorrei fare lo stesso, ma dalla prospettiva di una donna.»
Poi, rivolta a Pearl, le chiede se ha voglia di continuare la lettura. Stavolta legge dalle sue stesse note. «Il tuo corpo», inizia, «felicemente accovacciato tra cespugli e arbusti, potando, rifinendo, con un occhio sempre ai coleotteri e alle mosche bianche. Il tuo corpo, che si piega per girare il materasso, che fa i letti, che mette i vestiti in lavatrice, poi solleva il cesto pesante accanto al tuo fianco. Il tuo corpo che si piega e si allunga per mettere tutto sui fili della biancheria con le mollette in bocca. Il tuo corpo da ragazza, che si agita e si agita e fa una verticale e fa una ruota e barcolla nelle scarpe di tua madre, grandi come canoe. Il tuo corpo…» si interrompe quando Pearl inizia ad applaudire.
«Scrive benissimo», dico a Morayo. «E Pearl, credo, è impressionata dal fatto che lei sia un’autrice.»
«È fantastico», sorride, mentre Pearl fa un inchino e ricomincia a mandare baci. «Mi fa capire quanto mi mancano i miei studenti. Ma sta bene?» chiede Morayo, preoccupata del fatto che ora Pearl è in giro.
«Starà bene», spiego. «Stasera è la serata della musica e Pearl ama cantare. E il personale la controlla, vede? È l’unica cosa che lei non dimentica. Ma, tornando ai libri, potrebbe darmi qualche consiglio? Ho molto tempo libero ultimamente e mi piacerebbe leggere.»
«Insegnavo letteratura inglese», dice sorridendo, «quindi la mia lista tende a essere lunga e non molto contemporanea.»
«Perfetto», dico, «non sono esattamente contemporaneo.»
Una conversazione di questo tipo, rifletto, è quello che mi mancava. Quanto sollievo dà parlare di cose che non hanno nulla a che fare con dolori, sofferenze, stato di avanzamento della malattia. Cancro. Diabete. Demenza. Parla di letteratura con grande autorevolezza. Ma non apprezzo solo ciò che dice; è anche il tono calmo della voce e l’attenzione con cui sceglie le parole. Il modo in cui le sue mani si muovono a ritmo con esse. Ha una bella manicure, che denota la sua eleganza e raffinatezza.
Inizia con testi difficili che in parte ho letto a scuola e che ancora ricordo. Poi elenca i suoi scrittori africani preferiti, seguiti da alcuni autori dei Caraibi. Mi chiede se vengo da lì.
«Indovinato», sorrido. «Vengo dalla Guyana, ma, ahimè, non so quasi niente dei miei scrittori e neanche di quelli più famosi della zona, come Walcott e Rhys.» Spero che le mie citazioni siano corrette. «Quindi era ora che li leggessi, e sono sicuro che troverò alcuni di loro in biblioteca.»
«Oppure glieli potrei prestare», mi propone, fermandosi per un secondo prima di chiedermi cosa faccio.
«Cosa fa Reggie?» ripeto. «Be’, come lei, sono un accademico. Anzi, lo ero, prima della pensione. Tenevo corsi di politica ed economia dello sviluppo con un focus sui Caraibi. Ma, a differenza di lei, non potrei dire che l’insegnamento mi manchi. Anche se mi manca l’ambiente universitario.»
Poi cambio argomento, preoccupato che lei potesse chiedermi di più in merito. Non voglio essere costretto ad ammettere che non mi hanno mai dato una cattedra. Poiché Morayo sembra particolarmente interessata al posto da cui provengo, le parlo della mia infanzia e poi di come Pearl e io ci siamo incontrati.
Sono lusingato dal suo interesse, ancora di più perché nessuno mi ha chiesto della mia vita qui nella Casa. Comunque, sto attento a evitare che la conversazione verta troppo su di me. Ricordo che mia madre diceva: «Non illuderti, Reginald, che una donna si innamori del tuo tono di voce. La maggior parte delle donne cerca solo un uomo che stia zitto.» Quindi le chiedo per quanto tempo ha insegnato e cosa faceva prima. Mi stupisco di tutti i posti in cui ha vissuto. Mi dice che era sposata con un diplomatico. Commento che la cosa non mi sorprende, vista la sua grazia, ma lei insiste sul fatto che non era la migliore delle mogli dei diplomatici.
«Per prima cosa, non riuscivo a entusiasmarmi per la scelta del menu e per l’etichetta di quelle situazioni», spiega. «Il che non va bene per una buona padrona di casa. E questo tipo di cose erano importanti all’epoca. Ma, soprattutto, credo di non essere portata per la diplomazia.»
«È una cosa brutta?»
«Per la moglie di un ambasciatore sì», risponde con un sospiro. «Mentre per l’insegnamento l’ho trovato utile. Mi mancano i miei studenti. Ha figli, Reggie?»
«Ho un figlio, Anthony. Ha preso un master in Business Administration e ora lavora in Goldman Sachs; molto più brillante del suo vecchio. E Pearl ne ha quattro. Lei ne ha?»
«No, niente figli, sebbene un tempo molti dei miei studenti siano stati per me come figli. Mi piace il nome Anthony.»