Della mia generazione ho potuto conoscere migliaia di persone perché per un bel po’ di anni quella gioventù è uscita di casa e ha occupato vita e strada di questo paese. Ha perlustrato in lungo e in largo la società che aveva intorno e ha potuto conoscere la società che lei stessa già costituiva. Non è per combinazione che ho conosciuto Giancarlo Siani, ma per l’immediata spinta a riconoscersi che avevano quelli che sono stati giovani negli anni settanta.
Ero a Napoli di nuovo, dodici anni dopo esserne partito, e mi muovevo con agilità tra le scosse e le macerie. Avevo già imparato altrove il mestiere di muratore, lì lo applicavo in un cantiere della ricostruzione.
Fabbricavamo muri, sbarramenti, sostegni per pietre disarticolate dall’incuria, aggiungevamo intralcio a intralcio. Riprendevo contatto fisico con la città: anche i topi mi sembravano cambiati, più spavaldi. Mandavo allora delle cronache di strada al quotidiano “Lotta continua”. Conobbi così molte persone giovani: trovavano in quel giornale e nel suo improvvisato cronista un’occasione per tentare la parola. Offrivo ai collaboratori di fortuna il piccolo risarcimento del loro nome in fondo a un articolo, pensavo così anche di mettere semi al davanzale per una redazione futura, pensata come un balcone.
Giancarlo fu il primo a farsi avanti con me, ma non poteva firmare le notizie che mi dava. Svolgeva una precaria collaborazione al “Mattino”, tempo di apprendistato che nei giornali è spesso senza regole né scadenze, senza retribuzione e senza rete. Non poteva mettere il suo nome sotto i pezzi che scrivevo con le sue notizie.
Ho riletto quelle pagine sbiadite e ho riconosciuto le sue informazioni dirette, prese sul posto. Era un giornalista perché per lui era necessario svolgere indagine sul campo per proprio conto. Era un giornalista perché non gli bastava la notizia, e voleva frugare la verità.
Negli anni settanta ci piacevano della Cina i medici scalzi che andavano nei villaggi a tentare la prevenzione delle malattie. Giancarlo era un cronista scalzo, non aspettava le notizie per riportarle, ma cercava il meccanismo sanguinoso che le produceva. Erano gli anni dell’arrembaggio, il terremoto aveva raso al suolo la decenza, tutto era lecito per arricchirsi, la vita valeva uno sputo. La malavita si spartiva nel sangue i centimetri dei marciapiedi, sulla città piovevano miliardi ma non riuscivano a toccare terra, tutti intercettati a mezz’aria.
Giancarlo conosceva Torre Annunziata, che non è cognome e nome di una signorina, ma comune vesuviano digradante sul golfo e degradato a mattatoio di mortammazzati per quasi niente. Giancarlo lì aveva amici e raccoglieva notizie fresche di cose sporche. Si procurava facilmente la simpatia e la stima, aveva modi semplici per natura e un garbo frutto di buona educazione. Riusciva a fare conversazione con chiunque in pochi minuti, ma senza fare l’amicone, con misura invece e a bassa voce. Queste doti facevano coppia con un coraggio fisico naturale.
Negli anni degli scontri di piazza avevo avuto modo di conoscere molte forme di questa virtù elementare, un po’ per sfrontata sicurezza nella propria gioventù, un po’ per convinzione che non fosse indegno di noi sanguinare, anche stare legati dietro sbarre. In queste forme di coraggio di solito riconoscevo un’ansia aggressiva, una febbre improvvisa. Giancarlo invece era un coraggioso mite. Mi portava sulla sua Vespa qualche volta nei suoi giri, mi mostrava i posti della droga, i trafficanti e i trafficati.
Una volta a Torre Annunziata passammo davanti a un bar e qualcuno, riconoscendolo, cominciò di corsa a inseguirci. Giancarlo non accelerò, mantenne la lenta andatura. A me che mi preparavo a puntare sul primo di quelli, sembrò perfino che rallentasse.
A quel tempo apprezzavo molto questa specie di tenuta interiore che non si lasciava scalfire da minacce, agguati. Perciò so che non ha avuto paura quando dei bastardi gli hanno spento la vita sotto casa. Non ha dato agli assassini la soddisfazione di raccontare al loro mandante il suo terrore. Era un giornalista e lo sapeva.
Non l’aveva imparato da nessuno e vedeva che nessuno intendeva quel mestiere come lui.
Partii da Napoli, non l’ho più rivisto. Quattro anni dopo lessi su un giornale che Giancarlo non era più al mondo e non era ancora iscritto all’albo.
Non voglio credere che questo titolo gli avrebbe salvato la vita, l’infamia avrebbe fatto il suo corso ugualmente, così com’è accaduto a Mauro Rostagno, anche lui ammazzato, in un autunno dei maledetti ottanta, per avere inteso il giornalismo un servizio e non una carriera.
Mauro e Giancarlo, due nomi delle migliaia che ho conosciuto nella mia generazione, s’erano messi su una buona strada, di quelle che di solito sono deserte.