Niente Funiculì funiculà

C’è una colata lavica rappresa, un’arsura tirrenica nei versi e nei mesi terminali di Giacomo Leopardi.

Gli scaturì a Napoli, sbarco provvisorio da cui non partì più. I luoghi di passo nascondono trappole per l’animale migratore, ma Giacomo era già intrappolato dentro. Ci arrivò d’ottobre, nel 1833, martellato di acciacchi e quasi cieco per un’infezione agli occhi. I medici napoletani lo curarono con un cloruro di mercurio, detto anche “unguento napoletano”. Il nome oggi metterebbe in sospetto, ma fu efficace se è vero che pochi mesi dopo Giacomo poteva guardare il fiocco di fumo al vento sul solenne cratere del Vesuvio.

Vedere il mondo da una guarigione è accorgersi di lui sotto una più sfacciata verità. Giacomo avvertì il sospiro frenato di una potenza gigantesca, mai prima sfiorata da vicino. Si svegliò in lui il canto di terrore alla terra che sta in molti versi corti e a precipizio.

Forse Napoli gli allungò la vita, cioè gli prolungò quel po’ di trent’anni che gli spettavano, o almeno a lui sembrava di stare meglio. Stava comunque uno schifo, come annota in diario il poeta tedesco August von Platen, un tipo sarcastico e fiero punzecchiatore del Romanticismo.

Gli rese visita e lo trovò di aspetto “assolutamente orribile”. Descrive: “Senza potersi muovere e senza potersi applicare per lo stato dei suoi nervi, conduce una delle più miserevoli vite che si possano immaginare”.

In cambio Giacomo aveva Antonio Ranieri, che lo accolse a Napoli e l’accudì fino all’ultimo; in cambio aveva la città, affettuosa e spaventosa, intima, esposta. Ebbe stanze tra San Martino e Capodimonte, una curva di livello appena sopra il marasma dei vicoli. E a Torre del Greco la vide, la pianta che aveva saputo attecchire sulle pietre focaie, cotte nel profondo dei forni, vide la ginestra sui campi bruciati di Pompei. Vide splendere sulla devastazione l’arbusto difficile che profumava di zucchero e tirò fuori dal proprio corpo, avvinghiato agli ultimi mesi di vita, i trecentodiciassette versi del suo canto più lungo.

Capì che il Vesuvio era uno sterminatore. Non era l’Etna, che sfoga le sue pressioni a ondate, smaltendo il fuoco a rate. Il vulcano su Napoli era collera di materia imprigionata, natura indifferente a ogni vita, il ringhio di abissi “dall’utero tonante”. Ecco la madre, il grembo spaccato che dà fuoco al mondo, scotenna terre e fa bollire l’acqua in fondo ai pozzi: altro che vita, è strage. E gli sale alla gola il solfeggio sulfureo, il sarcasmo per gli entusiasti del progresso, delle scienze: venissero a vedere come erano state e stavano a cuore alla natura le magnifiche sorti degli umani. Spurga dalle sue ossa morenti la feroce cantica all’immenso e la più poetica denuncia sulla furia della terra.

Furono Napoli e il suo vulcano a raschiargli dal fondo dei malanni i più flegrei tra i versi. Chi è del luogo e non ne provi orgoglio, si è assopito.

Esiste qualche volta un vincolo di necessità tra un posto e un’opera che vi resta scritta e iscritta. E non c’entra niente l’ispirazione, ma una misteriosa estraneità tra dintorni e autore, un urto di stupori e di avversioni. Come l’isola di Patmos per Giovanni, proprio lì acciuffato dal vento della divinità che in dettatura gli impone la stesura dell’Apocalisse; come il castello di Duino per le elegie di Rilke: così il Vesuvio a Giacomo.

Lui lascia scritto il sentimento tellurico di un popolo disteso tra un vulcano e il mare. Mette in versi la notizia che demolisce l’arroganza di chi si crede residente in terra e invece sta come in un alveare tra gli orsi, ogni generazione esposta alle zampate.

Leopardi il gobbo, lo storpio di natura, è antenna di natura che elabora in canto il segnale di un popolo sismico, regale, radicato su lave come le ginestre.

Giacomo che aveva studiato l’ebraico antico aveva già incontrato nelle storie sacre la ginestra, il “rotem” sotto il quale Elia, il profeta inseguito, chiede di morire e sotto il quale si addormenta e sogna. Giacomo ha sentito combinarsi in sé il canto del poeta e il singhiozzo convulso del profeta.

Niente Funiculì funiculà, nessuna scampagnata sul cratere: per lui la ginestra del Vesuvio è quella di Elia, il sempreverde che dà ai suoi versi il compito di annuncio.

Allora cosa importa che al numero trenta di via Santa Teresa degli Scalzi, presso un balcone abusivo e sopra un cancelletto di alluminio, davanti a una boutique ci sia una lastra affumicata, cieca come la vista di Giacomo al suo arrivo: “Moriva in questa casa”? Che importa che la città l’abbia scordato?

Lui l’ha abitata in mezzo, l’ha spaccata in segreto tra il buon editore Starita che gli stampava i libri e il mal Borbone che li sequestrava per odore d’anticlero. Alla città ancora capitale di un ennesimo regno, di secoli e di popoli, ha lasciato in Ginestra il verso che le si addice a stemma: Caggiono i regni intanto,/ passan genti e linguaggi: ella nol vede.

Città, che razza d’ospiti hai avuto e con che principesca strafottenza li hai archiviati sottoterra.

Lascia stare, non correre a ripulire la targa, lascia alla malora la villa di Torre del Greco dove per trascurabile avventura fu stesa La ginestra, carta poetica del tuo terrore tellurico e della provvisorietà dei vivi sotto il sole. Sotto il sole: sotto il tuo, Giacomo seppe che Kohèlet l’Ecclesiaste si riferiva a un luogo senza ombra, né scampo, non a una spiaggia per bagnanti, ma al riverbero accecante di una salina.

E ora sono più di settant’anni che il Vesuvio trattiene sotto scorza la collera del suolo, mentre si inventano progetti di sfollamento in caso di crepa. Pensano di governare l’esilio di seicentomila persone come gli sciami di una transumanza, da un pascolo all’altro. I molto più disciplinati e molto meno numerosi olandesi, sotto l’incombere di una diga che stava cedendo non vollero lasciare le loro case e fu necessaria la forza. Nessuno vorrà essere spostato prima di vedere la lava in piazza, prima che sia tardi.

Perché il tardi contiene per intero il tempo necessario alla speranza e al miracolo. Così farei io stesso e così pure il “protettor civile”, se solo si provasse i panni dei suoi sprotetti. Gran parte di loro non ha altro e metterà in conto anche la vita pur di non lasciarlo. Certo, sanno anche loro quello che Giacomo annuncia infine alla ginestra predicendo il mestruo inevitabile del cratere: anche tu presto...

Ma il presto nelle cose di natura non implica la petulante scadenza di una cambiale e potrebbe pure saltare il turno di terrore di questa generazione. Se così sarà, il merito sarà di San Giorgio a Cremano, non un santo in persona ma un comune tra quelli esposti all’eruzione e patria di Massimo Troisi. Se per questa generazione si resterà nella tiepida anticamera del forno senza entrarci, sarà perché Massimo avrà ficcato una battuta delle sue lasciando in gola al Vesuvio la valvola di sfogo del gas di una risata.