Quando mi ha chiesto come fosse l’Africa, gli ho detto tutte le cose belle, ricordandogli, come facevo con i miei studenti, che l’Africa non è un Paese ma un continente vario quanto l’Europa, se non di più. Volevo che fosse fiero del luogo da dove venivano i suoi antenati. Volevo che sapesse che ci sono posti nel mondo dove un uomo nero non deve camminare avendo paura per il colore della propria pelle. Quindi ho detto a Toussaint tutte le cose belle: il clima, il cibo, i paesaggi spettacolari, ma soprattutto gli ho parlato del calore degli africani. Gli ho detto quanto moderno è il continente, che potrebbe andare nei centri commerciali, come fa in America. «Un giorno, quando deciderai di visitarla, dimmelo e ti darò una mano.» Ti darò una mano, mi sono offerta, come se avessi la sua età, parlando la sua lingua, anche se ormai non conosco nessuno della sua età con cui metterlo in contatto. Non lo stavo invitando solo in Nigeria, ma in tutto il continente, come se tutto il continente mi appartenesse, fosse la mia casa. L’ho invitato come se fosse uno di famiglia, come se fosse mio figlio.
Ora, a letto, chiudo gli occhi per ricordare meglio i miei scaffali con i dorsi dei miei amici letterari. Faccio una lista mentale dei libri che presterei a Toussaint. Penso a James Baldwin, Ralph Ellison ed Earnest Gaines e anche a C.L.R. James. Credo, comunque, che sua madre gli abbia già fatto leggere The Black Jacobins quindi questo non sarebbe necessario. Per il suo interesse verso l’Africa, potrei dargli dei libri sulla Nigeria. Ne ho alcuni su Fela. E anche libri sulla cucina e sugli chef? Gli potrei prestare La via della fame e un libro di Zola il cui titolo mi sfugge. La memoria. Tutto questo presupponendo che Toussaint abbia una vera passione per il cibo. E se non fosse così? Se non gli piacesse davvero il suo lavoro? Se lavorasse per arrivare a fine mese? Se sognasse una carriera diversa, migliore? Mi addormento pensando ancora a lui e ai miei libri.
La mattina dopo, sorridendo per i rimasugli del sogno, vado in cucina a cercare Toussaint. Non c’è, così ritorno in sala da pranzo e mi siedo al tavolo di Pearl e Reggie.
«Dov’è il nostro splendido chef?» chiede Pearl, ripetendo quello che ho appena chiesto a Reggie.
«Non è ancora qui, tesoro», risponde Reggie.
«Dov’è andato?» insiste Pearl.
«Non lo so, zuccherino.»
«Zucchero?» chiede un’altra donna al tavolo.
«Zuccherino, toccami baby, la la la», canta Pearl.
«Zucchero?» ripete l’altra donna, cercandolo.
«No, Donna, nessuno ha chiesto dello zucchero», spiega Reggie. «Hai messo l’apparecchio acustico, Donna?» domanda alzando molto la voce per farsi sentire.
«Zuccherino, abbracciami baby, la la la.»
La pazzia. Penso che c’è pazzia qui dentro, pazzia. Pazzia. La vecchiaia è un massacro. Nessuno spazio per i fifoni. Nessuno spazio per le canzoni d’amore. Nessuno spazio per i sogni. Nessuno spazio per fare un sogno erotico su un uomo che ha la metà dei miei anni. E, poiché sono assorta, noto in ritardo quello che sta succedendo attorno a me, finché una voce arrabbiata mi riporta lì.
«Cosa vedi quando vedi le persone nere?» urla l’uomo. «O sono in prigione o se ne vanno in giro con i pantaloni abbassati sul culo. Parlano ad alta voce, imprecano e sono pericolose.»
«È quello che vedi tu», gli urla dietro Reggie. «Perché sei un razzista bigotto.»
«Non me ne frega un cazzo di quello che dici. Tutto quello che so è che i miei nipoti non possono neanche più giocare nel parco dall’altra parte della strada a causa di tutti quei teppisti che li vogliono aggredire.»
«Tu!» lo minaccia Reggie, spingendo indietro la sedia. «Tu!»
Lo raggiungo in fretta, preoccupata per il caos che sta creando, ma lui e l’altro uomo si stanno minacciando con i pugni.
«Reggie», lo chiamo, mentre se ne va. «E Pearl?»
«Starà bene», urla. «È pieno di gente bianca qui che si assicurerà che stia bene.»
«Reggie», lo chiamo ancora, alzandomi per seguirlo.
«Cazzo», scatta, togliendo la mia mano dalle sue spalle. «Senti, scusami. Scusami», dice, senza quasi guardarmi in faccia.
«No», gli dico. «Non sei tu quello che dovrebbe scusarsi.»