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Ornamento di separation

In una situazione normale avrei ignorato quel vecchio e il suo razzismo al vetriolo. So che non c’è modo di fare ragionare uomini come lui, eppure qualcosa quella mattina mi ha fatto perdere la testa. Forse perché Pearl continuava a cantare le sue stupide canzoni, forse perché Morayo ci ha raggiunti al tavolo e non riuscivo ad avere una conversazione decente con lei a causa delle canzoni e delle interruzioni di Donna. Forse solo perché ero affamato. Ma probabilmente è stata la combinazione di tutte queste cose e il mio affetto per lo chef che mi ha fatto scoppiare quando quel vecchio ha detto, con un tono di voce sufficientemente alto affinché lo sentissero tutti, che certa gente è nata solo per essere irresponsabile e che c’è qualcosa di intrinsecamente sbagliato nella «loro cultura». Questo è il modo in cui il vecchio ha spiegato l’assenza dello chef: definendo non solo lo chef, ma tutte le persone nere irresponsabili e incivili. Ero così furioso che l’avrei picchiato, se Morayo non fosse intervenuta. Me ne sono andato prima, quel giorno, e ho saltato tutti i pasti della settimana, per non vederlo. E, poiché ho saltato la cena di compleanno di ieri sera, mi sono perso il compleanno di Morayo.

Qualche giorno prima, quando mi ero accorto che era il suo compleanno, avevo deciso di regalarle un libro. Sono andato in biblioteca pensando che, se avessi trovato qualcosa di buono, l’avrei preso e l’avrei dato a Morayo. Nessuno usa più molto la biblioteca, non mi sembrava un problema che un paio di libri fossero usati per questo scopo, messi nelle mani di qualcuno che li apprezza veramente. Ricordavo perfino alcuni degli autori africani che aveva nominato, e ho iniziato a cercarli, ma, non avendone trovato nessuno, ne ho cercati altri. La biblioteca era piena di libri di Agatha Christie, che mi hanno risvegliato i ricordi d’infanzia. Ma non sarebbero stati abbastanza buoni, lo sapevo, per una donna sofisticata come Morayo. Non per un’insegnante di letteratura inglese. C’era una biografia di Madre Teresa, che a Pearl sarebbe piaciuta, ma non sapevo cosa Morayo pensasse delle biografie. Inoltre, un libro di quel tipo potrebbe essere deprimente e decisi che, qualsiasi cosa avessi scelto, l’avrebbe tirata su di morale e sarebbe stato qualcosa di letterario, tipo il vincitore di un Premio Nobel. Quando ho visto Uscirne vivi sapevo di avere trovato il libro giusto. Era nuovo, quindi ho immaginato che Morayo non l’avesse già acquistato. E anche se l’avesse fatto, avrebbe approvato la mia scelta. Quindi l’ho preso e l’ho nascosto nel comodino di Pearl. E ora l’ho recuperato.

Quando busso, non risponde nessuno, così, riprovo.

«Ehi», faccio, ma non ho risposta, perciò penso di lasciarglielo davanti alla porta. Non ho un biglietto, come saprà che è da parte mia? È ancora presto, sono solo le otto di sera, così do una spintarella alla porta, solo per verificare se ci sia. La stanza è silenziosa e la porta sul lato destro, quella del bagno, è aperta. Le luci sono spente e sto per andarmene, invece entro. Siamo entrambi sorpresi ma lei ovviamente più di me perché inizia a urlare e presto arrivano anche altre persone e la stanza si riempie velocemente.

«Cos’è successo?» chiede il personale in tono accusatorio.

«Non lo so», rispondo. Davvero non lo so.»

Più tardi viene a cercarmi, bussando delicatamente alla porta di Pearl.

«Scusami», dice.

Le sue braccia avvolgono un libro, noto, ma non è quello che le ho portato. «È tutto a posto», le dico. È già abbastanza imbarazzante con Pearl che cerca di dormire e noi due che abbiamo questa conversazione in corridoio.

«So che sei arrabbiato», dice Morayo, guardandomi negli occhi. «Mi dispiace, mi dispiace davvero. Non volevo fare una scenata. Non è razionale, lo so, ma vorrei provare a spiegarti.»

«Non devi», dico, ma lei insiste.

