I nostri due documenti scadevano nello stesso periodo. Andammo all’ufficio comunale del piccolo borgo con il formato tessera delle nostre facce, per il rinnovo delle carte d’identità.
Per entrare in auto si calava sul sedile con una caduta guidata. Per uscire metteva prima fuori le gambe, poi si dava qualche spinta per arrivare in punta al sedile. Da lì, per mettersi in piedi tentava un piccolo tuffo in avanti. Erano così anche i suoi giorni, avviati da una spinta della volontà. Se non riusciva, ricadeva indietro e riprovava: “C’a faccio, c’a faccio”. Non voleva essere aiutata. In piedi, si metteva sottobraccio e c’incamminavamo.
Le stanze dell’ufficio comunale stavano al primo piano di un vecchio palazzo. Ci arrivammo, facendo sosta ogni tre gradini. Le persone in salita e in discesa ci scansavano con cortesia. In paese si sta come le tegole sul tetto, che si passano l’acqua una con l’altra. Mamma forzava un sorriso a chi gliene faceva uno d’incoraggiamento.
Al primo piano liberarono per lei un posto a sedere. Al nostro turno entrammo in una stanza con delle scrivanie, l’impiegata si alzò e le cercò una sedia. Era di marzo, un po’ di sole tiepido e un resto di fioritura di mimosa davano smalto ai vetri. L’impiegata compilava i nostri documenti nuovi, mamma guardava fuori.
“Chist’ è l’ultimo rinnovo.” Mi prese alla sprovvista la sua frase intima, uscita nel posto pubblico. Ci metteva un po’ di napoletano per contrassegnare la sua provenienza, nel piccolo paese laziale.
“Che dice, signora? Lei è così giovane: l’avevo scambiata per la moglie del signore. Solo dai documenti mi sono accorta che siete madre e figlio.” L’impiegata lo disse schietta, alla paesana, per non far passare liscia la parola amara. La sua bella risposta coinvolse gli altri due tavoli della stanza che unirono le voci. Se mamma avesse detto: “Oggi è il mio compleanno”, non avrebbe ricevuto altrettanti auguri. Scosse la testa e sorrise per ringraziamento, continuando a guardare fuori il giallo opaco della mimosa stinta.
Prendemmo i documenti nuovi, l’impiegata si alzò in piedi, volle stringerle la mano e accompagnarla alla porta: “Cara signora Emilia, ci rivediamo alla prossima scadenza di rinnovo”. Mamma alzò le ciglia al soffitto aprendo il bianco intorno alle pupille azzurre. Appoggiata al mio braccio e alla ringhiera, scese i gradini con prudenza maggiore che in salita. “Hai sentito che ha detto? Te li porti male,” mi disse, degli anni.
Risposi altro: “Mi fa impressione quando mi chiamano signore. Pare che mi prendono in giro”.
“Pe’ fforza, vesti sciatto, non ti fai la barba, quattro capelli tieni ’ncapa e ognuno va per i fatti suoi.”
“Non lavoro a un ministero.”
Le nostre chiacchiere tornavano spesso sul mio aspetto scarso. Da lì proseguivano verso l’aglio. Ne mangiavo un paio di spicchi crudi a cena e lei mi avvisava dell’effetto che facevo sulle persone intorno: “Ti scansano, non te ne accorgi?”. E ripeteva a esempio un episodio.
Una sera, dopo la cena delle sette, ricevetti una telefonata dalla Rai, mi volevano per commentare un fatto del giorno all’ultimo telegiornale. Accettai, mi vennero a prendere e mi riportarono a casa. Mamma mi aspettava sveglia: “Hai visto chillu povero giornalista? Nun sapeva cchiù come scansarsi. S’era spostato in punta alla scrivania, cercava aria. Lo vuoi capire cha fai il vuoto intorno?”.
Lo capivo, ma l’aglio era l’ultimo degli ingredienti che mi avevano isolato. Prima ci avevano pensato i libri, nella stanzetta di Napoli, dove dormivo, sotto di loro. I libri mi hanno alzato barricate al cielo.
L’aglio non incentiva i baci, ma non è stato lui a conservarmi senza nozze. Scalino per scalino, scendemmo dall’ufficio comunale con le sue rimostranze. “Io mi so’ abituata, c’è voluta una vita. Nessuna vorrà abitare con te, dopo di me, e non per via dell’aglio. Tu fai sentire sola una persona che ti sta vicino.”
In macchina tornò col pensiero al documento nuovo. “’Sta carta d’identità, ho sbagliato a farne una nuova, non mi serve più.”
Per la seconda volta in quel mattino, la sua frase cadeva e non la raccoglievo. Dentro l’ufficio c’era stato il coro, nella macchina che guidavo verso casa non mi usciva la risposta di contrasto. Cercavo una battuta e non veniva, perciò guidavo e basta, zitto e insufficiente. Tanto più cordiali e pronti intorno a lei erano stati gli estranei dell’ufficio comunale.
Quel documento fatto allora insieme sta scadendo. Dovrò tornare all’ufficio di paese per rifarlo. Mi piglia il desiderio di lasciarlo stare. Niente ho saputo dire quel giorno di marzo e di mimose spente. Non ebbe risposta la sua frase di avviso che stava per scadere la nostra vita insieme.
Smettono, vanno a finire dentro un cassetto, vite e documenti, ma non vanno lasciati senza una parola. Un antico maestro, Akivà, disse: “Una siepe intorno alla saggezza è il silenzio”. Forse il suo era così, una siepe, ma un silenzio sbagliato arrugginisce il ferro dentro il sangue. Chi per insufficienza tace, è condannato a ripetere nel vuoto delle sere le parole di risposta che non vennero in tempo. “Chist’ è l’ultimo rinnovo.”
Adesso arriva a cantilena la battuta scarica: facciamo che è il penultimo.