Variante di parabola

Ho lasciato da ragazzo la casa dei genitori. Mi staccai dalla città di origine, dall’avvenire apparecchiato. Partii a mosca cieca, biglietto di semplice andata. Scesi dal treno in un’altra città, cercai da dormire presso affittacamere intorno alla stazione, feci per campare il fattorino. Sperimentai la libertà, che non è un elenco di diritti da godere, ma uno sbaraglio. Se non è spesso un deserto, non è libertà.

Ero solitario per temperamento, sgomento, ostinazione. Mangiavo poco, imparando la disciplina della scarsità. Era la fine dell’anno 1968, avrei saputo dopo che era solo l’inizio. Le strade si riempivano di gioventù coetanea: scendeva dal marciapiede e ingombrava il centro della carreggiata. Feci anch’io quella mossa, di libertà nuova, spaventosa.

Quel movimento brusco si attirava l’ira di tutti i partiti e poteri costituiti. Si attirava addosso l’assalto della polizia, dei carabinieri, sirene all’inseguimento, candelotti lacrimogeni sparati per colpire. Si veniva acciuffati, pestati, ficcati in celle alla rinfusa. Reagivamo con sassi, con le prime bottiglie riempite di nafta, uno straccio infilato nel collo e poi incendiato. Rompendosi allargavano una pozzanghera di fuoco, scompaginavano i reparti mandati alla carica.

Mi trovai in quel fumo e fuoco insieme a dei coetanei, a pronunciare parole per me giuste. Scoprivamo di essere amati da gente del popolo che si riconosceva nei nostri giorni d’impazienza.

Succedeva lo stesso in giro per l’Europa e oltre, nel mondo. Una generazione si era convocata da sola, da un capo all’altro del pianeta. Avevamo i mezzi per saperlo, per sentirci parte di una tendenza generale. La casa di partenza, la città di origine, sbiadiva, cancellata dalla città nuova che andavamo fondando. La via del ritorno era tagliata.

Non avevo niente in comune con la storia del figlio scialacquatore, scritta in mezzo al Vangelo di Luca. Non avevo chiesto al padre la quota di eredità, né l’avevo dilapidata procurandomi ebbrezze. Al contrario, in sobrietà analcolica rinunciavo a tutta la parte che lui aveva conservato e desiderato per me. Diventavo uno delle nuove migliaia che esprimevano la loro volontà di contraddizione.

Innescavamo forme nuove di lotta nelle fabbriche, nelle scuole, nelle caserme, nelle prigioni, ovunque attecchiva il nostro contagio. Sotto quella pressione, avvenivano riforme. Avvenivano anche tentativi opposti, tentazioni di colpi di stato militari. Del resto, l’Italia era l’unica democrazia provvisoria in un Mediterraneo di fascismi: Spagna, Grecia, Turchia. Tutti quei fascismi erano iscritti all’Alleanza atlantica, alla Nato che aveva le sue potenti basi in casa nostra. Il 1900 è stato il secolo delle rivoluzioni. Enormi masse umane hanno rovesciato così le tirannie e gli imperi coloniali. I rivoluzionari sono diventati presidenti o banditi, senza sfumatura di destini intermedi.

Non sarei tornato indietro alla casa di origine, agli affetti che avevo abbandonato. Fu merito loro, dei miei due magnifici, il ristabilimento del contatto, la rifondazione di una seconda e più profonda intimità. Si inasprivano gli anni e gli urti. Un giornalismo minore volle ridurli al titolo di anni di piombo, senza nemmeno il merito di avere inventato la formuletta, presa invece da un film, per giunta tedesco.

Li chiamo anni di rame, fili che conducevano la corrente elettrica delle lotte sociali, da Testa Gemella Occidentale sulle Alpi Aurine a Punta Sottile a Lampedusa, le estremità geografiche del nostro paese. Gli anni settanta sono stati percorsi da una scossa, da uno sciame sismico di lotte che imponevano il loro ordine del giorno pure al cinema, alle canzoni, al calcio e alle vacanze. Furono anni di rame, il miglior conduttore di quell’energia elettrica di trasformazione.