«Ricordi l’altro giorno, quando ho letto gli appunti che ho scritto su questo libro?»

Scuoto la testa.

«Ricordi quando l’ho portato a cena e ho letto un po’ per Pearl?»

Ora ricordo.

«Be’, ho saltato qualche riga: quindi, per favore, prendilo», dice passandomi il libro. «Preferirei dirtelo in questo modo perché per me è più facile condividerlo così.»

Esito.

«No», dice, riprendendosi il libro e guardando in basso. «Devo dirtelo.» Poi se lo avvicina al petto. «Anni fa», dice, guardandomi, «un vicino si presentò alla mia porta.» Si ferma, ma non guarda altrove stavolta. «Non sospettavo niente. Mi fidavo di lui e lo lasciai entrare. Ma non avrei dovuto, e questo è il motivo.»

«Mi dispiace moltissimo sapere questo», dico. «Mi dispiace.»

«Non preoccuparti.» Scuote la testa e si gira per andarsene.

«Morayo!»

Si ferma e mi guarda.

«Se vuoi, se non ti dispiace, posso ancora leggere quello che hai scritto.»

Lo leggo mentre aspetto l’autobus. «Il tuo corpo», inizia così, «è seduto alla tua scrivania, con la testa tra le mani, mentre pensa. I libri sulla tua scrivania, le matite incastrate nella tua capigliatura afro. Le dita battono piano sulla tastiera. Ricordi. Il tuo corpo, scosso da spasmi incontrollabili, distrutto dal ricordo di tua madre che galleggiava in una vasca di sangue.» Oddio. Sospiro, smettendo di rileggere, per andare avanti nella lettura. «Il tuo corpo in bagno, le braccia attorno alle ginocchia ricordando il flusso mestruale e le gocce che formano anelli rossi nel water. Il tuo corpo costipato. Tua madre che ti dice: «Ci si sente così quando si partorisce». Il tuo corpo che non sospetta niente quando apri la porta a un vicino. Il tuo corpo che lotta. Si agita. Viene violato. Il tuo corpo in ospedale, esposto, che prova vergogna. Il tuo corpo scosso da spasmi incontrollabili, distrutto dai ricordi.»

«Mi dispiace tanto», mormoro.

«Il tuo corpo», sussurro più tardi, quando sono a letto, ricordando la mia infanzia. Il mio corpo da tredicenne, a Georgetown, nella Guyana britannica, che scopre le ragazze. Il mio corpo che impara nel modo peggiore che non bisogna mai innamorarsi della figlia del governatore, non importa quanto si sia vicini alla sua famiglia. Al mio corpo fu detto dal governatore che ero un servo; che non avrei mai dovuto, mai, mettere gli occhi su sua figlia, Rose, perché lei era bianca e io, il mio corpo non eravamo bianchi. Ma poiché sono orgoglioso e volevo salvare la faccia, il corpo, per protesta andai in quella parte della città nota come «il ghetto dei negri» per dimostrare ai miei amici che avevo chiuso con la figlia del governatore; che non m’interessava veramente. Ma, più di tutto, il mio corpo andò lì per fare ingelosire Rose. Anni dopo, il mio corpo, con la memoria dei muscoli, mi ricordò di non innamorarmi di un’altra donna bianca. Ma incontrai Pearl, e cos’avrei dovuto fare? Il mio corpo avrebbe dovuto saperlo. Avrebbe dovuto sapere che i figli di Pearl avrebbero guardato con sospetto un uomo nero con pochi soldi che vuole sposare la loro madre. Non avrei dovuto sorprendermi quando i figli l’hanno ripudiata per colpa mia, invece mi sorpresi. Ed è questo che il mio corpo ha ricordato chiaramente, l’altro giorno, quando il vecchio ha iniziato a sbraitare. Il mio corpo sa che quando il vecchio parlava delle paure che ha per i suoi nipoti, stava parlando al mio corpo nel modo in cui per millenni i bianchi hanno parlato al corpo dei neri. Come se fosse una minaccia. Come se fosse un aggressore. Così, prima, quando l’unica donna nera nella Casa ha reagito al mio corpo con una caterva di urla, il mio corpo si è sentito spezzato e umiliato di nuovo. Ma ora il mio corpo ha capito. «Ho capito, Morayo, ho capito.»