I cappelli di carta

Demolivano il palazzo di fronte. Per un anno il vicolo fu sotto l’assedio della polvere. Da dietro il vetro della finestra, il bambino che ero restava incantato a spiegarsi quello che vedeva. Attraverso il deragliamento visionario dell’infanzia scorgevo uomini forzati alla fatica, asserviti a una condanna. Non ricordo se nella Divina Commedia, studiata dieci anni dopo, esiste all’inferno un girone della malora operaia dentro la polvere. Lì c’era, e senza nessun diavolo a costringere.

Da forzati dovevano ogni giorno indossare il contrassegno della pena: un cappello di carta di giornale. Il vecchio edificio di tufo finiva smantellato a colpi di mazza, di piccone e di palo di ferro, dall’ultimo piano in giù. Il vicolo restava affollato, ogni persona al passaggio guardava in su se c’era pericolo e poi s’affrettava. I vecchi, costretti alla lentezza, si facevano il segno della croce.

Il tufo è il catarro del vulcano, stesura di materia sputata dalle fiamme. È un sughero che tiene bene la chiusura, adatto per sepolcri e per cantine. Napoli è tufo scavato sotto e caricato sopra. Nei cantieri l’ho maneggiato spesso, è pietra assetata, pesante il doppio se bagnata, facile da sfaccettarsi con il ferro.

Sul tufo non resistono a lungo gli intonaci, finiscono respinti. Come i poteri pubblici sopra la città, così la calce sulla faccia ribelle della pietra. Il tufo manda a dire che appartiene all’epoca deserta del pianeta e che noi specie umana siamo una muffa di stagione.

Dalla finestra vedevo da vicino la demolizione. Il crollo di una testata d’angolo, di un davanzale, era avvisato dal grido del capomastro al popolo del vicolo: “A soott’”, da sotto. Seguiva il tonfo cupo, di viscere guaste. Vedevo le stanze spalancate, la sconveniente nudità di cucine violate.

Il vento prendeva nel ballo la polvere, il sole l’impastava con la luce, i corpi dei dannati si affannavano nella nuvola gialla del tufo. Sotto di loro si muoveva il fervore della città interiore, finestre affacciate su finestre, vista sbarrata e poco cielo in testa per raccogliere la salita di bestemmie e preghiere. Visto dal vicolo, il cielo era la feritoia di una cassetta postale.

Tolti gli infissi, smontate le ringhiere dei balconi, in faccia al vuoto si aggiravano uomini massicci costretti all’agilità degli acrobati. Erano domatori della loro paura, bestia che sta in ognuno e non si fa domestica con l’uso. Resta e ringhia selvatica.

Un bambino dirimpettaio di loro li credeva ai lavori forzati. Oggi so di preciso che è così: vendere la propria forza di lavoro, con l’agguato continuo di ferirsi, cadere. Scontavano la pena di essere figli di fatica, senza scuola. Avevano allegrie improvvise, sfogate in canti nel frastuono dei colpi degli arnesi. Il corpo aggiusta gli sforzi e i respiri sopra un ritmo musicale. Il corpo di un operaio spende meno energia quando raggiunge il canto. Il corpo è un meccanismo musicale a fiato, a corde e a percussione.

Avevano appetito da soldati, a mezzogiorno sopra le macerie inghiottivano pagnotte imbottite di verdure. Qualcuno sopra i calcinacci chiudeva gli occhi e riacciuffava un sonno.

Lavorarono a distruggere e a rifare. Mi piacque di più la distruzione. Rompeva l’involucro, svelava dall’interno la scatola magica, detta per comodità “casa”. Il suo tempo passato a custodire vite dietro maniglie, muri, porte, vetri, si disfaceva in polvere. Il vento entrava e usciva, dove prima bussava inutilmente. Mi piaceva la demolizione, in discesa di piani aumentava la luce sul mio letto. Il cielo s’ingrandiva a colpi di piccone. Mia madre lo ricordava ingrandito dai bombardamenti.

La fine della giornata di cantiere non dipendeva dall’orario. Decideva il capomastro. La voce era in dialetto, annunciata da un operaio: “Laìtt’”, l’ha detto. Smettevano alla voce, ma prima di cambiarsi ognuno doveva ripulire e ben riporre gli arnesi. “Laìtt’”: e se non lo diceva? Allora cominciava a circolare la domanda, prima a bassa voce: “Quann’o ddice?”, quando lo dice? Gli operai sanno la fine del turno senza bisogno di orologi, la sentono attraverso lo scheletro. La annuncia nel corpo una clessidra vuota, dal collo stretto la sabbia è passata fino all’ultimo granello. Niente tic tac, fa solo sapere che basta, e che il resto del tempo di lavoro è usura del padrone sulla vita di un operaio.

Dopo la demolizione durò un anno la costruzione del palazzo nuovo. Il vicolo non malediva il cantiere. Era lavoro, parola da quelle parti diventata sacra. Nessuno malediva la polvere, il frastuono, però all’improvviso un litigio furibondo aveva per innesco una minima causa. Tra le vite oppresse la creanza, il rispetto, era vitale quanto il cibo. Siccome non costava niente, se ne esigeva molta. L’ira per uno sgarbo scagliava donne contro a sbranarsi, se non fosse intervenuto per tempo il popolo d’intorno.

Ho imparato sui cantieri le usanze per stare da uguale nel recinto di chi vende la sua forza da lavoro. Lo spazio tra noi era suddiviso in premure necessarie. L’inosservanza portava all’urto, alle mani addosso. Eravamo pazienti con il carico del giorno, con gli affanni, ma intransigenti con le relazioni. Un saluto in ritardo era un affronto che faceva salire il sangue in faccia.

Quando è toccato a me, quel lavoro era cambiato poco. A fine di giornata ci avviavamo al viaggio di ritorno senza poterci confondere col resto della folla. Il passo era ammaccato dagli sforzi, il cerchio lasciato dal cappello di carta che si bagnava di sudore in fronte, le unghie sottolineate dalla calce. Ci portavamo addosso la giornata.

Conosco l’isolamento del corpo uscito dal turno di cantiere. È un ispessimento del proprio confine. Arriva fino allo stordimento dei terminali nervosi, dopo la giornata al martello pneumatico. Per molta vita ho usato la schiena come un piano di carico. Mi sforzo e non riesco a ricordare se il bambino che guardava dietro il vetro gli urti tra uomini e materia abbia intravisto il suo, tra i corpi nella polvere.