A forma di altare

Salivano dal fondo della strada gli odori di cucine, a ogni rampa di scale si davano il cambio, a staffetta. La domenica si sapeva cosa succedeva nei piatti di ogni casa. Si cominciava dalla portineria, il primo fuoco acceso, il primo odore in viaggio nel vapore.

“Donna Speranza ha ingignato i friarielli”: la cucina della portiera a pianoterra ingignava, iniziava cuocendo in olio e aglio, le foglie di un broccoletto locale.

L’odore amaro pungeva le narici ancora addormentate. “Nun ce fa piglia’ manco ’o ccafè,” diceva una voce imbronciata nel primo risveglio. Il friariello era più di un odore di pietanza, aveva l’arroganza dell’incenso, era per il palazzo il primo gas delle domeniche, nelle stagioni delle sere lunghe. Se ne saliva solitario e guappo fino ai lavatoi, passava per le scale, informava il cortile cupo, dove il sole non metteva piede e i panni si asciugavano per stanchezza.

Qualche donna ritirava il bucato per non trovarselo insaporito di friarielli. Donna Speranza guardava in alto la fuga della biancheria e preparava il secondo assalto al cielo: il baccalà. Già da due giorni stava a mollo nell’acqua per sciogliere il callo del sale. Lei lo faceva la domenica, da noi si processava il venerdì, scortato da una maggioranza di patate.

Oggi è pietanza pregiata, ma nella città di dopoguerra, che di carne parlava a carnevale e pasqua, il baccalà e le alici erano proteine a buon mercato. Donna Speranza non andava a messa e non teneva immagini di santi nella portineria. Teneva invece appesa per arredo una bella treccia d’aglio. “È devota a sant’aglio,” diceva mio padre, unico socialista del palazzo, ateo per irritazione. La devozione popolare che invocava e bestemmiava tutti i nomi del calendario, gli strilli a squarciagola che costringevano la reliquia sanguigna a liquefarsi: gli torcevano il sistema nervoso. Era un ateo geografico, fosse nato al Nord sarebbe stato per temperamento un luterano.

La domenica andavamo a pranzo dalla mamma di mamma, nonna Emma. Lei e sua nuora Lillina dal venerdì sera si alternavano presso la fiammella minima che asciugava il ragù, rraù, in lingua e palato locali. Il nostro arrivo a mezzogiorno in anticamera era accolto da un alleluia di ragù dritto nel naso. Quel sugo era l’applauso di uno stadio in piedi dopo un gol, era un abbraccio, un salto e una cascata dentro le narici. Mai più potrò riavere quell’arrembaggio al vertice dei sensi, che sta per me in qualche ghiandolina dell’olfatto. A tavola, condito con la pasta grossa, mi sedevo composto, ma dentro di me stavo in ginocchio di fronte alla scodella.

È stata la mia porzione di manna, pane dei cieli, apparecchiata da due sacerdotesse di fornelli, dai loro riti notturni. Erano bocconi che imponevano silenzio. A me si chiudevano anche gli occhi. Le forchette nei piatti raccoglievano il frutto della conoscenza. La bocca piena gorgheggiava una laude. Non ho temperamento mistico, ma quel poco che mi è toccato in sorte l’ho assaggiato, l’ho avuto sulla lingua durante le domeniche d’infanzia. Quella mensa festiva assume nel ricordo la forma di un altare.

Da loro due, Emma e Lillina, ho ricevuto poi notizie dettagliate per la composizione della parmigiana di melanzane, piatto preferito dell’età adulta. La preparavano facendo passare il frutto per tre fuochi. Tagliate a fette le melanzane, le mettevano al sole, la fiamma più potente, ad asciugarsi d’acqua e addensare sapore. Poi le friggevano indorando di festa la cucina. Ultimo fuoco il forno, dopo averle distese a strati, ognuno ricoperto di sugo, basilico, mozzarella e la manciata di formaggio parmigiano. Tre fuochi concorrevano alla pietanza che meglio coincide per me con la parola casa.

Senza mamma pratico l’astinenza da quel cibo, un esilio alimentare. Il lutto si sconta alla tavola invece che al cimitero.

Poco e niente ghiotto di dolciume, ammetto un’eccezione, la pastiera. La sua scacchiera di pastafrolla, il ripieno di grano, sono la promessa mantenuta di ogni primavera. La fine dell’inverno per me non sta nelle frecciate nere delle rondini, ma nell’arrivo da Napoli, in busta chiusa e con l’ufficialità di un atto notarile, della pastiera spedita da mio cugino Mario. Niente zucchero a velo, che non è da pandoro la pastiera. Il coltello che incide la sua pienezza fa di me un Aladino che sfrega la sua lampada e ne sprigiona il genio. Quello della pastiera si accosta alla bocca per ascoltare il desiderio impossibile di ognuno. Il mio, una volta all’anno e senza muovere labbra, è di tornare a sedermi a quella tavola della domenica, dove nessuno era ancora mancato.