Le vite personali erano sospese, quella gioventù politica affrontava la prigione senza alcun tornaconto privato. A ricordarlo in tempi così opposti, dove solo conta l’interesse individuale e si è valutati in base al potere di acquisto, si misura il crepaccio che separa un’Italia dall’altra. Fu merito dei miei due che non vollero rinunciare al figlio perduto, partito in una folla di insorti. Mia madre venne a Bologna nel luglio rovente del ’71, a seguire un’assemblea nazionale di Lotta continua, in un palazzetto dello sport circondato da truppe e con una temperatura politica all’interno da friggerci le uova. Venne a tentare di capire l’insonnia di quella generazione.

Mio padre per anni accettò di ospitare militanti di Lotta continua inseguiti da mandati di cattura per motivi politici. Lui, rispettoso di leggi, con lo scrupolo di essere un buon cittadino in una città strafottente, fornì riparo a latitanti. Raccolse e collezionò i numeri del quotidiano “Lotta continua”, per lasciarmeli in dote. Oggi stanno impilati in ordine di annata, rilegati in rosso, e pesano molto più del loro peso. Hanno il carico aggiunto della sua cura, della sua premura di annodarsi al mio tempo, di seguirlo per fornire al figlio una retrovia, non un ritorno. Non io sono tornato a lui, ma, con molto valore in più, lui si è voluto mettere sulle mie tracce e sulle mie ragioni.

Ora che invecchio, posso credere di essere stato buono per loro a una cosa sola, averli accompagnati a morire, tutti e due. A chi mi ha messo al mondo e dopo mi ha dato anche di più, ho restituito solo il minimo servizio di sentinella a fianco del loro letto. Mi sono morti in braccio in casa, in mezzo ai libri, agli alberi piantati.

Un poeta di lingua yiddish in questo secolo ha scritto il silenzio dei vecchi arrestati per strada nei ghetti dello sterminio. È stato testimone del silenzio di chi si faceva portare via senz’altra resistenza che il passo incerto dell’età costretta alla marcia incolonnata.

Conosco il silenzio dei vecchi. Me l’hanno lasciato in eredità, dopo averlo riempito di tutta la volontà di rispettare il figlio. Non riguarda l’udito quel silenzio, servono altri sensi a percepirlo. L’ho potuto vedere sulle dita che mio padre si passava sulla fronte, mentre si dava l’addio carezzandosi il cranio riempito a libri e vino. L’ho sentito nel naso odorando la sua vestaglia negli anni a venire. L’ho toccato sulle mani di mia madre che negli ultimi giorni non rispondevano più alla mia stretta. Ce l’ho in bocca da quando ho rinunciato alla pietanza preferita, la parmigiana di melanzane, che lei mi faceva trovare a ogni rientro. Non è assenza di rumore il loro silenzio, ma le due labbra di una ferita aperta. Niente punti di sutura, niente da aspettare: il silenzio lasciato da loro ripete ogni giorno il giorno uno della separazione.

Non ho niente in comune col figlio della parabola, tranne il lavoro venduto per salario. Lui dopo la dissipazione dell’eredità si era trovato a governare maiali, io mi sono trovato nella vita operaia a spurgare fogne. Tranne un paio di narici poco schizzinose, non abbiamo altro da spartire.

Senza essere padre, sono rimasto figlio, un ramo secco. Da figlio ho le loro visite in sogno, da figlio mi inoltro negli anni veloci dell’ultima età. Non ho conosciuto il ritorno, al punto di non poter usare per me il verbo. Non ho stanza di ritorno, da pedone di scacchiera ho solo il movimento dell’innanzi, della casella dopo.

Della parabola del figlio prodigo non so che farmene. Posso raccontarne una variante, quella dei genitori partiti alla ricerca del figlio disperso, per riabbracciarlo ovunque fosse andato alla malora.